L'onere probatorio nella divisione ereditaria

Cesare Taraschi
22 Agosto 2022

La questione esaminata nella pronuncia in commento riguarda l'onere probatorio gravante sulle parti del giudizio di scioglimento della comunione ereditaria e le modalità di assolvimento dello stesso.
Massima

Nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria, occorre offrire la dimostrazione dell'appartenenza dei beni al “de cuius”, ma, anche in caso di contestazioni dei coeredi, non grava sull'attore l'onere di fornire la prova rigorosa richiesta nel caso dell'azione di rivendica, giustificandosi un maggior rigore solo nel caso in cui sia necessario procedere alla divisione mediante vendita a terzi; qualora la comune proprietà dei beni dividendi sia incontroversa o desumibile a livello indiziario, è ammissibile una produzione documentale, inerente alla proprietà comune, operata in corso di causa o acquisita dal consulente tecnico d'ufficio, tenuto conto che non si tratta della prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro.

Il caso

Il tribunale di Salerno rigettava la domanda di divisione ereditaria in ragione della carenza di idonea prova documentale della proprietà dei beni in capo al de cuius.

La corte d'appello, nel confermare la statuizione di primo grado, assumeva che, nel giudizio di divisione immobiliare, la prova della comproprietà non poteva darsi sulla base di indizi e che non era applicabile il principio di non contestazione; inoltre, la predetta carenza non poteva essere supplita tramite le indagini del ctu, al quale non era consentito acquisire d'ufficio la prova dei fatti costitutivi della domanda, né mediante la produzione in appello della documentazione ipotecaria e catastale, stante il divieto di cui all'art. 345 c.p.c.

Con il ricorso per cassazione, proposto da alcuni condividenti, si censurava la sentenza impugnata con tre motivi, e precisamente: nella parte in cui era stato ritenuto non applicabile il principio di non contestazione ai fini della prova della comproprietà nel giudizio di divisione; per aver il giudice d'appello sostenuto che la prova della comproprietà dovesse inderogabilmente darsi nel limite delle preclusioni previste per le attività istruttorie, anziché anche successivamente tramite le indagini del ctu; in relazione ai requisiti legittimanti la produzione in appello di nuovi documenti.

La questione

La questione esaminata nella pronuncia in commento attiene all'onere probatorio gravante sulle parti del giudizio di scioglimento della comunione ereditaria e sulle modalità di assolvimento dello stesso.

Le soluzioni giuridiche

I motivi di ricorso sono stati accolti perché ritenuti manifestamente fondati.

Partendo dall'indubbio rilievo per cui, nel giudizio di divisione ereditaria, occorre offrire la dimostrazione dell'appartenenza dei beni al de cuius (in tal senso, già la recente Cass. Civ. 28 maggio 2020, n. 10067), la Suprema Corte ha precisato che, tuttavia, di fronte alle contestazioni dei coeredi, l'attore non è tenuto a fornire la stessa prova rigorosa della proprietà (cd. probatio diabolica) richiesta nel caso di azione di rivendica o di accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell'attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. Civ. 20 maggio 1966, n. 1309). La domanda di divisione, infatti, anche quando proposta da uno solo, è sempre comune a tutti i condividenti, i quali sono tutti sul medesimo piano ed hanno eguale diritto alla divisione (Cass. civ., 8 luglio 1980, n. 4353).

Nel caso in esame, il giudice d'appello, pur avendo evidenziato che la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione dei beni divisi, presuppone l'appartenenza dei beni alla comunione (Cass. Civ. 18 maggio 1994, n. 4828), non aveva poi tenuto conto che tale accertamento non ha per sé solo, nei confronti dei terzi, forza probante del diritto di proprietà attribuito al condividente, nel senso che, se l'atto di divisione è fatto valere fuori dalla cerchia dei condividenti o loro aventi causa, occorre necessariamente dimostrare il titolo di acquisto della comunione, in base al quale il bene è stato attribuito in sede di divisione (ex multis, Cass. Civ. 10 marzo 2015, n. 4730; Cass. Civ. 31 gennaio 2012, n. 1392).

Secondo la Suprema Corte, quindi, è arbitrario negare a priori la rilevanza della non contestazione e, a fortiori, dell'esplicito o implicito riconoscimento dell'appartenenza dei beni ai coeredi, non potendosi disconoscere in materia la possibilità della prova indiziaria (Cass. Civ. 8 ottobre 2020, n. 21716). Un maggiore rigore probatorio si giustifica solo qualora si prospetti la necessità di procedere alla divisione mediante vendita a terzi (Cass. Civ. 28 maggio 2020, n. 10067).

In violazione dei predetti principi, invece, la corte d'appello aveva affermato che, nella divisione ereditaria, i coeredi sono invariabilmente gravati dall'onere di dare la prova rigorosa dell'appartenenza dei beni al de cuius. In realtà, in una situazione in cui la comune proprietà dei beni dividendi sia incontroversa, una produzione documentale, operata in corso di causa, o acquisita d'ufficio dal ctu, non incorre in alcuna preclusione, tenuto conto che non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro. La produzione, infatti, ridonda a vantaggio della collettività dei condividenti, così come andrebbe a svantaggio di tutti una acquisizione postuma, anche se operata d'ufficio dal ctu, dal quale emergesse che la proprietà comune, non contestata o desunta a livello indiziario, non trova conferma sul piano documentale.

La Suprema Corte ha, quindi, cassato la sentenza impugnata e rinviato alla medesima corte d'appello in diversa composizione.

Osservazioni

In sintesi, secondo la Suprema Corte, nel giudizio di divisione ereditaria: a) occorre dimostrare l'appartenenza dei beni al de cuius; b) tuttavia, anche in caso di contestazione da parte dei coeredi in ordine all'appartenenza dei beni alla massa ereditaria, l'onere probatorio che grava sull'attore è meno rigoroso di quello che caratterizza il giudizio di rivendica della proprietà; c) la prova dello stato di comunione può essere data anche tramite una condotta di non contestazione o con il ricorso alla prova indiziaria; d) un maggior rigore probatorio si giustifica solo qualora si prospetti la necessità di procedere alla vendita a terzi del bene indivisibile; e) nel caso in cui lo stato di comunione tra le parti sia incontestato, una produzione documentale, operata in corso di causa o acquisita d'ufficio dal ctu, non incorre in alcuna preclusione, trattandosi della prova di un fatto costitutivo di una domanda rispetto alla quale le parti non sono in contrapposizione tra loro.

Non tutte le predette affermazioni appaiono, però, pienamente condivisibili.

Occorre premettere che già Cass., 28 maggio 2020, n. 10067, nel superare un orientamento alquanto diffuso in una parte della giurisprudenza di merito, aveva statuito che, nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull'immobile da dividere, imposta dall'art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, tenuto conto che, in tali giudizi, l'intervento dei creditori e degli aventi causa dei condividenti è consentito ai soli fini dell'opponibilità delle statuizioni adottate; nel caso, tuttavia, in cui si debba procedere alla vendita dell'immobile comune, le informazioni richieste dal predetto art. 567 c.p.c. devono necessariamente acquisirsi a tutela del terzo acquirente, ma a tale esigenza provvede d'ufficio il giudice della divisione, il quale, nello svolgimento del potere di direzione delle operazioni, può ordinare alle parti la produzione della documentazione occorrente o avvalersi del professionista delegato alla vendita.

Pur dopo tale pronuncia persisteva, tuttavia, il dubbio se fosse necessario, nel giudizio divisorio, produrre, se non la documentazione ipocatastale (certificati delle iscrizioni e trascrizioni), quanto meno i titoli di acquisto in capo al de cuius dei beni caduti in comunione, perché potesse dirsi assolto l'onere probatorio gravante sull'attore.

Al riguardo, Cass. Civ 8 ottobre 2020, n. 21716, ha precisato che “sebbene sia auspicabile che il giudice investito della domanda di scioglimento della comunione verifichi in limine litis l'effettiva titolarità del diritto di comproprietà in capo ai condividenti (e ciò preferibilmente mediante l'acquisizione dei titoli di provenienza, corredati anche dalla documentazione ipo-catastale, che consente di verificare se nelle more siano intervenute delle modifiche del regime proprietario rispetto alla data cui risale il titolo di provenienza), ove però le parti convenute in giudizio non contestino l'effettiva appartenenza dei beni ai soggetti evocati in giudizio, ed ove, come nella specie, dalle indagini svolte dal consulente tecnico d'ufficio non emergano dubbi o incertezze circa la titolarità dei beni comuni in capo alle stesse parti, la contestazione mossa in sede di legittimità, in assenza di una puntuale allegazione di elementi probatori che denotino l'erroneità del convincimento del giudice circa la situazione di comproprietà, è inammissibile…”. Secondo tale ultima pronuncia, quindi, sebbene l'acquisizione a cura delle parti dei titoli e della certificazione ipo-catastale risponda “a commendevoli esigenze di prudenza e di agevolazione dell'accertamento probatorio, onde prevenire il rischio che in prosieguo di giudizio possa essere riscontrata l'esistenza di altri soggetti parti necessarie del giudizio di divisione”, nondimeno “ove il giudice di merito, sulla scorta dell'atteggiamento processuale di non contestazione delle parti evocate in giudizio ovvero sulla base di altri elementi di carattere probatorio, quali possono essere anche le verifiche condotte dall'ausiliario d'ufficio, si convinca della titolarità del diritto di comproprietà in capo alle parti effettivamente presenti nel giudizio di cui all'art. 784 c.p.c.”, la sola mancata acquisizione dei titoli e della certificazione ipo-catastale non può comportare la riforma della sentenza impugnata, in quanto, diversamente opinando, “si verrebbe a trasformare tale acquisizione in una sorta di presupposto processuale di ammissibilità della domanda, in assenza di una espressa volontà del legislatore”, considerato peraltro che, sebbene la prova documentale offra maggiori garanzie della titolarità dei beni in capo ai condividenti, tale prova non esaurisce, tuttavia, “gli strumenti dei quali può avvalersi il potere di autonomo accertamento del giudice di merito”.

Sulla stessa scia, la pronuncia ora in commento ha rimarcato che la prova dello stato di comunione può essere data anche tramite la valorizzazione della condotta processuale di non contestazione o ricorrendo ad elementi indiziari, senza che risulti quindi indispensabile la produzione dei titoli di provenienza dei beni e della documentazione ipocatastale, richiedendosi un maggior rigore probatorio solo nel caso in cui si debba procedere alla vendita a terzi del bene indivisibile (a tutela del terzo acquirente), e fermo restando che, in tale ultima ipotesi, la documentazione predetta potrà essere comunque acquisita anche nel corso del giudizio, e dunque a prescindere da eventuali (ed inoperanti) preclusioni processuali, ad opera delle parti o su iniziativa del ctu.

Da ultimo, Cass. Civ. 14 gennaio 2022, n. 1065, nel riprendere i principi recentemente affermati, ha ribadito che, nel giudizio divisorio, la prova della comproprietà, che pure deve essere fornita, non è soggetta a regole particolari, poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell'attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa.

Ebbene, sia consentito sollevare alcune perplessità rispetto all'orientamento che pur si va consolidando nella giurisprudenza di legittimità.

In primo luogo, una cosa è sostenere, in maniera certamente condivisibile, che l'attore che chiede la divisione ereditaria non è tenuto all'onere probatorio che caratterizza la probatio diabolica nei giudizi di rivendica ex art. 948 c.c. (per il cui assolvimento, invero, non è sufficiente neppure la produzione del titolo di acquisto del bene in capo al rivendicante, dovendo questi risalire, attraverso i propri danti causa, fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrare di aver usucapito il bene: cfr. Cass. Civ. 19 ottobre 2021, n. 28865), altra cosa è pervenire alla, più discutibile, affermazione per cui il predetto onere probatorio può essere assolto, pur in caso di mancata produzione del titolo di acquisto dei beni in capo al de cuius, attraverso la valorizzazione della condotta di non contestazione tra le parti ed il ricorso alle presunzioni: tale conclusione, invero, sembra porsi in contrasto, qualora si tratti di beni immobili, con il consolidato orientamento secondo cui il principio, sancito dall'art. 115, comma 1, c.p.c. - secondo cui i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita possono essere posti a fondamento della decisione, senza necessità di prova - non opera nel caso in cui il fatto costitutivo del diritto azionato sia rappresentato da un atto per il quale la legge impone la forma scritta ad substantiam (si pensi all'acquisto a titolo derivativo operato dal de cuius del bene poi caduto nella massa ereditaria), dal momento che in tale ipotesi l'osservanza dell'onere formale non è prescritta esclusivamente ai fini della dimostrazione del fatto, ma per l'esistenza stessa del diritto fatto valere, il quale, pertanto, può essere provato soltanto in via documentale, non risultando sufficienti né la prova testimoniale o per presunzioni, né la stessa confessione della controparte (Cass. Civ. 14 gennaio 2022, n. 1072; Cass. Civ. 17 ottobre 2018, n. 25999; Cass. Civ. 10 agosto 2001, n. 11054).

Da ciò si desume che, anche in presenza di una condotta di non contestazione, la prova dell'appartenenza al de cuius o, comunque, ai condividenti dei beni asseritamente comuni, ove si tratti di immobili, andrebbe fornita con la produzione in giudizio dei titoli di provenienza dei cespiti, in tal modo assolvendosi un onere probatorio non così rigoroso come quello che caratterizza l'azione di rivendica, ma neppure attenuato al punto da poter essere adempiuto anche con elementi meramente indiziari ovvero tramite condotte di non contestazione, le quali, peraltro, ben poca pregnanza processuale potrebbero avere, posto che l'onere di contestazione opera per i fatti a sé sfavorevoli (in tal senso, Cass. civ., 18 giugno 1971, n. 1865), e non per i fatti a sé favorevoli, come sarebbe il riconoscimento di un diritto comune a tutte le parti in causa (è interesse delle parti non contestare l'appartenenza dei cespiti alla massa da dividere). Insomma, la “non contestazione” tra gli aspiranti condividenti non può legittimare in via giudiziale la divisione di un bene che potrebbe appartenere ad un terzo.

Deve, invero, considerarsi che il provvedimento che pronuncia la divisione giudiziale, scaturendo dallo stesso l'acquisto di beni immobili, va soggetto al regime di pubblicità della trascrizione nei pubblici registri, che assolve all'interesse pubblico della certezza della circolazione dei diritti reali immobiliari. Tali interessi pubblici, ed in particolare quello relativo all'affidabilità delle risultanze dei registri immobiliari, sotto il profilo della stabilità, validità ed efficacia degli atti assoggettati a controllo di legalità, sarebbero completamente frustrati laddove la prova della proprietà in capo ai comunisti dei beni di cui è richiesta la divisione fosse rimessa alla piena disponibilità delle parti, libere di raggiungere tale risultato processuale semplicemente in virtù del meccanismo della “non contestazione”. Si darebbe in tale modo vita ad una pronunzia giurisdizionale assolutamente instabile e, profilo assai più grave, idonea a creare un'apparenza di diritto circa la titolarità di quei beni in capo ai condividenti, sulla quale legittimamente i terzi privati e la P.A. sarebbero portati a fare affidamento, con totale compromissione della certezza nella circolazione dei diritti reali immobiliari.

Anche la possibilità di produrre i titoli di provenienza dei beni in corso di causa, su iniziativa delle parti o tramite acquisizione officiosa del ctu, non persuade, atteso che: 1) le caratteristiche del giudizio di divisione ereditaria - rappresentate dalla finalità che esso persegue, di porre fine alla comunione con riferimento all'intero patrimonio del de cuius, e dalla possibilità che esso si concluda, in luogo che con sentenza, con ordinanza che, sull'accordo delle parti, dichiari esecutivo il progetto divisionale - non sono di per sé sufficienti a giustificare deroghe alle preclusioni tipiche stabilite dalla legge per il normale giudizio contenzioso (Cass. Civ. Sez. Un., 20 giugno 2006, n. 14109; Cass. Civ. 6 novembre 2018, n. 28272); 2) come recentemente ribadito da Cass. Civ. Sez. Un., 1° febbraio 2022, n. 3086, il ctu può acquisire, anche prescindendo dall'attività di allegazione delle parti, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda. Ora, tra i fatti principali del giudizio divisorio rientrano proprio quelli dimostrativi dello stato di comunione tra le parti, sicchè non potrebbe sopperirsi alla relativa lacuna probatoria con l'intervento del ctu.

Infine, solleva dubbi anche l'affermazione secondo cui l'onere probatorio nei giudizi divisori diventerebbe più rigoroso solo nel caso in cui emergesse la necessità di procedere alla vendita a terzi del bene comune (in quanto indivisibile), dovendosi in tal caso procedere all'acquisizione, anche d'ufficio, della documentazione di cui all'art. 567 c.p.c. Invero, la determinazione giudiziale di procedere alla vendita del bene indiviso è un posterius rispetto all'accertamento dell'assolvimento dell'onere probatorio gravante sulle parti, nel senso che, se tale onere non è stato assolto, la conseguenza sarà il rigetto della domanda di divisione, senza neppure procedere all'espletamento di una ctu che appuri la non comoda divisibilità del cespite. Sostenere, quindi, l'esistenza di questo “camaleontico” onere probatorio, che eventualmente si intensifica nel corso del giudizio a seconda dell'evolversi dello stesso, e solo per un'esigenza di tutela del terzo acquirente dell'immobile, non appare conforme alla sequenza delle fasi processuali che caratterizzano il giudizio divisorio, posto che l'assolvimento degli oneri probatori gravanti sulle parti, inerenti all'an dividendum sit, precede la determinazione delle modalità di scioglimento della comunione, da attuare eventualmente tramite vendita del bene.

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