Infanticidio

Luca Dell'Osta
Giuseppe Spadaro
Margherita Tudisco
Margherita Tudisco
21 Luglio 2022

Inserito nel titolo XII del libro II del codice penale («Dei delitti contro la persona»), e correttamente inquadrato tra i «delitti contro la vita e l'incolumità individuale», il reato previsto dall'art. 578 c.p. punisce, con la reclusione da 4 a 12 anni, la madre che cagioni la morte al proprio figlio nelle immediatezze del parto...
Inquadramento

*Bussola aggiornata da M. Tudisco

Inserito nel titolo XII del libro II del codice penale («Dei delitti contro la persona»), e correttamente inquadrato tra i «delitti contro la vita e l'incolumità individuale», il reato previsto dall'art. 578 c.p. punisce, con la reclusione da 4 a 12 anni, la madre che cagioni la morte al proprio figlio nelle immediatezze del parto, qualora il fatto sia determinato da una particolare condizione, ossia quella di «abbandono materiale e morale» (art. 578 comma 1 c.p.), la quale sia a sua volta appunto connessa all'evento del parto.

Le problematiche di rilievo che riguardano l'articolo in esame – e di cui si renderà analiticamente conto nel prosieguo della trattazione – possono essere riconducibili agli aspetti di natura temporale (la disposizione recita, testualmente: «immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto»; di conseguenza, qual è il discrimine tra il reato di infanticidio, di cui all'art. 578 c.p., e quello di omicidio ex art. 575 c.p., o di aborto ex artt. 17 e ss. l. n. 194/1978?), e al valore da attribuire alla condizione «di abbandono materiale e morale connesse al parto» che è il presupposto logico affinché il fatto possa essere inquadrato nella fattispecie di cui trattasi.

Può essere utile, in tal senso, non solo fare riferimento alla (non copiosissima) giurisprudenza sul punto, ma anche istituire un confronto con il testo precedente alla riforma della l. n. 442/1981 (Abrogazione della rilevanza penale della causa d'onore).

Il “vecchio” art. 578 c.p. e la causa d'onore

L'infanticidio nasce nel codice Zanardelli come un'ipotesi circostanziata ed attenuante dell'omicidio per poi assumere una propria autonomia nel successivo codice Rocco. Qui nell'originaria formulazione dell'art. 578 c.p. era prevista quale elemento specializzante rispetto alla fattispecie generale, la “causa d'onore”, intesa come necessità di salvaguardare il proprio onore sessuale o quello di un prossimo congiunto. Il mutare dei costumi e della sensibilità sociale in materia di rapporti familiari indusse il legislatore a riformulare la fattispecie con la citata l. n. 442/1981 (così Cass. pen., sez. I, 7 ottobre 2010, n. 40993; sulle differenze tra la vecchia e la nuova formulazione del reato in questione, si veda anche Cass. pen., sez. I, 10 novembre 1987, n. 3326), sostituendo la causa d'onore con le condizioni di abbandono morale e materiale. La novella in parola, invero, ha inciso altresì sull'identificazione dei soggetti attivi del reato che, di conseguenza, non venivano più individuati in coloro che agivano per salvaguardare il proprio onore bensì nella sola madre.

Soggetti attivi

Il reato in questione rientra nel novero dei reati propri: di conseguenza, l'unico soggetto attivo – come d'altra parte suggerisce chiaramente il testo della norma – è «la madre» del neonato o del feto a cui viene tolta la vita. Ecco che, dal punto di vista del soggetto agente, come già accennato, v'è una significativa differenza rispetto alla vecchia formulazione dell'articolo, che prevedeva invece un reato comune, punendo “chiunque” avesse compiuto il fatto sospinto dal movente della tutela del proprio onore.

Il secondo comma dell'articolo in questione chiarisce che ai concorrenti nel reato si applica la pena della

«reclusione non inferiore ad anni ventuno» (art. 578 comma 2 c.p.), che è la stessa pena prevista dall'art. 575 c.p.per l'omicidio. Nel caso poi in cui il movente del correo sia quello di «favorire la madre» (art. 578 comma 2 c.p.), la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi.

Sul punto, parte della dottrina ritiene irragionevole applicare una pena più severa a coloro che, condividendo a vario titolo (parentale o amicale) la situazione psicologica della donna, abbiano agito al solo scopo di favorirla, a volte anche apportando un contributo causale di gran lunga inferiore a quello della madre.

Altro orientamento, al contrario, ritiene che non vi siano le ragioni che giustificherebbero l'applicazione della pena più mite prevista dal reato in commento, in luogo di quella del reato di omicidio.

Ci si deve ora chiedere quale sia il trattamento sanzionatorio applicabile nell'ipotesi in cui il concorrente, al fine di agevolare la donna, sia lo stesso padre. In questo caso, non vi è dubbio né che anch'egli possa fruire dell'attenuante e neppure che, ove essa non venga riconosciuta o concessa, la previsione di pena sia quella per il reato base e cioè la reclusione non inferiore ad anni ventuno.

Giova precisare che la condotta dell'extraneus nel reato dell'intraneus può connotarsi sia sotto il profilo materiale sia sotto quello morale.

Tale impostazione, che guarda più che altro alla rimproverabilità del fatto compiuto dal colpevole e dagli eventuali correi, è giustificabile qualora si analizzi la fattispecie in un'ottica generale che ha visto il legislatore prevedere, rispetto all'omicidio, pene più contenute esclusivamente per la madre che, a causa delle

condizioni materiali e morali di abbandono in cui si trova, cagioni la morte del proprio figlio. A ben vedere, non possono sussistere in capo a un qualsiasi correo quegli stessi elementi oggettivi e soggettivi che hanno spinto il legislatore a prevedere un trattamento agevolato per la madre, pertanto va da sé che la pena applicabile è quella prevista per l'omicidio, ridotta da un terzo a due terzi qualora l'agente si sia limitato ad agire al solo scopo di favorire la madre nel suo intento.

Per la Corte di Cassazione, la ratio giustificativa della fattispecie novellata e del differente regime sanzionatorio rispetto al delitto di omicidio volontario deve essere colta non sotto il profilo oggettivo, trattandosi comunque di un'offesa arrecata al bene giuridico della vita umana, bensì sul piano soggettivo, dato che il fatto è meno “colpevole” in considerazione delle condizioni di turbamento psichico ed emotivo connesse al parto e al contesto di particolare difficoltà in cui esso viene a collocarsi (Cass. pen., sez. I, 7 ottobre 2010, n. 40993).

Soggetti passivi

Due possono essere i soggetti passivi della fattispecie de qua:

  • il feto «durante il parto» (feticidio);

il neonato «immediatamente dopo il parto» (infanticidio).

Il feticidio presuppone che sia compiuto il processo fisiologico della gravidanza e che la morte del feto, quale prodotto del concepimento che sia ancora un tutt'uno con la madre grazie al cordone ombelicale, intervenga nel lasso temporale che intercorre tra il distacco dall'utero materno e il momento in cui acquista vita propria.

L'infanticidio, al contrario, presuppone che il neonato, quale prodotto della gestazione, sia completamente uscito dal ventre materno, acquisendo vita autonoma tramite la recisione del cordone ombelicale.

Per quanto riguarda la portata dell'avverbio «immediatamente» (e, di conseguenza, il discrimine tra infanticidio e omicidio), ci si riferisce a quella condizione «di turbamento psichico che costituisce la ragione del diverso trattamento sanzionatorio rispetto all'omicidio volontario».

La locuzione in parola, invero, non comporta solo un accertamento di carattere cronologico ma richiede altresì una valutazione volta a stabilire se la prossimità temporale della condotta di soppressione del neonato al parto possa corrispondere all'insorgere e al perdurare di quel particolare stato psichico (esasperazione, angoscia o altro) che costituisce la causa determinante del delitto de quo.

La Suprema Corte ha tuttavia escluso che possa ravvisarsitale immediatezza qualora la morte sia cagionata oltre i due giorni dal parto (Cass. pen., sez. I, 12 giugno 1989, n. 10434); in tal caso, ha ritenuto che sussistesse il più grave reato di omicidio volontario ex art. 575 c.p..

Qualora lo stato di abbandono morale e materiale (sul quale si veda il prossimo paragrafo) sia stato artatamente e volontariamente creato e ricercato dalla partoriente, e mantenuto al fine precipuo di farne derivare la morte del nascituro, l'evento andrà correttamente inquadrato nella fattispecie ex art. 575 c.p. (omicidio) e non in quella di cui all'articolo qui in esame (infanticidio), dal momento che il decesso è collegato causalmente alle condizioni di abbandono materiale e morale, «che hanno a loro volta determinato la causa patologica fisica ultima dell'evento letale» (così Cass. pen., sez. I, 3 maggio 1988, n. 10413; successivamente si è pronunciata nello stesso modo anche Cass. pen., sez. I, 26 maggio 1993, n. 7756).

Giova a questo punto soffermarsi brevemente sulla differenza che sussiste tra infanticidio/feticidio e aborto, qualificato come ogni interruzione del processo fisiologico della gravidanza con la conseguente morte del feto, fino al momento del parto: la Cassazione ha chiarito che la condotta punita dalla l. n. 194/1978si realizza in un momento che precede il distacco del feto dall'utero materno e coincide con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina ((così Cass. pen., sez. I, 18 ottobre 2004, n. 46945). Di conseguenza, qualora la condotta diretta a sopprimere il prodotto del concepimento sia posta in essere dopo il distacco, naturale o indotto, del feto dall'utero materno, il fatto, in assenza dell'elemento specializzante delle condizioni di abbandono materiale e morale della madre, previsto dall'art. 578 c.p., configura il delitto di omicidio volontario di cui agli artt. 575 e 577 c.p. (Cass. pen., sent. 46945/2004).

È interessante affrontare brevemente la questione che ha recentemente interessato la Corte di Cassazione in merito alla morte del feto per asfissia posto che involge altresì alcune considerazioni sul reato di cui all'art. 578 c.p.

Orbene, il caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte riguardava il caso di un feto morto per asfissia perinatale (che dunque non aveva mai respirato) e che si era verificata durante la fase del travaglio.

Lungi dall'analizzare in questa sede le responsabilità che sono state ravvisate in capo agli operatori sanitari (rinviando alla pronuncia Cass. pen., sez. IV, 30 gennaio 2019, n. 27539) può però essere d'interesse ripercorrere l'iter logico-giuridico che ha condotto gli ermellini ad escludere il reato di infanticidio prospettato da una delle parti. Orbene, la Corte ha ritenuto infondato il richiamo all'art. 578 c.p. in quanto sia l'infanticidio sia il feticidio sono contraddistinti dall'elemento specializzante della sussistenza delle condizioni di abbandono morale e materiale legate al parto, nonché del momento specifico in cui avviene l'azione criminosa, durante e immediatamente dopo il parto. In assenza di tale presupposto ontologico, la condotta della madre volta a sopprimere il prodotto del suo concepimento integra il più grave reato di omicidio ex art. 575 c.p. se commesso dopo il distacco, naturale o indotto, del feto dall'utero materno o il reato di procurato aborto se commessa prima di tale momento. Il bene giuridico tutelato dai reati di omicidio e di infanticidio è il medesimo: la vita dell'uomo nella sua interezza così come anche la condotta materiale che determina l'integrazione dei due reati è la stessa ossia “cagionare la morte”. Si badi che la morte non può che essere cagionata ai danni di un soggetto vivo poiché i due reati tutelano la vita umana fin dal suo momento iniziale.

Nel concetto di uomo, indicato quale persona offesa del reato di cui all'art 575 c.p., rientra anche il feto nascente. La Corte, nella pronuncia in commento, precisa che il termine feto, nel dettato normativo dell'art. 578 c.p., è usato in senso improprio: poiché il nascente vivo non è più feto bensì persona. Allo stesso modo il termine aborto utilizzato nella l. 194 del 1978 non coincide con il concetto di aborto proprio della scienza medica, ossia l'interruzione della gravidanza, spontanea o artificiale, entro il 180esimo giorno dal concepimento. Secondo la nozione giuridica penale, l'aborto è invece ogni interruzione del processo fisiologico della gravidanza con la conseguente morte del feto.

Il momento che determina dunque la distinzione tra il reato di omicidio e quello di feticidio è l'inizio del travaglio, che coincide con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina e quindi il raggiungimento dell'autonomia del feto.

Nel caso di specie, quindi, la Corte ha ritenuto correttamente configurata l'ipotesi delittuosa di omicidio colposo in quanto la sofferenza fetale risultata letale si è verificata durante il travaglio quindi quando il nascituro poteva già essere ricompreso nel concetto giuridico di “uomo” di cui alle ipotesi di omicidio.

Preme ìnfine operare una distinzione tra il reato di infanticidio e quello di figlicidio: quest'ultimo si configura laddove il figlio venga ucciso ad opera dei genitori, e si presenta dunque come aggravante dell'omicidio; il reato che si ravvisa è dunque quello previsto all'art. 575 c.p.

Elemento oggettivo e soggettivo

Ovviamente, presupposto indispensabile per la consumazione del reato qui in commento (ma anche degli altri reati richiamati e confrontati con l'infanticidio, ossia l'omicidio e l'aborto), è che il feto o il neonato sia vivo fino al realizzarsi della condotta che ne cagiona la morte, pur non richiedendosi che esso sia altresì vitale ovvero immune da anomalie anatomiche e patologiche funzionali, potenzialmente idonee a causarne la morte in tempi brevi, «perché costituisce omicidio anche solo anticipare di una frazione minima di tempo l'evento letale» (Cass. pen., sez. I, 18 ottobre 2004, n. 46945). L'elemento oggettivo del reato può essere infatti individuato nella causazione della morte del feto durante il parto o del neonato subito dopo di esso.

In questo senso, sarà compito dei sanitari verificare la condizione del soggetto passivo al momento della condotta posta in essere dalla madre; qualora sia verificato che il prodotto del concepimento era già morto, opererà la previsione di cui all'art. 49 comma 2 c.p., per la quale la punibilità è esclusa in considerazione dell'impossibilità dell'evento dannoso a causa dell'«inesistenza dell'oggetto».

Altro elemento oggettivo costitutivo è poi la situazione di abbandono materiale e morale (più approfondita infra) che deve ritenersi concretizzata quando la madre è lasciata in balia di se stessa e venga a trovarsi, in prossimità del parto, in uno stato di derelizione e isolamento che non consente l'intervento o l'aiuto di terzi né un qualsiasi soccorso materiale o morale per cui disperi di poter assicurare la sopravvivenza al neonato (Cass. pen., sez. I, 15 aprile 1999, n. 9694; Cass. pen., 10 febbraio 2000).

Tale stato, tuttavia, non deve essere meramente contingente ma deve perdurare e connotarsi quale condizione di vita della gestante/madre, carente di mezzi e di rapporti socio-economici oltre che affettivi; il giudice di merito deve procedere ad una valutazione oggettiva, insindacabile in sede di legittimità, sempre che il giudizio risulti correttamente motivato ed immune da vizi logici (Cass. pen., sez I, 13 giugno 1991, n. 8489).

Trattasi di reato a forma libera atteso che il legislatore non predetermina le modalità attraverso le quali deve essere realizzata la condotta purché la stessa sia idonea a ledere il bene giuridico protetto e dunque a “cagionare la morte”.

Per quanto riguarda poi l'elemento soggettivo, e contrariamente alla vecchia formulazione dell'art. 578 c.p., per l'integrazione del reato de quo è sufficiente il dolo generico, consistente nella consapevolezza di cagionare la morte del neonato o del feto. Non è invece prevista una fattispecie colposa pertanto (in presenza di “colpa” della madre, il fatto sarà contestabile esclusivamente ai sensi dell'art. 589 c.p., omicidio colposo).

L'elemento psicologico è anche il requisito che permette di distinguere il reato di abbandono di persone minori ex art. 591 c.p. dal reato di infanticidio (anche a titolo di dolo eventuale). Nel caso del delitto di cui all'art. 591 c.p., l'elemento soggettivo è costituito dalla coscienza e volontà di abbandonare il minore, con la consapevolezza dei potenziali pericoli, conseguenti al suo stato di incapacità di difesa o di percezione dei pericoli, a cui resterebbe esposto. Nel caso dell'infanticidio, al contrario, vi sono invece la volontà e la consapevolezza di cagionare la morte del feto o del neonato (cfr. Cass. pen., sez. I, 18 dicembre 1991, n. 2269), e il reato di abbandono deve ritenersi assorbito da quello ex art. 578 c.p. (infanticidio) dal momento che la condotta del soggetto attivo è finalizzata all'ottenimento di un altro scopo che non sia quello meramente abbandonico. È altresì prospettabile un'imputazione del reato di infanticidio a titolo di dolo eventuale qualora la madre si sia prospettata la possibilità che la sua condotta conducesse alla morte del neonato e tuttavia se ne sia assunta il rischio, senza desistere.

Circostanze

Per la genericità ed ampiezza della terminologia impiegata dal legislatore, il tentativo di definire e circoscrivere le condizioni «di abbandono materiale e morale» di cui parla l'art. 578 c.p. e che sono presupposto per l'applicazione della fattispecie de quo., ha da sempre dato notevoli problemi interpretativi.

Va specificato – come d'altra parte aveva puntualmente rilevato la Corte di Cassazione (cfr. Cass. pen., sez. I, 7 ottobre 2010, n. 40993) – che vi erano due orientamenti giurisprudenziali, l'uno più restrittivo e l'altro, per così dire, individualizzante.

Orientamenti a confronto

Le condizioni di abbandono materiale e morale

Interpretazione restrittiva del concetto di “abbandono materiale e morale”

Per tale orientamento, la situazione di abbandono richiesta dalla norma deve essere verificata in senso oggettivo. In particolare:

- è necessario che la madre sia lasciata in balia di se stessa, senza alcuna assistenza e nel completo disinteresse dei familiari, in modo che venga a trovarsi in uno stato di isolamento totale che non lasci prevedere alcuna forma di soccorso o di aiuto finalizzati alla sopravvivenza del neonato (Cass. pen., sez. I, 17 aprile 2007, n. 24903);

- ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 578 c.p., la situazione di abbandono materiale e morale della madre deve ritenersi realizzata quando essa è lasciata in balia di se stessa senza assistenza e con palesi manifestazioni di completo disinteresse, sicché la persona è resa certa di trovarsi in uno stato di isolamento che non lascia prevedere aiuto o soccorso (così Cass. pen., sez. I, 10 febbraio 2000, n. 2906), né l'intervento di terzi né un qualsiasi soccorso materiale o morale per cui disperi di poter assicurare la sopravvivenza al neonato (così Cass. pen., sez. I, 15 aprile 1999, n. 9694). Dello stesso tenore anche Cass. pen., sez. I, 18 novembre 1991, n. 31.

- il concetto di abbandono materiale e morale deve essere inteso come uno stato di derelizione, di solitudine, di emarginazione, di carenza di mezzi e di rapporti socio-economici oltre che affettivi, in cui si viene a trovare la madre enucleata dal suo abituale ambiente umano. Inoltre le suddette condizioni devono essere “connesse” al parto; quindi non basta la loro semplice ed oggettiva preesistenza all'evento naturale della nascita, ma occorre che questa si verifichi mentre la madre si trova immersa nelle predette condizioni sì da esserne psicologicamente ed eziologicamente condizionata al punto da essere indotta alla uccisione del proprio neonato (Cass. pen., sez. I, 3 ottobre 1986, n. 1007; più recentemente, Cass. pen., sez. V, 26 maggio 1993, n. 7756).

In senso ancora più restrittivo, per cui la situazione di abbandono deve sussistere da tempo: 'infanticidio postula uno stato di abbandono della madre inteso non come fatto contingente legato al momento culminante della gravidanza, bensì come condizione di vita, che si sostanzia nell'isolamento materiale e morale della donna dal contesto familiare e sociale (situazione d'indigenza e difetto di assistenza pubblica e privata; solitudine causata da insanabili contrasti con parenti e amici e conseguente allontanamento spontaneo o coatto dal nucleo originario di appartenenza e così via) produttivo di un profondo turbamento spirituale, che si aggrava grandemente, sfociando in una vera e propria alterazione della coscienza, in molte partorienti immuni da processi morbosi mentali e tuttavia coinvolte psichicamente al punto da smarrire almeno in parte il lume della ragione (Cass. pen., sez. I, 7 ottobre 2009, n. 41889; più risalente, Cass. pen., sez. I, 25 novembre 1999, n. 1387)

Interpretazione “individualizzante” del concetto di “abbandono materiale e morale”

L'integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell'ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto (Cass. pen., sez. I, 23 maggio 2013, n. 26663; nei medesimi termini anche Cass. pen., sez. I, 7 ottobre 2010, n. 40993, che prosegue sostenendo che non è corretto ricondurre la gravidanza – e il conseguente stato di abbandono morale e materiale – ad aspetti meramente clinici, con un approccio esclusivamente medicale: «diventare “madre” è un processo complesso, che ha inizio ben prima della nascita del figlio e che richiede alla donna di sottoporsi ad un'articolata esperienza psicologica individuale, ad un difficile percorso di riadattamento della propria organizzazione psichica, ad una profonda trasformazione identitaria, implicante la rivisitazione dei rapporti familiari (in particolare quello con la genitrice) al fine di elaborare una propria identità di madre. In proposito, un'autorevole dottrina sottolinea che, nel corso della gravidanza, la donna deve transitare dal periodo di identificazione ed accettazione del feto quale parte di sé, alla formulazione di un nuovo io che comprende anche il feto, in una sorta di “unità duale”, e da questa giungere all'elaborazione del concetto del feto quale “altro da sé”, posizione propedeutica alla sua separazione»);

Lo stato di abbandono materiale e morale in cui deve versare il colpevole del reato di infanticidio non è ontologicamente incompatibile con la presenza nel territorio, ove il parto si verifica, di strutture socio-sanitarie idonee, sempreché l'agente si trovi nelle condizioni sociali e culturali di utilizzare detti sussidi, secondo una valutazione da compiersi in concreto da parte del giudice di merito (Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1991, n. 8489);

Quando la madre si venga a trovare isolata nel seno della propria famiglia e privata dell'affetto e delle cure dell'uomo con il quale abbia concepito il neonato, essa viene a vivere condizioni di abbandono materiale e morale di tal che l'azione consumata (morte del neonato) appare rettamente ricondotta nello schema legislativo di cui all'art. 578 c.p. perché quelle condizioni di abbandono non possono essere ovviate dal ricorso da parte dell'agente, al momento del parto, all'aiuto di presidi sanitari o di altre strutture (Cass. pen., sez. I, 10 novembre 1987; la medesima pronuncia, tuttavia, ritiene che «le condizioni di abbandono materiale e morale, di cui al primo comma, debbono coesistere congiuntamente ed oggettivamente, non potendo essere semplicemente presupposte»)

Se il primo orientamento sopra richiamato è stao per anni quello (almeno quantitativamente) maggioritario, nel senso che si registra un numero di pronunce particolarmente elevato che condividevano tale impostazione, il secondo orientamento, seppur quantitativamente «minoritario» (come riconosciuto anche da Cass. pen., sez. I, 7 ottobre 2010, n. 40993), pare informare le pronunce più recenti, tanto da far pensare che la Corte di legittimità abbia compiuto un revirement definitivo e si sia ormai orientata verso un'interpretazione individualizzante della condizione di abbandono materiale e morale. In questo senso si sono infatti espressi gli ermellini confermando, con un recentissimo arresto giurisprudenziale, che “l'integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell'ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto” (Cass. pen., sez. I, 22 gennaio 2021, n. 28252; Cass. pen., sez. I, 25 maggio 2013, n. 26663; Cass. pen., sez. I, 7 ottobre 2010, n. 40993). Una siffatta conclusione, oggi maggioritaria, pare anche più coerente con una lettura logico-sistematica e con la ratio della norma, sostenuta dalla constatazione che diversi fattori, tanto biologici quanto sociali e relazionali, possono svolgere un ruolo attivo nel determinismo dell'evento delittuoso.

Va comunque chiarito il concetto di abbandono materiale e morale, che deve essere necessariamente legato al parto (Cass. pen., sez. I, 3 ottobre 1986, n. 1007) è qualcosa di intrinsecamente diverso dal concetto di abbandono cui fa riferimento l'art. 591 c.p. (Abbandono di minori o incapaci; si veda anche la relativa Bussola).

Infanticidio mediante omissione

La giurisprudenza ha chiarito che è possibile l'integrazione del reato di infanticidio mediante omissione nel caso della madre che lasci morire il proprio neonato, omettendo di nutrirlo o abbandonandolo in luoghi freddi, o altresì, mediante la mancata attivazione dei genitori della figlia minore che abbia commesso il reato di infanticidio. Come noto, infatti, la clausola di equivalenza prevista all'art. 40 c.p.pone sullo stesso piano il cagionare un evento e il non impedirlo, qualora si abbia l'obbligo giuridico di attivarsi.

Tale disposizione ha inteso estendere la punibilità della condotta illecita a carico di determinati soggetti per eventi che colpiscono altre persone e che non siano da loro procurati, perché conseguenti all'azione di terzi e di altri fattori anche di natura accidentale, ma che si sarebbero evitati se il soggetto su cui ricade l'obbligo di attivarsi avesse posto in essere la condotta doverosa richiesta dall'ordinamento.

Nel caso di genitori e figli, la norma che viene in rilievo è l'art. 2048 c.c., che prevede la responsabilità dei genitori per i danni cagionati dai figli minori con il limite del «non aver potuto impedire l'evento». È pertanto possibile affermare la penale responsabilità dei genitori, per il reato di infanticidio, qualora sussistano anche i «seguenti ulteriori elementi: 1) conoscenza o riconoscibilità della situazione di pericolo; 2) conoscenza o riconoscibilità dell'azione doverosa; 3) conoscenza o riconoscibilità dei mezzi necessari al raggiungimento del fine; 4) possibilità oggettiva di agire» (Cass. pen., sez. I, 21 settembre 1992, n. 9901; caso in cui il reato di infanticidio era contestato anche ai genitori della figlia minorenne).

Infanticidio e vizio di mente

La giurisprudenza, nell'ambito del delitto di infanticidio, prima della riforma, aveva ammesso la possibilità della coesistenza della causa d'onore con il vizio parziale di mente, sia quando quest'ultimo derivasse da una preesistente infermità psichica, sia quando si ponesse in relazione con il parto stesso, senza che venisse esclusa l'applicabilità dell'art. 88-89 c.p. Giova evidenziare che l'infermità mentale non deve essere confusa con quel turbamento psichico, determinato dal parto, che deve essere considerato quale elemento specializzante ai fini della configurazione del reato ed agli effetti della pena. Tuttavia, quando tale stato emotivo trascenda in una infermità totale o parziale di mente, trovano applicazione le disposizioni degli artt. 88 e 89 c.p.

Il confine tra i due stati emotivi risulta talvolta labile per questo è necessario che il Giudice ne demandi l'accertamento ad un professionista.

Profili processuali

La competenza per giudicare il reato in esame è del tribunale collegiale, ad esclusione della prima ipotesi del secondo comma (concorrenti nel reato), nel qual caso è competente la corte d'assise.

Il reato è sempre procedibile d'ufficio. L'arresto è facoltativo, e obbligatorio nella sola ipotesi del secondo comma. Il fermo è consentito.

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