Cosa giudicata
01 Ottobre 2015
Inquadramento
In ambito tributario la disciplina dettata per la “cosa giudicata” segue le stesse regole previste per il rito civile, per effetto del rinvio – di portata generale - operato dal secondo comma dell'art. 1 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (a mente del quale “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”). Si tratta di una norma di chiusura emanata in attuazione dell'art. 30, comma 1, lettera g), della Legge 30 dicembre 1991, n. 413, che ha previsto l'adeguamento delle norme sul processo tributario a quelle dettate per il processo civile. La disposizione in commento va letta congiuntamente ad un'altra, anch'essa relativa al processo tributario: l'art. 49, che rinvia specificatamente alle norme del codice di procedura civile dedicate alle impugnazioni (cioè agli articoli da 323 a 338). Ne consegue, per quanto interessa in questa sede, che anche al processo tributario si rende applicabile l'art. 324 del codice di rito civile. Tale norma precisa, in particolare, che la sentenza di intende passata in giudicato quando non è più soggetta a:
a. regolamento di competenza; b. appello; c. ricorso per cassazione; d. revocazione per i motivi di cui all'art. 395, numeri 4 e 5, c.p.c. Alla luce della premessa che precede - e considerato che nel processo tributario non sono esperibili né il regolamento di competenza né l'opposizione di terzo di cui all'art. 404 del codice di procedura civile - si può affermare che le sentenze tributarie passano in giudicato quando non sono più impugnabili (in secondo grado o in Cassazione) oppure nei casi in cui non siano soggette a revocazione. L'art. 50 del decreto sul processo tributario, invero, individua tre mezzi per impugnare le sentenze delle commissioni: l'appello, il ricorso per cassazione e la revocazione. In tale contesto va inquadrato anche l'art. 2909 del codice civile (rubricato “Cosa giudicata”), ai sensi del quale l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato “a ogni effetto” tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Si tenga presente, infine, che anche alle pronunce delle commissioni tributarie provinciali e regionali si applicano le regole contenute negli art. 287 e 288 c.p.c. in materia di correzioni di errori materiali. Il termine entro il quale è possibile impugnare le sentenze emanate dalle Commissioni tributarie provinciali e regionali è di 60 giorni, che decorrono dalla data della loro notificazione (art. 51, comma 1, del D.Lgs. 546/92). Tuttavia, nel caso in cui nessuna delle parti provveda alla notificazione della sentenza, il termine per impugnare è di sei mesi decorrenti dalla pubblicazione della sentenza (art. 38, comma 3, del D.Lgs. 546/92; art. 327, comma 1, c.p.c.); tale norma, comunque, non si applica se la parte non costituita dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della notificazione del ricorso e della comunicazione dell'avviso di fissazione dell'udienza. Si tenga presente che ai fini del computo dei termini si applica la sospensione feriale di cui all'art. 1 della Legge 7 ottobre 1969, n. 742, che a decorrere dal 2015 opera dal 1° al 31 agosto di ciascun anno (e non più dal 1° agosto al 15 settembre), per effetto dell'art. 16, comma 1, del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modifiche dalla Legge 10 novembre 2014, n. 162. Revocazione
Anche alla revocazione – che può essere esperita nei confronti delle sentenze emesse sia in primo che in secondo grado - si applica il termine ordinario di 60 giorni, seppur con regole ad hoc per le ipotesi contemplate all'art. 395, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 6), del codice di procedura civile. In particolare, il suddetto termine decorre: a. se la sentenza è l'effetto del dolo di una delle parti, dal giorno in cui è stato scoperto il dolo; Ricorso in Cassazione
Relativamente alle circostanze in presenza delle quali il contribuente o l'Ufficio possono presentare ricorso presso la Corte di Cassazione avverso le sentenze delle Commissioni tributarie regionali, l'art. 62 del più volte richiamato D.Lgs. 546/92 da un lato ne circoscrive i motivi – a tal fine facendo rinvio all'art. 360, comma 1, numeri da 1) a 5), c.p.c. - e dall'altro rende applicabili in via generale le norme dettate per il processo civile. Ne consegue che la sentenza tributaria diventa “cosa giudicata” quando con l'impugnazione presso i giudici di legittimità si rilevano motivi per i quali tal mezzo di impugnazione non è ammesso, oppure se – pur trattandosi di motivi dei quali la Suprema Corte può essere investita – non sia stato superato il consueto termine di 60 giorni. Effetti del passaggio in giudicato della sentenza
Nel caso in cui la Commissione tributaria condanni l'Amministrazione fiscale (centrale o locale) al pagamento al contribuente di un determinato importo e la sentenza è passata in giudicato, si è in presenza dei presupposti del giudizio di ottemperanza e dell'esecuzione forzata, da attuarsi secondo le modalità di cui agli articoli 69 e 70 del D.Lgs. 546/92 e 475 del codice di procedura civile. Se invece la parte soccombente risulta essere il contribuente, l'ente impositore trasmette la pratica all'agente della riscossione ai fini della presa in carico e della successiva iscrizione a ruolo degli importi dovuti. Principi della domanda e di corrispondenza tra chiesto e pronunciato
Anche il processo tributario è retto – oltre che dal principio della domanda, enunciato all'art. 99 del codice di procedura civile, secondo cui per far valere un diritto in giudizio il soggetto è tenuto a proporre domanda al giudice competente – anche dal principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Ciò significa, parafrasando l'art. 112 del medesimo codice, che nella sua decisione la Commissione tributaria (provinciale o regionale) è tenuta ad attenersi al contenuto della domanda e al perimetro da essa delineato (“Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa (...)”. Questioni di fatto e di diritto
Un aspetto attorno al quale è maturato un ampio dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza attiene agli effetti, rispetto al giudicato, della risoluzione di questioni di fatto o di diritto: in linea generale si ritiene che tale ambito della sentenza – pregiudiziale all'esame del merito della domanda attorea – rimanga estraneo al passaggio in giudicato. Ciò avviene, ad esempio, in merito a quanto afferma il giudice relativamente alla sussistenza dei fatti posti alla base dell'atto, oppure ai vizi di quest'ultimo; passa in giudicato, invece, l'accertamento del diritto vantato dal contribuente o dall'Amministrazione fiscale.
Sulla scorta di tale premessa è agevole comprendere il significato preciso del terzo comma dell'art. 2 del decreto delegato sul processo tributario, per il quale la commissione risolve “in via incidentale” ogni questione dalla quale dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione (fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio). Sennonchè presso la giurisprudenza di legittimità si è sviluppata la tesi che nelle controversie civili estenderebbe il passaggio in giudicato anche nei confronti della risoluzione delle questioni pregiudiziali, sia di fatto che di diritto; il principio, peraltro, non si è affermato in ambito tributario, laddove la Suprema Corte appare incline a ritenere che:
Sul punto merita inoltre di essere ricordato un passaggio della Circolare 19 marzo 2012, n. 9/E, con la quale l'Agenzia delle Entrate ha ricordato che secondo la giurisprudenza di legittimità è ammesso il ricorso cumulativo, anche avverso più sentenze, al verificarsi, tuttavia, di alcune precise condizioni. In particolare, "secondo le Sezioni unite di questa Corte, il ricorso cumulativo contro una pluralità di sentenze emesse in materia tributaria, anche se formalmente distinte perché relative a differenti annualità, è ammissibile quando la soluzione, per tutte le sentenze, dipenda da identiche questioni di diritto comuni a tutte le cause, in modo da dar vita ad un giudicato rilevabile d'ufficio in tutte le controversie relative al medesimo rapporto d'imposta (Cass. S.U. 13916/2006; 3692/2009, in parte motiva)”. In altre parole: il giudicato si può “dilatare” soltanto e nella misura in cui consegua ad un ricorso cumulativo. Efficacia del giudicato relativo ad altri periodi di imposta
Aderendo ai principi espressi dalla sentenza da ultimo richiamata, si dovrà allora individuare un criterio di distinzione tra le decisioni su questioni pregiudiziali di fatto che “espandono” la loro efficacia di giudicato anche ad altri annualità, e quelle il cui ambito applicativo è circoscritto al periodo d'imposta oggetto del contenzioso nel quale esse sono state adottate. Sul punto appare condivisibile l'opinione che ritiene operare il vincolo laddove la fattispecie posta all'esame della commissione tributaria attenga ad un caso “identico” a quello già vagliato e deciso dai giudici tributari. Nessun effetto vincolante, quindi, per le decisioni su questioni di fatto analoghe e simili ma differenti. Il giudicato nei confronti di soggetti terzi
In merito al problema dell'applicabilità del giudicato tributario nei confronti di soggetti rimasti estranei alla controversia, la Corte Costituzionale (sentenza 30 aprile 1968, n. 48, depositata il 16 maggio 1968) ha affermato - ponendo di fatto la parola fine alla questione – che:
In conclusione: nei confronti del soggetto che non ha preso parte al processo tributario nessun giudicato può essere efficace. Il principio appare di particolare importanza nell'ambito di particolari tipologie di controversie tributarie, quali quelle derivanti da accertamenti notificati a società di persone (per i riflessi che si possono produrre in capo ai soci) oppure a sostituti di imposta (sotto il profilo degli effetti per il sostituito). Il giudicato nelle obbligazioni solidali
Sotto questo profilo entra in gioco l'art. 1306 del codice civile, che afferma sostanzialmente due principi: innanzitutto – perfettamente in linea con le argomentazioni sopra svolte - che la sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei debitori in solido non ha effetto contro gli altri debitori; in secondo luogo - e in deroga alla regola appena esposta - che gli altri debitori possono comunque opporre detta pronuncia al creditore. Ciò significa, in altre parole, che la sentenza con la quale la commissione tributaria respinge il ricorso di uno dei contribuenti obbligati solidalmente, non produce effetti nei confronti degli altri, i quali possono comunque (se nei tempi) proporre e/o proseguire autonoma controversia con l'Amministrazione fiscale. Qualora, invece, la sentenza sia stato favorevole, anche i condebitori rimasti estranei alla controversia possono beneficiarne. Riferimenti
Normativi:
D.L. 12 settembre 2014, n. 132 Legge 10 novembre 2014, n. 162 Art. 1 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 Legge 7 ottobre 1969, n. 742 Art. 287 c.c.
Prassi:
Agenzia delle Entrate, Circolare 19 marzo 2012, n. 9/E
Giurisprudenza:
Cass. civ. sez. trib. 15 maggio 2015, n. 9968 Cass. civ. sez. trib. 2 marzo 2007, n. 4904 Cass. civ. sez. trib. 14 marzo 2007, n. 5943 Cass. civ. S.U. 16 giugno 2006, n. 13916 Cass. civ. sez. trib. 22 ottobre 2005, n. 3551 Corte Cost. 30 aprile 1968, n. 48
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