La parziale deducibilità dell'IRAP dall'IRES alla luce del principio di ragionevolezza

08 Agosto 2022

La Corte Costituzionale ha individuato il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. quale parametro fondamentale per valutare la coerenza delle scelte discrezionali del legislatore tributario rispetto a un presupposto d'imposta stabilito ex ante. Questo percorso logico è stato adoperato più volte dai giudici, non solo per quanto concerne le norme con cui sono istituite o regolate specifiche forme di tassazione, ma anche, come dimostrato in alcune importanti pronunce, dal lato dei meccanismi di determinazione della base imponibile.
Premessa

La Corte Costituzionale ha individuato il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. quale parametro fondamentale per valutare la coerenza delle scelte discrezionali del legislatore tributario rispetto a un presupposto d'imposta stabilito ex ante. Questo percorso logico è stato adoperato più volte dai giudici, non solo per quanto concerne le norme con cui sono istituite o regolate specifiche forme di tassazione, ma anche, come dimostrato in alcune importanti pronunce, dal lato dei meccanismi di determinazione della base imponibile*.

In evidenza*

Cfr. Corte Cost., sent. n. 10/2015, par. 6.2, sulla incostituzionalità della c.d. Robin Tax. Secondo i giudici, la struttura dell'imposta, la cui base imponibile era costituita dall'intero reddito, non era coerente con la ratio di colpire il sovra profitto delle aziende del settore energetico: se quest'ultimo, per scelta del legislatore, assurgeva a presupposto, era incoerente la costruzione di una base imponibile, ugualmente regolata dal legislatore, commisurata all'intero reddito.

Sempre sulle norme relative a specifiche forme di tassazione, si richiamano anche le sentenze della Corte n. 116/2013, riguardante l'introduzione dei contributi di perequazione con natura tributaria e n. 223/2012, riferita a forme di prelievo nei confronti di determinate categorie di lavoratori dipendenti.

Quanto ai profili di ragionevolezza delle disposizioni sulla determinazione della base imponibile, la Corte è recentemente intervenuta con la sent. n. 262/2020 sull'incostituzionalità del divieto di deduzione dell'Imu sugli immobili strumentali dalle imposte sui redditi e dall'Irap e con la sent. n. 12/2022 sulla rilevanza al 50 per cento, nella costruzione della base imponibile Irap, dei dividendi percepiti dalle banche e dagli altri soggetti finanziari.

In virtù di tale impostazione, con il presente contributo si propone una riflessione sulla parziale deducibilità dell'Irap dall'Ires [Secondo l'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 446/1997 l'Irap “ha carattere reale e non è deducibile ai fini delle imposte sui redditi”. Questa integrale indeducibilità è stata ridisegnata dapprima dall'art. 6 del d.l. n. 185/2008 e, successivamente, dall'art. 2 del d.l. n. 201/2011, con i quali è stato introdotto un parziale riconoscimento riferito alle spese per interessi passivi (c.d. deduzione forfetaria) e per il personale dipendente (c.d. deduzione analitica)] e, quindi, sul rapporto tra la costruzione della relativa base imponibile e il possesso di un reddito complessivo netto quale presupposto d'imposta. Il tema, sebbene ampiamente affrontato in passato, sembra trovare un rinnovato interesse proprio per effetto della costante affermazione del canone di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte.

Dopo aver ripercorso le passate vicende di costituzionalità dell'Irap, l'indagine prende in esame la specifica natura degli oneri fiscali e le declinazioni in ordine ai principi di inerenza e antieconomicità dei costi, cercando di evidenziare le criticità di un riconoscimento solo parziale dell'Irap, attesa soprattutto la sua assimilazione a vero e proprio fattore della produzione aziendale, nonché l'inerenza all'attività d'impresa concretamente esercitata.

La “ragionevolezza” delle disposizioni tributarie

Nella prospettiva più recente della Corte costituzionale, il principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost. rappresenta una proiezione, nella materia fiscale, del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3: è come se quest'ultimo fosse una sorta di contenitore nel quale gli indici di capacità contributiva costituiscono i parametri rilevanti per riscontrare un eventuale difetto della necessaria parità di trattamento tra i consociati (S. La Rosa, “Riflessioni sugli «interventi guida» della Corte Costituzionale in tema di eguaglianza e capacità contributiva”, in L'evoluzione dell'ordinamento tributario italiano, Atti del Convegno, I settanta anni di Diritto e Pratica Tributaria (Genova 2-3 luglio 1999), Padova 2000, pag. 190-191.). All'interno di tale perimetro, il legislatore tributario è quindi tenuto a riservare uguale trattamento a tutte quelle situazioni in cui si sia manifestata la medesima capacità e, di converso, il trattamento deve risultare differenziato in presenza di situazioni diverse.

La Corte, tuttavia, ha rimarcato anche che la Costituzione non obbliga a una tassazione uniforme per tutte le tipologie di imposizione, essendo necessario, invece, un costante raccordo con la nozione di capacità contributiva proprio quale applicazione del fondamentale principio di uguaglianza (P. Boria, “L'illegittimità costituzionale della Robin Hood Tax. E l'enunciazione di alcuni principi informatori del sistema di finanza pubblica” in GT - Rivista di giurisprudenza tributaria n. 5 del 2015, pag. 384).

Ne consegue che l'esistenza di specifiche modulazioni del sistema tributario è ammissibile esclusivamente in assenza di una violazione di tali precetti costituzionali e che, se si assume la capacità contributiva quale proiezione dell'uguaglianza, allora l'indagine deve guardare alla coerenza interna e alla razionalità delle disposizioni tributarie.

In quest'ottica si colloca la consolidata tendenza della Corte stessa di consegnare al legislatore il principio di ragionevolezza, inteso proprio nel senso di coerenza interna, quale canone per sindacare la legittimità delle norme e per scongiurare che non risultino irragionevoli, arbitrarie o ingiustificate le modalità con cui i diversi elementi del rapporto tributario sono regolati: nella disciplina di ciascun tributo, ciò implica che, assunto un presupposto d'imposta quale indice di una particolare capacità contributiva, ogni successiva fattispecie imponibile debba essere coerente con quel presupposto (Cfr. Corte Cost., sent. n. 262/2020, par. 3.2, dove, secondo il ragionamento della Corte, il giudizio di legittimità verte “sull'uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell'imposta con il suo presupposto economico”).

Questo percorso logico è stato adoperato in diverse pronunce di costituzionalità, riferite tanto a disposizioni con cui venivano istituite o regolate specifiche forme di tassazione, quanto alle norme sui meccanismi di calcolo della base imponibile. Tra queste ultime, si richiamano la sent. n. 262/2020 sull'indeducibilità dell'Imu assolta sugli immobili strumentali dalle imposte sui redditi e dall'Irap, e la n. 12/2022 sulla rilevanza, ai fini della base imponibile Irap, del 50 per cento dei dividendi per le banche e gli altri enti e società finanziarie. Tali sentenze costituiscono un fondamentale riferimento per le riflessioni che qui ci si è ripromessi di sviluppare [in entrambi i giudizi, infatti, la Corte ha richiamato l'uso ragionevole e coerente dei poteri discrezionali del legislatore nelle scelte sulla base imponibile rispetto al presupposto d'imposta].

Segue: la ragionevolezza nelle scelte sulla base imponibile

Nella sent. n. 262/2020, in particolare, la Corte ha esaminato la norma sull'indeducibilità dell'Imu, assolta sugli immobili strumentali, dalle imposte sui redditi e dall'Irap [secondo l'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23/2011, “l'imposta municipale propria è indeducibile dalle imposte erariali sui redditi e dall'imposta regionale sulle attività produttive”. Il dubbio di costituzionalità ha preso le mosse dal rifiuto tacito di rimborso della maggiore Ires pagata per effetto dell'indeducibilità dell'Imu.

Con l'ordinanza di rimessione n. 191/2019 della CTP di Milano, il giudice a quo ha avanzato una lesione del divieto di doppia imposizione, inteso quale estrinsecazione del principio costituzionale di capacità contributiva ex art. 53 Cost.], dichiarandone l'illegittimità costituzionale, per violazione degliartt. 3 e 53 Cost., nel solo 2012 e salvaguardando la deduzione forfetaria per le annualità successive [L'art. 1, commi 715 e 716, della l. n. 147/2013 ha introdotto una deducibilità parziale del 30 per cento per il periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2013 e del 20 per cento dal 1° gennaio 2014. Inoltre, prima con l'art. 3, comma 1, del d.l. n. 34/2019 e poi con l'art. 1, commi 4, 772 e 773, della l. n. 160/2019, le percentuali sono state così rimodulate:

i) 50 per cento per il periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2018;

ii) 60 per cento per il periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019 e per il successivo a quello in corso al 31 dicembre 2020;

iii) 100 per cento per i periodi d'imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2021.].

Oltre alla concezione solidaristica del principio di capacità contributiva*, dalla decisione emerge la volontà dei giudici di utilizzare congiuntamente gli artt. 3 e 53 della Carta. Per formare il proprio convincimento, infatti, la Corte non si è limitata a valutare l'eventuale lesione della capacità contributiva, ma ha guardato anche al principio di uguaglianza sotto il profilo dell'uso ragionevole e coerente dei poteri discrezionali del legislatore, sia nelle scelte sul presupposto d'imposta che in quelle sulla determinazione della base imponibile. Impiegando il parametro di ragionevolezza, i giudici hanno messo in relazione un primo livello di analisi, individuabile nella scelta del reddito complessivo netto quale presupposto dell'IRES, con un secondo livello, rappresentato dalla norma, oggetto di analisi, sull'indeducibilità dell'Imu [qualora, invece, il giudizio si fosse basato sulla sola violazione della capacità contributiva, sarebbe stato sufficiente un mero confronto tra l'art. 53 e la stessa norma di indeducibilità vagliata. In questo senso, definisce un'analisi a due livelli G. Zizzo, "La deduzione dell'Imu tra doveri costituzionali e virtù politiche" in Rassegna Tributaria n. 3 del 2021, pag. 771.].

*In evidenza
Sulla concezione solidaristica del principio di capacità contributiva desumibile dalla sent. n. 262/2020 della Corte, A. Giovanardi, “Ancora sul principio di capacità contributiva come proiezione in ambito tributario del principio di uguaglianza: il caso dell'irragionevole (solo per l'anno 2012) indeducibilità dal reddito di impresa dell'IMU sugli immobili strumentali” in Giurisprudenza Costituzionale n. 6 del 2020, pagg. 3128-3136. Secondo questa concezione, la misurazione dell'idoneità di un individuo a concorrere alla spesa pubblica potrebbe essere separata dai beni che gli appartengono, essendo prevalente, invero, la funzione redistributiva: il soggetto passivo verrebbe scelto, indipendentemente dalla sua forza economica a contenuto patrimoniale, sulla base di un presupposto d'imposta che, sempre conforme ai parametri di coerenza e ragionevolezza, sia dotato di rilevanza economico-sociale e sia in grado di manifestare una posizione di vantaggio oggettivamente rilevabile ed economicamente misurabile. Oltre alla nozione come mero criterio di riparto, in dottrina è anche presente la tesi che identifica il principio di capacità contributiva nella titolarità di situazioni giuridiche soggettive a contenuto patrimoniale, nel senso della coincidenza del c.d. indice di potenzialità economica con una ricchezza patrimoniale, liberamente disponibile, appartenente al soggetto passivo e tale da consentirgli di estinguere l'obbligazione tributaria. Ripercorre, in questo senso, le varie posizioni sul principio di capacità contributiva F. Gallo, “L'evoluzione del sistema tributario e il principio di capacità contributiva” in Rassegna Tributaria n. 3 del 2013, pag. 499.

Si intravede, di conseguenza, un limite che il legislatore non può valicare: esso, dopo aver individuato un presupposto d'imposta, è tenuto a dettare regole coerenti nella determinazione della base imponibile del tributo, tali da quantificarlo, anche per effetto della deduzione dei componenti negativi, in maniera opportuna. In questa prospettiva, sono comunque ammissibili forme di deducibilità parziale o di indeducibilità dei costi senza che sia pregiudicata la coerenza con il presupposto: la stessa Corte le esemplifica nei casi di dubbia inerenza dei costi, di compromissione dell'azione accertatrice o di prevenzione dei fenomeni evasivi; con la precisazione che deve trattarsi di deroghe che rispondono “ad esigenze di tutela dell'interesse fiscale” o anche “a finalità extrafiscali, ma sempre riferibili a specifici valori costituzionali” e che non si giunga, al contrario, a ogni sorta di “manipolazione” della base imponibile (al fine di aumentare il gettito erariale, infatti, il legislatore è tenuto ad alzare l'aliquota fiscale, senza ricorrere a incoerenti manovre sulla deducibilità di un onere. Cfr., sul punto, Corte Cost., sent. n. 262/2020, par. 3.3. e G. Zizzo, op. cit., in Rassegna Tributaria n. 3 del 2021, pag. 771.).

Con la sent. n. 12/2022, invece, la Corte si è pronunciata, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., sui meccanismi di determinazione dell'Irap per le banche e gli altri soggetti finanziari (in base all'art. 6, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 446/1997, per le banche e gli altri soggetti finanziari la base imponibile Irap deriva dalla somma algebrica di alcune voci del Conto economico, tra cui il margine d'intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi.), giudicando priva di fondamento la questione sollevata dal giudice a quo. Secondo la norma analizzata, la base imponibile di questi soggetti deve calcolarsi sommando algebricamente il margine di intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi, e non computando per intero, come sostenuto dal rimettente, i soli dividendi delle attività finanziarie detenute per la negoziazione, che sarebbero gli unici assoggettabili a tassazione in quanto compatibili con l'attività caratteristica.

Il collegio, per contro, ha ritenuto che l'imposizione forfetaria dei dividendi sia una diretta conseguenza dell'introduzione dei principi contabili internazionali (e del principio di derivazione rafforzata)* e, dunque, non ascrivibile in alcun modo alla volontà del legislatore di intercettare i soli dividendi da trading: la ratio, infatti, è inquadrabile nel più ampio contesto delle nuove regole di composizione della base imponibile Irap per i soggetti finanziari, ossia nell'evitare, nel passaggio dal precedente regime (che escludeva l'imponibilità dei dividendi) al principio di derivazione rafforzata, un eccesso di imposizione**. Non è sostenibile, conclude la sentenza, l'argomentazione del rimettente circa la ricomprensione della sola attività di negoziazione titoli nell'attività caratteristica di banche e altri soggetti finanziari, poiché è evidente che né l'attività strettamente bancaria, né quella tipica di una holding, hanno come esclusiva la negoziazione di strumenti finanziari.

*In evidenza
Secondo l'art. 83, comma 1, Tuir “[…] Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali […] e per i soggetti, […], che redigono il bilancio in conformità alle disposizioni del codice civile, valgono […] i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai rispettivi principi contabili”.).

**In evidenza

Nel formulare il proprio giudizio, la Corte parte dall'art. 5 del d.lgs. n. 446/1997, che contiene le regole di determinazione della base imponibile per le società di capitali e gli enti commerciali, data dalla differenza tra il valore e i costi della produzione di cui alle lettere A) e B) dell'art. 2425 del c.c., con esclusione di specifiche voci del Conto economico: per tale ragione, non sono ricompresi i dividendi, in quanto collocati oltre la predetta voce B).

Anche per i soggetti finanziari, fino al 31 dicembre 2007, i dividendi non concorrevano alla formazione dell'imponibile Irap, rilevando invece le regole dell'Ires con il sistema delle variazioni in aumento e in diminuzione. Il punto di svolta si è avuto con l'introduzione dei principi contabili internazionali ad opera del d.lgs. n. 38/2005, quando, per far fronte all'incremento di complessità derivanti dai nuovi meccanismi contabili, il legislatore ha rivisto le regole di determinazione dell'Irap dei soggetti IAS/IFRS adopters attraverso l'introduzione del principio di derivazione rafforzata a mezzo dell'art. 1, comma 50, della l. n. 244/2007, con cui la base imponibile Irap è stata sganciata da quella dell'Ires e fatta derivare dalle voci del Conto economico.

Sulla scorta di questi arresti giurisprudenziali, è possibile cercare di valutare la ragionevolezza della norma, anch'essa attinente alla relazione tra base imponibile e presupposto d'imposta, che limita parzialmente la deduzione dell'Irap dall'Ires.

La parziale deducibilità dell'Irap dall'Ires

Nel corso del tempo, l'Irap è stata caratterizzata da un alternarsi di pronunce, incentrate, oltre che sulla sua compatibilità costituzionale con l'ordinamento, anche sull'indeducibilità dalle imposte sui redditi (Con la sent. n. 156/2001 la Corte costituzionale ha riconosciuto la piena conformità dell'Irap ai principi fondamentali dell'ordinamento interno. Sul punto, si rimanda in dottrina a Corasaniti G., "Irap: gli elementi della fattispecie imponibile, la giustificazione costituzionale e la graduale abrogazione" in Diritto e Pratica Tributaria n. 6 del 2001, pag. 10971. In merito alla verifica costituzionale dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 446/1997, invece, si rimanda, tra le altre, a Corte Cost.ord. n. 56/2014, ord. n. 232/2012 e ord. n. 258/2009. In quest'ultima, sebbene la questione non sia sfociata in una sentenza, si legge che “l'indeducibilità dell'Irap dalla base imponibile ai fini Irpef del socio confligge, con tutta evidenza, con il principio di capacità contributiva espresso dall'

art. 53 Cost.

, atteso che l'Irpef finisce per gravare non già su di un reddito netto e realmente indicativo della capacità contributiva, bensì su un reddito lordo e fittiziamente attribuito al contribuente, per effetto della mancata deduzione dell'Irap già versata” e che la duplicazione d'imposta “confligge anche con il principio di ragionevolezza”.).

La norma che inizialmente ne vietava la totale deducibilità, infatti, è stata oggetto di plurime verifiche da parte della Corte, la quale, proprio in virtù dei criteri di ragionevolezza e di capacità contributiva, aveva analizzato la fattispecie secondo due distinti profili: da un lato l'indeducibilità di un onere dell'attività d'impresa; dall'altro l'indeducibilità dell'Irap gravante sul costo del lavoro e sugli interessi passivi che, siccome non rilevanti nella costruzione della sua base imponibile, ai fini Ires risultavano incrementati della relativa quota parte di imposta, senza possibilità di deduzione [Cfr., sul duplice profilo di illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 446/1997, A. Bodrito, “Deducibilità forfetaria dell'Irap tra dubbi di incostituzionalità e correttivi legislativi” in Corriere tributario n. 14/2011, pag. 1156].

La Corte, investita delle questioni, aveva però deciso per la restituzione degli atti ai giudici rimettenti a causa dell'introduzione di alcune norme che ne avevano ammesso una deducibilità parziale. Nel corso del primo vaglio costituzionale, in particolare, si era innestato l'art. 6 del d.l. n. 185/2008, con cui era stata prevista, a partire dal 2008 e con diritto al rimborso per le annualità pregresse, la deducibilità del 10 per cento dell'Irap quale importo forfetariamente riferito alle spese per il personale dipendente e agli interessi passivi [Sugli effetti derivanti dall'art. 6 del d.l. n. 185/2008 in punto di costituzionalità, E. Della Valle, “Lo Ius Superveniens salva l'indeducibilità dell'Irap ai fini delle imposte sui redditi” in Corriere Tributario n. 35/2009, pag. 2842.].

Successivamente alla novella, erano state avanzate nuove questioni di costituzionalità, atteso che, secondo la dottrina, non era precluso un sindacato sulla deduzione forfetaria secondo i canoni di ragionevolezza, parità di trattamento e non sussistenza di un eccesso di potere legislativo [La norma era ritenuta contrastare con il principio di uguaglianza (nel confronto tra un'impresa che impiegava forza lavoro e capitale di terzi e quella che non ne faceva ricorso) e con il principio della tutela del lavoro, aggravato da una maggiore tassazione. Sul punto, si rimanda a M. Basilavecchia, “Dalla indeducibilità alla parziale deducibilità dell'Irap dalle imposte sui redditi”, in GT - Riv. giur. trib. n. 11/2009, pag. 937 e ad A. Bodrito, “Dubbi di costituzionalità sull'indetraibilità dell'Irap che colpisce il costo del lavoro” in Corriere Tributario n. 25/2009, pag. 2008].

Anche in questo caso, in realtà, i giudici avevano ordinato la restituzione degli atti per intervento dell'art. 2 del d.l. n. 201/2011 con cui si disponeva, a partire dal 2012 e con rimborso per le annualità precedenti, la deduzione analitica dell'Irap riferita alla quota imponibile delle spese per il personale dipendente [la restituzione degli atti al giudice rimettente, affinché operasse una nuova valutazione, era stata disposta, tra le altre, con le ordinanze della Corte Cost. n. 190/2012, n. 180/2012, n. 182/2012, n. 232/2012 e n. 56/2014. Riattivati i giudizi, la questione è stata dichiarata superabile e non più rilevante dai giudici di merito: tra le altre, si rinvia a CTR Lombardia, sent. n. 78/2013 a seguito dell'ord. n. 232/2012.] e la deduzione del 10 per cento per la sola quota degli interessi passivi (Per effetto dell'art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 201/2011 viene eliminato il riferimento della deducibilità forfetaria dell'Irap alle spese per il personale dipendente e assimilato.).

Si ritiene di dover evidenziare, a tal riguardo, che, in entrambi gli interventi normativi, la deducibilità dell'Irap, tanto quella forfetaria sugli interessi passivi, quanto quella analitica sulle spese per il personale, viene ricondotta dal legislatore nell'alveo dell'art. 99, comma 1, Tuir, [Secondo l'art. 99, comma 1, TuirLe imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Le altre imposte sono deducibili nell'esercizio in cui avviene il pagamento”] ovvero quale onere fiscale deducibile nell'anno di pagamento. Anche per questa ragione, ai fini delle valutazioni di ragionevolezza che qui si propongono, appare necessario un richiamo alla specifica natura degli oneri d'impresa aventi natura tributaria, unitamente a un'analisi del principio di inerenza dei costi, che costituisce declinazione fondamentale del presupposto dell'Ires.

La natura degli oneri fiscali

In economia aziendale, ciascun costo definisce la misura finanziaria del grado con cui i fattori produttivi sono impiegati nel processo di produzione e deve essere iscritto in bilancio sulla base dei principi di competenza economica e della stretta correlazione con i ricavi a cui si riferisce (secondo il principio contabile OIC n. 11, par. 32, il postulato della competenza richiede che i costi siano correlati ai ricavi di esercizio. Fornisce una definizione aziendalistico-giuridica di costo A. Giovannini, “Costo e inerenza in diritto tributario” in Rassegna Tributaria, n. 4 del 2017, pag. 929, secondo il quale il perseguimento degli interessi protetti dall'ordinamento rappresenta la condizione fondamentale che ne giustifica il ribaltamento sui consociati in termini di minori imposte in capo al soggetto passivo.). Inoltre, secondo i principi contabili nazionali emanati dall'Organismo italiano di contabilità (OIC), gli oneri per materie prime, sussidiarie, di consumo e merci comprendono anche i componenti accessori se inclusi dal fornitore nel prezzo di acquisto, mentre in caso contrario questi sono da iscriversi all'interno della separata voce dei costi per servizi (analoga considerazione vale per i costi di godimento di beni di terzi e per la rilevazione delle immobilizzazioni materiali e immateriali. Cfr. i principi contabili nazionali OIC n. 12, OIC n. 16, par. 37 e OIC n. 24, par. 50).

Nella vasta platea dei costi d'impresa, quelli aventi natura di onere fiscale possono variamente configurarsi, sia ai fini della loro iscrizione in bilancio che per il successivo riconoscimento nella base imponibile Ires (per una disamina sugli oneri fiscali d'impresa si veda A. Bodrito, op. cit., in Corriere tributario n. 14/2011, pag. 1156 che pone un riferimento specifico alla deducibilità dell'Irap dall'Ires. Si rimanda anche a D. Canè, “Sulla deduzione di imposta da imposta: l'indeducibilità dell'Imu dall'imposta sui redditi delle società davanti alla Corte costituzionale” in Rassegna Tributaria n. 4/2018, pag. 803 e, infine, a L. Gaiani, "Deduzione delle imposte dal reddito di impresa tra cassa e competenza" in il fisco n. 41 del 2020, pag. 1-3929).

Sul primo punto, il principio contabile OIC n. 12 include le imposte indirette, le tasse e gli altri contributi tra gli oneri diversi di gestione (voce B.14 del Conto economico), precisando che non deve trattarsi di oneri accessori all'acquisto dei beni e servizi, nel qual caso essi seguono le sorti contabili degli elementi a cui si riferiscono. Quanto al riconoscimento degli oneri tributari nella determinazione della base imponibile dell'Ires, è invece possibile distinguere almeno tre ipotesi:

  • in primis i tributi strettamente connessi ai ricavi di competenza dell'esercizio che, in virtù di tale correlazione, hanno la precisa funzione di integrare il prezzo della prestazione negoziale e che, perdendo la natura di costo fiscale, divengono così deducibili secondo il principio di competenza;
  • il carattere di accessorietà dei tributi agli altri componenti negativi di reddito, che ne determina l'assimilazione alla natura di questi ultimi e, conseguentemente, la deducibilità per competenza;
  • la deduzione per cassa ai sensi dell'art. 99, comma 1, t.u.i.r., limitatamente agli oneri fiscali diversi dalle imposte sui redditi e da quelle per cui è prevista la rivalsa.

Nel giudizio sull'Imu, ad esempio, la Corte ha fondato il riconoscimento della sua integrale deducibilità guardando proprio all'art. 99, giacché trattasi di un costo fiscale certo e inerente, che si atteggia alla stregua di un ordinario fattore della produzione e a cui l'imprenditore non può sottrarsi (questo aspetto viene rimarcato da M. Pane, C. Altare, “Deducibilità dal reddito d'impresa dell'IMU relativa a immobili strumentali: atto secondo” in ilFisco n. 1 del 2022, pag. 1-21).

Un simile orientamento, a prima vista, potrebbe generare alcuni dubbi interpretativi, se non altro perché è stata la stessa Amministrazione finanziaria a circoscrivere la deducibilità per cassa a quegli oneri tributari per i quali si pone un problema di riferibilità al periodo di imposta e di autonoma associazione a specifici ricavi o a particolari beni e servizi*: nel caso dell'Imu, invero, la posizione della Corte contrasterebbe con la potenziale riconducibilità del tributo all'immobile posseduto dall'impresa.

*In evidenza
L'Amministrazione finanziaria si è espressa con la circolare n. 136/E del 2000 dove, in tema di imposta di bollo assolta dalle banche e riaddebitata ai propri clienti, ha affermato che la deduzione per cassa di oneri tributari strettamente correlati ai ricavi di competenza dell'esercizio precedente non è coerente con il principio, anche fiscale, di determinazione del risultato e del presupposto di imposta. Analogamente, nella risoluzione n. 228/E del 2007, con riferimento alla deducibilità dell'imposta di bollo, della tassa sui contratti di borsa e dell'imposta sostitutiva sui finanziamenti versate dalle banche, ha precisato che “[…] detti tributi costituiscono un vero e proprio onere di competenza dell'esercizio nel quale divengono esigibili in quanto parte integrante del valore e del prezzo della prestazione cui si riferiscono”.

Nel fare riferimento all'art. 99 del Tuir, tuttavia, i giudici non hanno evidenziato la necessità di un'indagine sulla funzione aziendalistica del bene**, finendo per accordare la deduzione anche per l'Imu dovuta sugli immobili che, seppur non concretamente impiegati nell'attività di impresa, godono del requisito della strumentalità “per natura” ex art. 43 Tuir.: in questo si intravede la logica della deducibilità dell'Imu in ragione dell'art. 99, non essendo possibile invocarne la correlazione (e quindi la deduzione per competenza) in presenza di immobili che, pur essendo dotati del crisma della strumentalità, non risultano effettivamente impiegati nell'attività di impresa e non contribuiscono a generare ricavi. Rileva, pertanto, la natura dell'Imu quale costo generale, al pari di ogni altro fattore della produzione, e non la sua correlazione a un particolare bene.

**In evidenza
Il tema, in dottrina, è stato affrontato da M. Beghin, "La deducibilità dell'Imu ai fini Ires tra inerenza del costo e strumentalità del bene" in Corriere Tributario n. 4 del 2021, pag. 315, il quale, dopo aver recato la distinzione tra strumentalità per destinazione e per natura riportata nell'art. 43, comma 2, Tuir, sostiene che un bene “[…] una volta acquisito il crisma della strumentalità, potrebbe non essere utilizzato nello svolgimento dell'attività economica, […] senza che ciò determini la rimozione della qualifica di bene strumentale. Gli immobili strumentali per natura non dismettono il carattere della strumentalità nemmeno se concessi in locazione o se dati in comodato. Possiamo perciò riconoscere come la strumentalità ‘per destinazione' non sia altro che un escamotage linguistico per affermare che il bene è inerente all'impresa. Lo è perché, in concreto, quel bene è servente rispetto all'attività economica. Invece la strumentalità per natura, quando non sia accompagnata - perché ciò può in effetti accadere nella realtà - da una strumentalità per destinazione, rimane mera espressione della situazione di riferibilità di quel bene all'impresa e di possibile impiego dello stesso bene secondo schemi che lo distinguono dai beni merce e dai beni patrimonio”.

Sulla composizione tra il carattere accessorio delle imposte e la specifica natura di oneri fiscali deducibili per cassa, appare interessante anche la sent. n. 20435/2021 della Corte di Cassazione in materia di Iva (In dottrina si rimanda a M. Basilavecchia, "Deducibilità per cassa delle imposte tra Tuir e principi contabili" in Corriere Tributario n. 1 del 2022, pag. 19 e a M. Leo, "IVA indetraibile da pro-rata: la deducibilità per cassa e le possibili azioni di recupero" in Corriere Tributario n. 4 del 2022, pag. 323), secondo la quale l'imposta indetraibile per effetto del pro-rata è deducibile per cassa quale costo generale e non come onere accessorio di diretta imputazione. Sancendo una sorta di prevalenza dell'art. 99 del Tuir sul principio di derivazione rafforzata (e, implicitamente, sugli stessi principi contabili), i giudici hanno affermato che, indipendentemente da un pro-rata totalitario o meno, non può esservi una relazione di accessorietà dell'imposta al bene acquistato in quanto l'ammontare indetraibile risulta solo alla chiusura del periodo: ragion per cui essa va annoverata tra i costi generali di esercizio (e dedotta per cassa). Con tale arresto, di fatto, la Suprema Corte si è discostata dagli stessi principi contabili nazionali ove è specificato, invece, che l'Iva, che generalmente segue il trattamento del bene o servizio a cui si riferisce, è da iscriversi, laddove indetraibile, proprio tra gli oneri diversi di gestione, ma a condizione che non costituisca un costo accessorio dell'acquisto [

Cfr. principio contabile nazionale OIC n. 12, par. 84]

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Le declinazioni del concetto di inerenza dei costi

L'altro aspetto rilevante in tema di ragionevolezza delle norme sulla costruzione della base imponibile Ires concerne l'inerenza dei costi (Cfr. F. Tundo, “Incostituzionale l'indeducibilità dell'Imu dai redditi d'impresa” in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria n. 2/2021, pag. 105, che parla di una nuova funzione dell'inerenza: non più solo criterio per l'ammissibilità dei costi deducibili, ma anche strumento dei contribuenti per sindacare la ragionevolezza delle scelte del legislatore rispetto al presupposto d'imposta).

Il principio di inerenza non rappresenta un fatto costitutivo del costo, ma assurge a regola interpretativa quando, secondo un vincolo cronologico, un elemento sia già qualificabile come costo per il diritto (Cfr. A. Giovannini, op. cit. in Rassegna Tributaria, n. 4 del 2017, pag. 929, che sostiene il passaggio cronologico dell'inerenza successiva alla definizione giuridica di costo).

Nel corso del tempo, l'inerenza è stata caratterizzata dalla ricerca di un'esatta definizione, incentrata sia sull'individuazione del relativo fondamento giuridico, che sul necessario equilibrio tra profilo quantitativo (o di congruità) e profilo qualitativo: con riguardo al primo aspetto, in realtà, la dottrina è costante nel dare prevalenza alla tesi della sua immanenza al concetto di reddito d'impresa e, quindi, alla separazione dall'art. 109, comma 5, t.u.i.r., che diviene, in tal senso, mera regola di collegamento per evitare la deduzione di oneri connessi a ricavi esenti.

Sul profilo quali/quantitativo, invece, sussistono ancora diversi elementi di incertezza. La pregressa impostazione giurisprudenziale, infatti, considerava l'inerenza come giudizio non solo di coerenza economica, ma anche di congruità quantitativa, per cui un costo antieconomico rispetto all'attività di impresa era da ritenersi non inerente. Il progredire della funzione economica dell'azienda e lo sviluppo dei mercati, tuttavia, hanno portato ad abbandonare la logica della stretta correlazione tra costo e specifica voce di ricavo, in favore del riconoscimento di sempre più spese secondo criteri meno rigorosi: anche per questo, a partire da alcune pronunce del 2018, è diventata prevalente l'interpretazione volta a valorizzare unicamente l'accezione qualitativa del profilo di inerenza e non anche il legame tra costo e attività d'impresa “secondo un parametro di utilità, all'interno di una relazione deterministica che sottende rapporti di causalità” (rimarcano l'accezione qualitativa del principio di inerenza, tra le altre, Cass. civ. Sez. V, ord. n. 450/2018 e Cass. civ. Sez. V, ord. n. 3170/2018. Tuttavia, non mancano pronunce discordanti che, per quanto isolate, testimoniamo l'incompletezza della transizione: nella sentenza n. 2224/2021, ad esempio, la Suprema Corte di Cassazione, dopo aver accennato al profilo qualitativo e aver descritto antieconomicità e congruità come indici meramente rivelatori dell'estraneità del costo, sostiene che la nozione di inerenza “implica quella di congruità, per cui deve escludersi la deducibilità di costi sproporzionati o eccessivi, in quanto non inerenti”.).

In questa accezione, le valutazioni di congruità dei costi si collocano su un piano logico diverso, intrecciato con il tema dell'onere della prova, e fungono, al più, da indizi della loro estraneità, sicché l'antieconomicità autonomamente assunta non è sufficiente per negare la deduzione [sul rapporto tra il profilo qualitativo del principio di inerenza e la funzione del giudizio quantitativo dei costi si rinvia a R. Miceli, "La parabola evolutiva del principio di inerenza: dal ricavo all'attività d'impresa" in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria n. 4 del 2020, pag. 368, a F. Tundo, “Inerenza ed antieconomicità tra ‘cortine fumogene' e il faro illuminante della Cassazione”, in Riv. Dott. Comm., 2021, pag. 303 ss e, infine, a F. Tundo, “Esclusa la deducibilità di costi sproporzionati o eccessivi, in quanto non inerenti”, in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria n. 7 del 2021, pag. 593.]. Alcune ordinanze della giurisprudenza, invero, separano il giudizio di congruità dalle prove di esistenza e inerenza dei costi, risultando che il contribuente è tenuto a dimostrare “altresì”, qualora ne sia contestata la congruità, la loro coerenza economica e, difettando tale prova, è legittima l'indeducibilità della quota parte sproporzionata rispetto ai ricavi o all'oggetto dell'impresa (Si rimanda a Cass. civ. Sez. VI - 5, ord. n. 14419/2021 e Cass. civ. Sez. VI - 5, ord. n. 30244/2021. In quest'ultima, in particolare, si sostiene che “[…] l'onere della prova dei presupposti di costi ed oneri deducibili […], ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, […], incombe al contribuente, il quale è tenuto altresì a dimostrare la coerenza economica dei costi sostenuti nell'attività d'impresa, ove sia contestata […] anche la congruità dei dati relativi a costi e ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, in difetto di tale prova essendo legittima la negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa […]. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall'imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l'importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa […]”).

La dottrina, dal canto suo, tende a meglio circoscrivere questa impostazione, confinando l'antieconomicità a sintomo di irragionevolezza del comportamento dell'imprenditore: il giudizio di congruità, pertanto, non è esperibile dall'esterno in base al solo elemento presunto di scelte diseconomiche, ma deve riguardare una “evidente e inequivoca contrarietà ai criteri generalmente seguiti dagli imprenditori nello specifico settore interessato”, la cui prova è rimessa in base a elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti (si rimanda a Cass. civ. Sez. V ord. n. 14082/2017, dove, in tema di antieconomicità, la Corte sostiene che gli elementi presuntivi contestati siano “espressione di una condotta assolutamente contraria ai canoni dell'economia, poiché essi si sono concretizzati, in sostanza, in censure di scelte discrezionali dell'imprenditore. Invero, i vari elementi presuntivi invocati […] non inducono ad esprimere uno scrutinio di assoluta antieconomicità, che presuppone una evidente ed inequivoca contrarietà a criteri generalmente seguiti dagli imprenditori dello specifico settore interessato”. In dottrina, il tema è affrontato da G. Ferranti, "Valutazione complessiva dell'antieconomicità e insindacabilità delle scelte imprenditoriali”, in Il Fisco 2017, pag. 3907 ss e da P. Boria "Il giudizio di antieconomicità della gestione di impresa per il contrasto di condotte irrazionali" in Corriere Tributario n. 8 del 2020, pag. 746).

Con tutto ciò, in conclusione, sembra delinearsi un carattere “assoluto” del profilo qualitativo di inerenza, nel senso che, quando un costo è inerente all'attività d'impresa, esso deve potersi dedurre nella sua interezza; mentre, se non inerente, non concorrerà alla formazione del reddito (secondo la dottrina, è come se esistessero due diversi “gradi” di indagine, dato che, dopo aver appurato che un costo sia qualitativamente riconducibile al programma imprenditoriale, l'interprete deve anche stabilire se possa dedursi in quanto correlato a proventi imponibili o esclusi. Si esprime in tal senso M. Beghin, “L'abnorme ampliamento della regola di correlazione tra costi deducibili e proventi tassabili” in Il Fisco n. 18 del 2019, pag. 1-1779).

Risulta pur vero, tuttavia, che simili valutazioni possono essere sospese in presenza di ipotesi particolari, chiaramente individuate dalle norme di legge: è il caso, ad esempio, delle spese di sponsorizzazione sostenute a favore di società e associazioni dilettantistiche che, in virtù di una presunzione legale assoluta, volta a garantire un trattamento di favore, sono deducibili al ricorrere di determinate condizioni, senza la necessità di un riscontro in merito ai predetti criteri (cfr. M. Denaro, "Sono interamente deducibili come spese di pubblicità le sponsorizzazioni di società dilettantistiche" in Il fisco n. 34 del 2021, pag. 1-3281).

In conclusione

Le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza sin qui richiamata contribuiscono a meglio definire la relazione tra i principi sottesi alla determinazione della base imponibile Ires e la specifica natura degli oneri fiscali, la cui deducibilità ex art. 99, comma 1, Tuir, almeno nei casi dell'Imu e dell'Iva indetraibile da pro-rata, viene fatta derivare dalla loro assimilazione agli altri costi d'impresa e, in ultima analisi, dall'eleggibilità a veri e propri fattori della produzione.

Un simile arresto appare sufficiente per poter avanzare dei dubbi, in punto di ragionevolezza delle norme, sulla parziale deducibilità dell'Irap dall'Ires. Ciò in quanto, così come l'analisi condotta tende a evidenziare:

  • risulta costante l'orientamento della Corte costituzionale (sostenuto, in origine, da Corte Cost., sent. n. 156/2001, par. 6.3 e richiamato anche nella più recente sent. n. 12/2022) nel ricondurre anche l'Irap a qualsiasi altro costo aziendale, anche di natura fiscale, gravante sulla produzione, il cui presupposto risiede nell'esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata e, quindi, in un fatto diverso dal reddito;
  • lo stesso legislatore del d.l. n. 185/2008 e del d.l. n. 201/2011, nell'introdurre la parziale deducibilità, ha posto un richiamo proprio all'art. 99, comma 1, del Tuir e, dunque, alla natura di onere fiscale dell'Irap [Sempre A. Bodrito, op. cit., in Corriere tributario n. 14/2011, pag. 1156, richiamando il riferimento del legislatore del 2008 e 2011 all'art. 99 Tuir, pone la questione dell'Irap nella categoria degli oneri fiscali di cui è possibile determinare, a consuntivo, l'incidenza. L'autore ritiene assorbiti i dubbi posti dalla dottrina sul fatto che l'IRAP possa qualificarsi come “costo inerente alla produzione del reddito in quanto non già funzionale al ciclo produttivo, bensì gravante, dall'esterno, sul suo risultato”. Su quest'ultimo punto, richiama G. Verna, “Dubbi di costituzionalità sulla deduzione forfetaria dal reddito d'impresa di interessi passivi e costi di lavoro assoggettati ad Irap”, in Riv. dir. trib. n. 3/2011, pag. 121];
  • anche nel caso dell'Irap, al pari dell'IVA indetraibile da pro-rata, tale natura trova conforto nella possibilità di una puntuale quantificazione del dovuto solo al termine di ciascun periodo d'imposta.

La parziale deducibilità dell'Irap, inoltre, non sembra trovare sostegno neppure ad esito delle valutazioni sull'inerenza dei costi rispetto al presupposto d'imposta dell'Ires. Se si assume, infatti, che una sorta di inerenza dell'Irap sia stata implicitamente confermata dallo stesso legislatore che ne ha riconosciuto la parziale deducibilità, risulta difficile, per contro, ammettere il riconoscimento solo parziale di un onere, avente natura di costo generale della produzione, chiaramente inerente all'attività esercitata: proprio in virtù del profilo qualitativo e assoluto dell'inerenza, invero, esso dovrebbe potersi dedurre nella sua interezza; mentre, qualora non inerente, sarebbe totalmente indeducibile, non potendo sussistere un'inerenza parziale.

La deduzione di parte di un costo, al più, dovrebbe attenere, con il solo limite della non arbitrarietà, alle esigenze di tutela dell'interesse fiscale oppure a quelle finalità extrafiscali (ma pur sempre riferibili a specifici valori costituzionali) che la Corte si è preoccupata di richiamare, da ultimo, con la sent. n. 262/2020 sull'Imu, ma che non sembrano applicabili al caso in esame.

Fuori da simili ipotesi, il riconoscimento parziale di un costo inerente sfocerebbe nelle valutazioni di antieconomicità, che, come dimostra un certo orientamento di giurisprudenza e dottrina, sono esperibili solo in presenza di un'evidente contrarietà ai criteri che l'imprenditore deve seguire nella gestione d'azienda e che non sono sindacabili discrezionalmente dall'esterno. Questo aspetto, oltre a non identificarsi con la nozione di inerenza, non risulta direttamente applicabile ai costi (come l'Irap) aventi natura di onere fiscale in quanto, essendo la misura del prelievo stabilita dalle norme di legge, per definizione non potrebbe sussistere una loro incongruità quantitativa.

Sembra sopravvivere, in conclusione, solo quell'ulteriore elemento impiegato dalla Corte nel riconoscimento parziale dell'IMU dopo il 2012, ossia la graduale correzione del legislatore che ne ha previsto dapprima la deduzione parziale e, a partire dal 2022, la totale deducibilità.

Trasposta al caso dell'Irap, questa ragione, definita dalla dottrina come “di compromesso” tra la garanzia del canone costituzionale di ragionevolezza e il rischio di ripercussioni sulla finanza pubblica (si esprime in tal senso G. Zizzo, op. cit., in Rassegna Tributaria n. 3 del 2021, pag. 771, secondo il quale “Se tale compromesso è il prezzo da pagare per ottenere una pronuncia che finalmente leghi con chiarezza la deduzione degli oneri inerenti alla produzione al presupposto del reddito d'impresa […] conviene […] accettarlo”), residua quale via ancora percorribile (seppur al di fuori degli schemi giuridici qui descritti) nelle valutazioni di coerenza interna sulla deduzione parziale dell'Irap: vuol dire che la validità di siffatta norma poggia, più che su una quantomai incerta ragionevolezza rispetto al presupposto dell'Ires, soprattutto sulla transizione che nel tempo ha portato verso previsioni maggiormente virtuose e di compromesso con il bilancio statale, quali la deduzione forfetaria dell'Irap, quella analitica e, da ultimo, l'abolizione per alcune categorie di contribuenti da parte dell'ultima legge di bilancio (L'art. 1, comma 8, della l. n. 234/2021 (legge di bilancio 2022) prevede che dal periodo d'imposta 2022 l'Irap “[…] non è dovuta dalle persone fisiche esercenti attività commerciali ed esercenti arti e professioni di cui alle lettere b) e c) del comma 1 dell'art. 3 del medesimo d.lgs. n. 446/1997”.

L'imposta continua a essere dovuta dalle società e dagli enti Ires e dalle società di persone ed equiparate in quanto, secondo l'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 446/1997, il suo presupposto è individuato nello “esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”, nonché, in ogni caso, nell'attività “esercitata da società ed enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato”). Tali disposizioni, tuttavia, appaiono carenti della necessitata coerenza rispetto allo stesso presupposto dell'Ires, se, come la giurisprudenza analizzata suggerisce, si tengono in debita considerazione la natura di fattore della produzione dell'Irap, la sua inerenza all'attività d'impresa e l'assolutezza del profilo qualitativo della nozione di inerenza.

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