Impresa familiare non produttiva di utili: nessun diritto al compartecipante

05 Settembre 2022

Il tribunale di Parma esamina la questione relativa all'accertamento dei requisiti dell'impresa familiare e alla eventuale relativa distribuzione di utili ai compartecipanti.
Massima

Il carattere residuale dell'impresa familiare comporta che la condizione necessaria e sufficiente per l'esistenza della stessa sia semplicemente il fatto dell'esercizio continuativo di un'attività economicamente rilevante da parte di un gruppo, anche formato semplicemente da due persone, legato da vincoli di familiarità, parentela o affinità, all'interno del quale un soggetto svolga, in forma (all'esterno riconoscibile come) individuale, attività di impresa.

Il caso

Con ricorso ex art. 414 c.p.c., l'ex moglie adiva il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nei confronti dell'ex marito, esponendo di avere continuativamente prestato attività di lavoro nell'impresa familiare tra essi intercorrente, ai sensi dell'art. 230-bis c.c., per la gestione di un'azienda agricola, senza mai ricevere alcuna retribuzione o quota di riparto degli utili.

In particolare, assumeva l'istante di avere svolto per tale impresa mansioni di segreteria, di interprete, di traduttrice e di non avere, durante tutta la durata dell'impresa stessa, dal 2002 al 2014, mai percepito alcun utile.

Il Tribunale di Parma, accertata in via preliminare l'esistenza di un'impresa familiare ex art. 230-bis c.p.c., concludeva per il rigetto della domanda per l'assenza di utili dell'impresa interessata.

La questione

L'oggetto del contendere riguarda, anzitutto, l'accertamento relativo alla ricorrenza dei requisiti dell'impresa familiare disciplinata dall'art. 230-bis c.p.c., nonché, in ipotesi di accertata sussistenza di tali requisiti, la liquidazione degli utili e degli incrementi spettanti al familiare in ragione della propria quota, ovvero in proporzione alla propria partecipazione all'impresa.

Le soluzioni giuridiche
Il Tribunale di Parma, dopo una preliminare disamina dell'istituto giuridico dell'impresa familiare, afferma che, una volta verificati i presupposti concreti per la sussistenza di un'impresa familiare, la normativa dettata dall'articolo 230-bis c.c. ha carattere imperativo e consegue, pertanto, alla semplice configurabilità dei comportamenti concludenti rispondenti alla formulazione normativa, senza necessità, perché se ne determini l'applicazione, di alcuno specifico atto di conferimento dell'obbligo a prestare la propria attività lavorativa all'interno dell'impresa altrui.La sentenza in commento conferma, in via preliminare, il carattere residuale dell'istituto dell'impresa familiare, una volta esclusa la sussistenza di rapporti giuridici formalizzati in contratti di tipo diverso (Cass. 11533/2020; Cass. 19925/2004), dichiarando, subito dopo, la costituzione di fatto e non negoziale della fattispecie.L'applicazione della normativa di cui all'art. 230-bis c.c. origina, infatti, per il Tribunale, da circostanze di fatto, senza necessità di alcuna dichiarazione di tipo negoziale al riguardo (Cass. 2060/1995): “dal che consegue che condizione sufficiente per l'esistenza dell'impresa familiare è semplicemente il fatto giuridico dell'esercizio continuativo di un'attività economicamente rilevante da parte di un gruppo, anche formato semplicemente da due persone, legato da vincoli di familiarità, ovvero parentela ed affinità, all'interno del quale un soggetto svolga, in forma (all'esterno riconoscibile come) individuale, attività di impresa”.Conclude che siffatta attività deve necessariamente tradursi, proporzionalmente alla quantità e alla qualità dell'attività lavorativa prestata, in una quota di partecipazione agli utili e agli incrementi dell'azienda (Cass. 1304/1997), da valutarsi e quantificarsi in relazione all'accrescimento della produzione e della produttività dell'impresa procurata e/o conseguente all'apporto lavorativo del partecipante, anche solo dal punto di vista di apporto nell'accudimento della casa e dei figli, poiché, in quest'ultima ipotesi, è del tutto evidente che il soggetto imprenditore potrà maggiormente dedicarsi all'impresa, in quanto sollevato dalle incombenze familiari.Oltre al mantenimento, l'art. 230-bis c.c. riconosce al familiare-lavoratore il diritto agli utili dell'impresa e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla qualità e alla quantità del lavoro prestato.Nonostante il Tribunale di Parma riconosca l'astratta riconducibilità della fattispecie in controversia all'ambito della figura invocata, conclude per il rigetto della domanda di condanna avanzata, in via principale, dalla ricorrente ed avente ad oggetto la corresponsione degli utili e degli incrementi spettanti, in proporzione alla propria partecipazione all'impresa, in ragione dello scioglimento dell'impresa medesima, per l'accertata mancanza, confermata dalla consulenza tecnica d'ufficio espletata in corso di causa, di produzione di utili da parte dell'azienda.
Osservazioni

Il caso prospettato consente di affrontare alcune rilevanti questioni in tema d'impresa familiare ex art. 230-bis c.c.

L'art. 230-bis disciplina l'impresa familiare, un istituto civilistico del diritto di famiglia, nato con riferimento alla piccola impresa, teso a valorizzare l'apporto di ciascun coniuge all'impresa familiare.

Ai sensi di tale norma: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa […] Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”.

Conformemente alla giurisprudenza in materia, il Tribunale di Parma afferma la residualità dell'istituto, concernente, cioè, l'apporto lavorativo all'impresa del congiunto che non rientri in altri archetipi lavorativi (Cass. 11533/2020; Cass. 19925/2014).

Si discute circa la configurabilità dell'impresa familiare con riguardo all'attività non imprenditoriale in senso stretto, ma professionale (G. Gabrielli). La dottrina prevalente ritiene che non sia possibile organizzare in forma imprenditoriale l'attività professionale, che mal si concilierebbe con la disciplina di cui all'art. 230-bis c.c., in special modo per tutte quelle professioni insuscettibili di assumere forma societaria.

Al di là dell'attività professionale, la costituzione di un'impresa familiare è possibile per tutte le attività d'impresa, a prescindere dalle dimensioni e dalla natura, agricola o commerciale, delle stesse (Cass. 4/1987; Cass. 262/1986; Cass. 3722/1984; Trib. Milano 23 maggio 1985).

Quanto alla natura giuridica, parte della dottrina ritiene l'impresa familiare una forma d'impresa collettiva gestita attraverso un'associazione tra imprenditore e familiari (G. Tamburrino) ovvero una società di fatto o sui generis (E. Simonetto). Per la dottrina prevalente (G.A.M. Trimarchi; F. Corsi) l'impresa familiare è un'impresa esercitata in forma individuale dal suo titolare, che resta imprenditore individuale. A sostegno si invoca il comma 3 dell'art. 230-bis c.c., in cui l'espressione “collaboratore” lascia intendere la distinzione tra colui che è titolare dell'impresa e colui che vi svolge mera attività collaborativa. La distinzione è stata accolta dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., 34222/2019), per la quale: “La natura individuale dell'impresa familiare comporta che ne sia titolare soltanto l'imprenditore, in conseguenza la posizione degli altri familiari, che prestano il loro apporto sul piano lavorativo, assume rilevanza esclusivamente nei rapporti interni, restando esclusa la configurabilità di un'ipotesi di litisconsorzio necessario”. Nell'impresa familiare si distingue, pertanto, un profilo esterno, concernente i rapporti dell'imprenditore con i terzi e la sua potenziale fallibilità, e un profilo interno di collaborazione tra l'imprenditore e i suoi familiari. Vale a dire che nei rapporti esterni l'impresa familiare è personificata dall'imprenditore individuale, che agisce discrezionalmente, anche in caso di contrasto o assenza di consenso dei collaboratori familiari, il cui assenso presenta valore meramente interno all'impresa familiare stessa.

In ordine alla sua costituzione, la teoria contrattualistica (E. Simonetto) ritiene che la fonte del rapporto dell'impresa familiare debba essere sempre un contratto, la cui manifestazione può esprimersi anche tacitamento o di fatto.

Prevale in dottrina la teoria del fatto giuridico (Bianca; Cass. 89/1995), secondo cui l'impresa familiare nasce dal fatto giuridico rilevante della collaborazione dei familiari all'impresa individuale.

L'accoglimento di una tesi piuttosto dell'altra presenta rilevanti ripercussioni di ordine pratico relative alla redazione dell'atto costitutivo dell'impresa, in quanto, affermare che essa nasca dall'esercizio di fatto di una collaborazione familiare comporta l'adesione alla natura dichiarativa dell'atto con cui le parti, dinanzi ad un pubblico ufficiale, confermano la mera sussistenza tra loro di un'impresa familiare già di fatto instaurata.

La sentenza del Tribunale di Parma conferma espressamente tale impostazione, dichiarando che l'impresa familiare non nasce da un contratto, ma si costituisce in base al fatto giuridico della collaborazione dei familiari all'impresa: “tale applicazione origina da circostanze di fatto, senza necessità di dichiarazione di tipo negoziale al riguardo(Cass. 2060/1995). Ne consegue che la formalizzazione dell'impresa familiare rappresenta un mero atto dichiarativo dell'esistenza di un'impresa familiare già di fatto costituitasi per effetto della collaborazione instaurata tra i familiari e l'imprenditore.

Quanto al concetto di “collaborazione”, la legge lo estende non solo all'impresa, ma anche alla famiglia, purché si presenti di tipo continuativo e funzionalmente collegato all'attività d'impresa che ne risulti avvantaggiata. La ratio sottesa a tale riconoscimento della collaborazione familiare è la medesima che permea l'istituto della comunione legale, tesa a consentire che, a prescindere dall'apporto economico di ciascun coniuge, i beni acquistati da uno di essi cadano in comunione perché presumibilmente acquistati con il frutto e il lavoro di entrambi i coniugi, anche di tipo familiare.

Tale istituto presenta, infine, essenzialmente una valenza fiscale, in quanto l'art. 5 d.P.R. 917/1986 al comma 4 prevede che “I redditi delle imprese familiari di cui all'articolo 230-bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La presente disposizione si applica a condizione: a) che i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo di imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente. 5. Si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”. Appare, infatti, evidente che poter distribuire il reddito tra più soggetti comporti indubbi vantaggi fiscali, costituendo l'imposta sul reddito un'aliquota di tipo proporzionale.

Una volta configurati i presupposti dell'impresa familiare, la legge riconosce al collaboratore il mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e la partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Il Tribunale chiarisce il concetto di utile d'impresa, quale differenza tra l'effettiva entità del patrimonio aziendale al momento iniziale della collaborazione e quella del patrimonio successivo, con la conseguenza che, come nella fattispecie in esame, nell'ottica di un'adeguata valorizzazione del rischio aziendale, la mancata realizzazione di utili da parte dell'impresa esclude il riconoscimento di una quota di utili in favore dell'ex collaboratore.

Ugualmente dicasi in ordine al diritto ai beni acquistati con i relativi utili d'impresa, che il Tribunale, in conformità alla prevalente dottrina, ritiene non essere una comproprietà sui beni così acquistati, bensì un credito dei familiari verso l'imprenditore, che troverà realizzazione al momento della cessazione dell'impresa o della prestazione di lavoro. Il principio testé enunciato è conforme al recente orientamento delle SSUU della Corte di Cassazione, ai sensi del quale al coniuge non imprenditore non spetta alcun diritto di comproprietà sui beni aziendali, ma un mero diritto di credito sui beni oggetto della comunione de residuo, pari alla metà dell'ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività (Cass. sez. un. 15889/2022).

Riferimenti

G. Gabrielli voce “Regime patrimoniale della famiglia”, in Dig. Disc. Priv., Sez. civ., XVI, Torino, 1997.

G.A.M. Trimarchi, Il regime patrimoniale della famiglia e l'impresa individuale e collettiva, in Notariato, 2006.

F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I. I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da Cicu – Messineo, Milano, 1979.

G. Tamburrino, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia, Torino, 1978.

E. Simonetto, Impresa familiare: dubbi interpretative e lacune normative, in. Dir. soc. 1976.

C.M. Bianca, Regimi patrimoniali della famiglia e attività d'impresa, in AA.VV., L'impresa nel nuovo diritto di famiglia, Napoli, 1977.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.