Riflessioni sull'applicazione delle neuroscienze cognitive nel sistema penalistico italiano

Chiara Savazzi
Chiara Savazzi
17 Agosto 2022

Con particolare focus sulla valutazione della capacità di intendere e di volere del soggetto di minore età.
Premessa

Negli ultimi anni, gli interrogativi sulla commistione di diritto penale e neuroscienze sono divenuti sempre più fitti, investendo non solo le norme processuali, ma altresì le categorie dogmatiche penalistiche, quali l'imputabilità e la colpevolezza. Se da un lato si continua a negare qualsiasi possibilità di indagine sulla psiche dell'imputato, dall'altro, si comprende come non se ne possa più a fare a meno, al fine di stilare una perizia che sia il più possibile rispondente a realtà. Al contrario, il processo minorile, da sempre, necessita di un accertamento concreto sulla capacità di intendere e di volere del soggetto minorenne, potendo pertanto trarre immediata utilità dalle neuroscienze cognitive.

Punire e prevenire

Per affrontare l'incontro di neuroscienze e diritto penale non ci si può esimere dal menzionare il concetto di pena. Parlare di punizione in una società in cui i delitti non tendono a diminuire rispetto al passato, ma – anzi – se ne aggiungono di nuovi, appare necessario ma probabilmente non sufficiente, per sviluppare una riflessione non solo sullo status quo del crimine, quanto su ciò che potrà avvenire in un futuro prossimo in termini di prevenzione, gestione dei reati, anche con l'ausilio di nuove tecniche. Sebbene «sappiamo, che non è possibile prevedere tutto e che una ragionevole probabilità è l'unica certezza», alcune tecniche di indagine possono rappresentare un ausilio prezioso nel processo penale.

Il concetto di pena nell'impianto codicistico penale risulta ancorato, ancora oggi, alla fusione derivante dal pensiero della Scuola Classica e da quello della Scuola Positiva; la prima, foriera di un principio etico – retributivo della sanzione penale, da infliggere per “ripagare” il reo, in proporzione al torto commesso. Si partiva infatti dal presupposto di interfacciarsi sempre e comunque con un soggetto consapevole delle proprie azioni, il quale deliberatamente decideva di porre in essere atti illeciti, incurante, da un lato, del male procurato ad un altro essere umano o alla collettività, dall'altro, delle conseguenze repressive, da parte dello Stato, nei suoi riguardi. Si dava centralità alla volontà, quale parte centrale della persona, nonchè capacità di autodeterminazione della stessa; una sorta di summa – parafrasando Kant – tra gli imperativi morali e gli imperativi categorici, alla base di un'azione cosciente e razionale. Contrariamente, la seconda, cambiava prospettiva, incentrando la scaturigine dei singoli crimini, in un sottosviluppo o in un'anomaliafisica, psichica o entrambe – presenti nel soggetto delinquente. La coscienza veniva quindi messa da parte, venendo soppiantata da una devianza, da conoscere, studiare, e tenere a bada attraverso strumenti di gestione del pericolo, piuttosto che di punizione del colpevole. La devianza e la criminalità rappresentavano «una patologia di disadattamento nei confronti delle regole e dei valori della società e i criminali, più che persone congenitamente cattive o coscientemente nemiche dei valori dominanti [...], dei malati in quanto socialmente sotto-socializzati». L'unica soluzione, per arginare il pericolo, era la predisposizione di misure contenitive e preventive, volte a frenare l'agire di un soggetto considerato non sufficientemente “razionale” da poter rapportarsi all'altro senza una potenziale lesività.
L'ordinamento penalistico italiano, fonda la sua ratio in un concentrato di elementi di entrambi i suddetti periodi storico-giuridici, dando primazia a quello che, tuttora, è detto sistema del “doppio binario” sanzionatorio, in cui, per un versante, si infligge la pena a colui che abbia agito in collisione con le regole del buon vivere, per un altro, si mettono in atto delle misure – ante e post delictum – volte a prevenire e a reprimere possibili intenti criminosi, laddove si individui un potenziale pericolo; due brocardi latini definiscono puntualmente l'intento punitivo punitum quia peccatum est – e l'esigenza di cautela futura – punitur ne peccetur – al fine di tutelare i consociati e i principi statali. La stessa Carta Costituzionale menziona le pene e le misure di sicurezza, quali strumenti di cui avvalersi, in forza della sola legge, individuando lo scopo afflittivo e quello preventivo delle stesse. La pericolosità sociale non è più qualcosa di meramente filosofico o teorico, bensì un concetto pratico e giuridico, inserito altresì nel codice penale, all'art. 203, che riconosce la possibilità di un rischio, nella persona che abbia commesso un reato, a prescindere dalla presenza o meno dell'imputabilità, da un'infermità o dalla pienezza delle sue facoltà. Ma, soprattutto, le fonti da cui possa derivare una eventuale pericolosità del soggetto si ampliano e finiscono per ricomprendere aspetti personologici, che mai prima degli ultimi anni, erano stati considerati ai fini di una valutazione penalistica sulle capacità – rectius incapacità – del reo.

Le categorie dogmatiche del diritto penale, nel processo di commistione di hard sciences e soft sciences

È proprio nell'ottica di gestire la pericolosità e giungere ad una possibile predizione e prevenzione della stessa, che, negli ultimi anni, il processo penale ha iniziato ad abbracciare settori che non appartengono alla sfera – la propria – delle soft sciences,ma a quello delle hard sciences, come quello delle neuroscienze cognitive, creando una commistione che – a giudizio di molti – vedrebbe il diritto subordinarsi alla scienza. Ciò potrebbe comportare un ausilio non indifferente per gli addetti al settore penalistico o, al contrario, creare una vera e propria operazione di modifica dei cardini del diritto penale, finora indiscussi.

In realtà, a parere di chi scrive, la questione è ancora alquanto “giovane”, per poter formulare conclusioni avventate su quale sarà la collocazione di alcune delle norme penalistiche, fra qualche decennio. Invero, si tratta di un argomento – quello dell'impatto delle neuroscienze sul diritto penale – che, quantomeno nel nostro ordinamento, risulta collocato allo step iniziale di un iter ancora tutto da costruire, e che possiede, pertanto, un ampio ventaglio di direzioni nello sviluppo.
Una delle questioni da focalizzare concerne la possibile evoluzione del Capo I, libro IV, del I libro del codice penale italiano e dunque di alcune delle categorie dogmatiche del diritto penale, nello specifico l'imputabilità e la connessa colpevolezza, l'infermità, e l'elemento soggettivo in senso stretto, a partire dal dolo.

In base alla classica impostazione del Codice Rocco, mai mutata, alla base di un vizio di mente può esserci solo un'infermità fisica o psichica clinicamente accertata, che infici la capacità di autodeterminazione di un soggetto. Questo assunto è valso come certo fino a pochi anni fa, quando le Sezioni Unite, con la nota sentenza Raso del 2005 – seguita da altre pronunce dello stesso tenore – hanno esteso la nozione di infermità penalmente rilevante, facendovi rientrare «i disturbi della personalità, in grado di escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere».
Emerge, quindi, la rilevanza di nevrosi e psicopatie di ogni genere, le quali possono essere portate a conoscenza del perito e del giudice, attraverso tecniche di neuroimaging, ovverosia afferenti alle neuroscienze cognitive. Emerge però una forte collisione, tra settore psico – diagnostico e settore giuridico. Se le neuroscienze danno risalto anche a meri disturbi degli impulsi, l'impostazione classica del codice penale, nega qualsiasi ruolo agli stati emotivi e passionali. Questi ultimi, solo transitoriamente, incidono sulla piena coscienza di sè e lo fanno, tra l'altro, fisiologicamente ma non anche giuridicamente. L'apertura della Giurisprudenza e di studiosi e giuristi, conduce tuttavia a riconsiderare i presupposti della infermità e della non – imputabilità. Si tende a non avvalersi più di un approccio medico – nosografico per valutare la suitas di un soggetto nel commettere un illecito penale, bensì di un c.d. paradigma integrato che considera più aspetti: biologico, psicologico, sociale, riconoscendo un'origine multifattoriale dei disturbi psichici.

Da un lato, le neuroscienze riconoscono una base organica, reale, tangibile, anche alle emozioni; dall'altro, il diritto penale, ad oggi, fa fatica a farlo, continuando per certi versi ad ignorare che le infermità e gli agìti umani eventualmente connessi, siano il prodotto di più componenti – non solo biochimiche – che spaziano in più aree, ancora non del tutto conosciute, del cervello umano. Il timore che ogni tipo di fragilità umana possa ricevere riscontro in una base neuronale, dovendo conseguentemente dichiarare parzialmente o totalmente incapace il soggetto agente, frena i penalisti dall'allargare le maglie dell'indagine sulle sfaccettature comportamentali, per evitare il rischio di sfociare in un «tutto giustificare», che si pone agli antipodi della scienza penalistica.

Ma, se da un lato il pericolo è questo, probabilmente sarebbe utile affrontarlo, per costruire una perizia, di cui avvalersi in giudizio, che sia più precisa e minuziosa, con un contenuto individualizzato, che non riduca la diagnosi a standard astratti, valevoli per tutti, bensì comprendente ogni elemento utile ad un diritto penale volto a “valutare” prima che a “punire”. Il dialogo del diritto con le neuroscienze, dunque, nonostante la riluttanza di alcuni, appare necessario ed imprescindibile, oltre che ormai inarrestabile.

La teoria normativa di R. Frank, quale antefatto delle neuroscienze in campo penalistico

Prima ancora che un impatto sul diritto penale, le neuroscienze influiscono enormemente sulla conoscenza, che si ha e cui si può giungere, sul cervello dell'essere umano. Capire quanto una menomazione latente o un deficit cognitivo possano trovare risposta nelle basi neuronali e nelle connessioni delle stesse – c.d. sinapsi – è funzionale ad una società che possa rapportarsi, nel miglior modo possibile, al crimine ma anche ad un possibile recuperorectius miglioramento – di colui che commette una “devianza sociale”. A questo proposito, l'Unione Europea ha lanciato un progetto – Human Brain Project – nato nel 2013, che mira a realizzare una sorta di mappatura del cervello e delle sue patologie. Ciò non può, come già sta accadendo, non interferire sulla valutazione che perito e giudice si trovano a dover fare, sulla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere di un soggetto al momento della commissione di un crimine.

La nozione di infermità meriterebbe una rivalutazione ed un ampliamento, dando spazio a quelle anomalie del carattere che non si sostanziano in patologie clinicamente determinate.

Non si tratta di subordinare il campo di azione del diritto penale a quello delle neuroscienze, bensì di creare uno spazio di confronto e di integrazione.
Anche la tematica della sanzione penale andrebbe rivista; la pena afflittiva non risulterebbe più sufficiente dinanzi ad un novero sempre più vasto di contingenti anomalie e vizi della mente che possono indurre un soggetto ad agire, quasi in modo automatico, in un certo modo. Si potrebbe ipotizzare di dover riedificare il sistema sanzionatorio, prediligendo le misure preventive, da un lato, e quelle di sicurezza, dall'altro, per non rischiare di punire un soggetto colpevole ma non imputabile. La mente, al pari dell'azione, possiede una serie di elementi e di caratteristiche che si riflettono, in generale, sugli agiti umani, ed in particolare, sugli agiti criminosi, rendendoli uno diverso dall'altro. Aderire ad un'impostazione penalistica secondo la quale si debba formulare il capo d'imputazione e punire il reo in modo asettico, oggettivo, considerando il nesso di causalità in base ad una concezione c.d. psicologica, significherebbe tralasciare la valutazione dell'ineludibile gradazione di adesione all'evento, che sussiste relativamente a qualsiasi condotta. Il teorico e padre, della teoria c.d. normativa della colpevolezza, Reinhard Frank, si era lungamente discostato infatti, da un approccio automatico alla connessione “condotta – fatto di reato”, ponendo un'incisiva attenzione, oltre che sul dolo e sulla colpa – dunque sulla intenzionalità o meno dell'evento – sui motivi psicologici e fattuali alla base della condotta dell'agente, considerando mai uguale la rimproverabilità di un soggetto rispetto a quella di un altro. Chi uccide in una condizione di legittima difesa sarà responsabile della sua condotta non tanto quanto chi agisce con dolo intenzionale, ponendo deliberatamente fine alla vita della persona offesa. Allo stesso modo, chi commette un crimine per motivi abietti e futili – circostanza aggravante di cui all'art. 61 n.1 c.p., non potrà evitare che la motivazione del suo àgere venga tenuta in debita considerazione in sede di condanna. Anche nel valutare la presenza del dolo e la sua intensità, le neuroscienze possono porsi come strumento capace di analisi più puntuale e di negarne talvolta la sussistenza. Ci si chiede se l'esistenza di una reale coscienza nella commissione di un agito non sia semplicemente un costrutto illusorio, posto in essere nel corso dei decenni, per strutturare un sistema penale improntato sul dualismo “crimen – pena”. Non sempre, infatti, parlare di dolo equivale a dire che vi sia nell'agente, la totale consapevolezza; si pensi al dolo d'impeto e al dolo eventuale, quali manifestazioni una volontà non del tutto consapevole. Nel dolo d'impeto, ad esempio, il c.d. potenziale di prontezza – tra il momento in cui sopraggiunge la consapevolezza per la mente di essere in procinto di agire in un determinato modo e quello dell'inizio dell'azione stessa – verrebbe del tutto annullato. Dovrebbe quindi derivarne una non imputabilità ed una conseguente impunità, se ci si rifacesse all'ottica valutativa neuroscientifica?

Certamente una condotta criminosa non può essere esaminata senza analizzarne ogni singolo fattore, sia esso attinente alla sfera psicologica, sia esso inquadrabile in profili oggettivi. La teoria di Frank è posta altresì a fondamento della quantificazione della pena da parte dell'organo giudicante; ne è un esempio l'art. 133 c.p.,il quale dispone che si debba tener conto, fra i vari indici, dell'intensità del dolo o del grado della colpa e dei motivi a delinquere del reo, alludendo, anche in tale contesto, ad una meticolosa considerazione dell'origine della condotta.

Crisi dell'imputabilità?

Da sempre l'imputabilità appare strettamente connessa alla categoria dogmatica della colpevolezza, quale presupposto imprescindibile per la sussistenza di quest'ultima. Tuttavia, tale assioma non risulta poi così inopinabile, se si considerino le variabili dei soggetti agenti, i quali non sempre e non necessariamente appaiono imputabili e colpevoli allo stesso tempo. Un esempio comune della suddetta precisazione, si rinviene nel soggetto minore di 14 anni che si renda responsabile di una rapina; benchè colpevole, non potrà essere considerato imputabile e quindi assoggettabile a pena. Viceversa, è chiaro che il fautore di un illecito penale potrà essere imputabile, ma non colpevole in quanto sussista una causa di giustificazione, che escluda l'antigiuridicità del fatto commesso.
Un'altra sostanziale differenza intercorre tra l'imputabilità (e la colpevolezza) da un lato, e l'elemento soggettivo in senso stretto, dall'altro. In base all'impostazione codicistica, sussistono ipotesi di responsabilità (quasi) oggettiva, nel senso che un soggetto, pur prendendo materialmente parte al fatto, non aderisce psicologicamente – per svariate circostanze – allo stesso, elidendo così l'elemento del dolo, necessario – in via generale – per porre un evento a carico dell'agente, ex art. 42 c.p. Si pensi all'ipotesi di un evento diverso da quello voluto da chi agisce, di cui all'art. 83 c.p. o, ancora, al reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti; si tratta di eventualità in cui l'addebito viene mosso anche in assenza di una piena aderenza psicologica al fatto. Viene pertanto confermata, in concreto, la differenza ontologica e pratica dell'imputabilità e dell'elemento soggettivo in senso stretto; la divergenza tra le due categorie potrebbe, tuttavia, annullarsi, nel caso di un ipotetico vizio di mente capace di menomare sia lo status di imputabile, sia la volontarietà dell'azione, nello specifico momento di commissione di questa.
Il nostro codice penale non si fonda su una presunzione della volontarietà dell'azione, qualora sussistano le altre componenti dell'elemento soggettivo (imputabilità, colpevolezza, suitas), bensì su un accertamento in concreto della piena consapevolezza dei propri agiti. Alla base, deve in ogni caso esserci «se non un a-causale, spontaneo libero arbitrio, almeno una (certa) libertà d'agire, una libertà del volere».

All'origine della non-imputabilità può esservi sicuramente l'età, considerata dall'ordinamento il presupposto principe, in base al quale valutare la maturità o l'immaturità di una persona. accanto all'età, altre ipotesi – causa di vizi di mente totali o parziali – si rinvengono negli artt. 91 ss. c.p., quale, ad esempio, lo stato di ubriachezza. Infine, un residuale novero di cause capaci di incidere sulla pienezza delle proprie facoltà, può essere, in forza della “norma aperta” di cui all'art. 85 comma 2 c.p., di volta in volta riempito e integrato da motivi concretamente accertati. Ciò che è labile e flessibile, nel suo significato, non è il concetto di imputabilità, quanto quello di vizio di mente di cui agli artt. 88 e 89 c.p.; «non può propriamente parlarsi di crisi dell'imputabilità. In (relativa) crisi è infatti semmai, il concetto di malattia mentale che in campo giuridico crea notevoli problemi per l'evidente riduttività dell'approccio biologico-organico e per le contestuali incertezze in ordine ai limiti di valorizzazione dell'approccio psicopatologico (e, talvolta, di quello psicologico “puro”)».

La capacità di autodeterminazione di un soggetto minorenne

Un ambito in cui gli strumenti delle neuroscienze potrebbero acquisire un ruolo centrale, è quello della giurisdizione minorile. Ciò avviene, da circa vent'anni, nell'ordinamento statunitense, dove la Corte Suprema si è basata su acquisizioni neuroscientifiche per la decisione della pena da irrogare. Se in Italia non risulta che il processo minorile , allo stato attuale, si avvalga di tecniche di indagine psicologica, è probabile che in un futuro prossimo, ci si possa indirizzare in modo audace verso una struttura processuale che conduca ad una valutazione polidimensionale del soggetto indagato o imputato e della sua capacità di stare in giudizio per il fatto addebitatogli.

In base alla normativa vigente nel nostro ordinamento penalistico, oltre che in forza di una forma mentis radicata e che ha ragione di rimanere tale, il soggetto minore degli anni quattordici è considerato assolutamente non imputabile e, dunque, non sottoponibile a procedimento penale. Il minore che abbia compiuto i quattordici anni, fino al compimento degli anni diciotto, ha la capacità di stare in giudizio solo se questa venga effettivamente verificata, nella sua sussistenza e pienezza, da giudice e p.m. Invero, l'art. 9 del d.P.R. n. 448/1988, si occupa degli accertamenti da operare sul minore, ante iudicium, nell'esplorare la sua personalità, nell'accertare l'eventuale esistenza di un nesso psichico tra il fatto ascrittogli e la sua capacità di autodeterminarsi. Pertanto, se prima dei 14 anni, si è, per la legge penale, incapaci di intendere e di volere e, di conseguenza, anche di agire, nella fascia che intercorre tra i quattordici e i diciotto anni, è richiesta una meticolosa indagine – quantomeno in astratto – sullo sviluppo cognitivo del soggetto coinvolto. Le prescrizioni suddette emergono dall'art. 98 c.p., il quale è stato, a lungo, sottoposto ad interpretazione da parte della Giurisprudenza. Lungi dall'essere, l'imputabilità del minore, basata solo sulla mera capacità di intendere e di volere, essa è stata, negli anni, riempita di contenuti, anche in considerazione dei princìpi che devono guidare il processo minorile, e non è detto che le tecniche di neuroscienza non possano ampliarla ulteriormente. Una doverosa precisazione attiene ai due fondamentali cardini di tale tipologia di giustizia. Il primo è rappresentato dalla finalità educativa ( non “rieducativa” come per i soggetti adulti, poichè il minorenne ha una personalità ancora in fieri) propria della fase evolutiva in cui il soggetto si trova e della connessa responsabilizzazione cui devono tendere le misure sanzionatorie individuate; il secondo attiene alla de-stigmatizzazione, volta a proteggere l'identità personale e sociale del minore da “possibili condanne permanenti”, anche attraverso l'applicazione della detenzione carceraria come extrema ratio e, al contrario, di misure alternative laddove più idonee ed efficaci, così come esposto nella Raccomandazione del Consiglio d'Europa n. 20 del 1987.

Superata la breve digressione sull'impronta che il processo minorile possiede nel nostro ordinamento, si può porre l'attenzione sul concetto di imputabilità, v. supra, evidenziandone gli elementi identificativi. Nel linguaggio giuridico convenzionale, con il lemma “capacità di intendere” si fa riferimento all'attitudine nel considerare ed interpretare la realtà fenomenica, comprendendone i significati; al contempo, con il lemma “capacità di volere” si intende l'insieme dei comportamenti ragionevolmente messi in atto, in conseguenza di una determinata situazione.
Se i due concetti compongono, nel processo penale ordinario, la base dell'imputabilità, essi non sono sufficienti, in quello minorile, nel delineare la capacità di autodeterminazione di un minorenne.

Sebbene astrattamente responsabile del fatto compiuto, per poter procedere nei confronti di un soggetto agente minore degli anni diciotto, è necessario valutare il suo grado di maturità, intesa come «adeguato sviluppo intellettuale e morale».É in tale contesto che si inseriscono le tecniche di neuroscienze, le quali, mediante l'opera del perito o dell'esperto incaricato, possono fornire elementi di indagine più precisi, sul grado di sviluppo psico-cognitivo dell'indagato. Nell'ambito in questione, dunque, il contributo neuroscientifico non sopraggiunge – solo – per evidenziale una possibile anomalia nella capacità di intendere e di volere, bensì, al contrario, per dimostrare la sussistenza di capacità, attitudini, responsabilità.

Nel processo minorile, ancor più che in quello classico, si devono considerare più sfaccettature dell'imputabilità, non inerenti esclusivamente all'assenza di patologie conclamate, ma altresì ad uno sviluppo biologico, cognitivo, psicosociale,che possa creare un nesso causale – materiale e psichico – con il reato commesso.

In conclusione

Se il cervello di un soggetto adulto, pienamente formato e sviluppato in ogni sua area, viene considerato – nell'ottica di una valutazione sanzionatoria – non più completamente recuperabile, quando vi sia una perizia che ne evidenzi gli aspetti antisociali privi di capacità inibitoria, ciò non può mai valere quando si tratti di un minore, in piena fase evolutiva.

Innanzitutto, è solo grazie alle neuroscienze cognitive e comportamentali che si è potuto appurare come l'area cerebrale deputata all'inibizione degli impulsi – corteccia pre-frontale e lobi temporali – concluda il suo sviluppo nella fase post adolescenziale. Ci si chiede, pertanto, se, proprio a livello fisiologico, si possa ritenere un minore pienamente compos sui, propendendo per una risposta negativa.
Varie tecniche, ancora poco utilizzate in campo giudiziario, consentono di individuare deficit sia strutturali, eventualmente dovuti anche ad un non completo sviluppo, sia funzionali, in specifiche aree cerebrali. Si tratta di carenze o menomazioni non visibili ictu oculi attraverso l'osservazione del comportamento, e non rientranti in patologie conclamate comuni, ma che emergono solo qualora si slatentizzino, in occasioni specifiche – come in un contesto di crimine – portando l'esperto peritale ed il giudice a confrontarsi con approfondimenti di anomalie non sempre facili da individuare. La difficoltà emerge come ancora più marcata quando si tratti di un soggetto in piena fase di sviluppo; «le neuroscienze, la neuropsichiatria e la neuropsicologia ci hanno insegnato che molti adolescenti o individui con disfunzioni neuropsicologiche, pur possedendo teoricamente la capacità di distinguere right e wrong, hanno difficoltà a riflettere sulle proprie azioni e a gestire i sentimenti aggressivi». Come già detto, la “maturità esperenziale”, che si estrinseca anche in un àgere rispettoso delle regole sociali, è un aspetto che conclude il suo sviluppo e si consolida in una fase post-adolescenziale. Ogni caso, inoltre, è valutabile a sè, senza poter elaborare, specie in ambito minorile, un ragionamento teorico e astratto che valga per tutti gli individui. È proprio in tale circostanza che emerge fortemente l'importanza della diagnosi sull'imputabilità del minore, non potendo estrapolare da un soggetto in evoluzione, le fattezze di un criminale di oggi e, potenzialmente, di domani.

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Sommario