Azione di annullamento

Roberto Chieppa
21 Settembre 2022

Il Capo II del titolo III del Libro I del Codice del processo amministrativo è relativo alle azioni di cognizione.È noto come fino ad oggi il processo amministrativo sia stato incentrato sulla tradizionale azione di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, che costituisce una azione dal carattere costitutivo, pur avendo il legislatore – già prima della entrata in vigore del Codice — arricchito la tutela del cittadino nei confronti dell'amministrazione con nuovi strumenti. L'articolo 29 del Codice del processo amministrativo prevede che “L'azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni. L'azione di annullamento resta centrale nel processo amministrativo, anche se è oggi accompagnata da una serie di altre azioni esperibili.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

Prima dell'entrata in vigore del Codice, il processo amministrativo era già caratterizzato da una tutela ben più ampia della mera azione di annullamento e, con l'art. 44 della legge n. 69/2009, il legislatore delegante ha inteso chiaramente ampliare la tipologia delle azioni esperibili, richiamando tale disciplina tra i criteri di delega e facendo riferimento al risultato che con le azioni può essere conseguito (“prevedere le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”).

Da tempo, il legislatore e la giurisprudenza hanno arricchito la tutela del cittadino nei confronti dell'amministrazione con nuovi strumenti di tutela:

- il ricorso avverso il silenzio, con il conseguente dibattito circa l'oggetto del giudizio, se limitato all'obbligo di provvedere o se esteso alla fondatezza della pretesa (come previsto dall'art. 2, comma 8, della legge n. 241/1990 senza peraltro chiarire in quali casi il giudice può spingersi ad accertare la fondatezza dell'istanza restata priva di risposta);

- la tutela risarcitoria, originariamente attribuita al giudice amministrativo nelle sole materie di giurisdizione esclusiva e poi estesa all'intero ambito della sua giurisdizione (anche di legittimità);

- le altre azioni di condanna al pagamento di somme di denaro, esperibili nelle materie di giurisdizione esclusiva;

- l'azione di accertamento, ritenuta esperibile solo in presenza di posizioni di diritto soggettivo e recentemente estesa anche agli interessi legittimi da alcune aperture della giurisprudenza, non del tutto consolidate.

In attuazione del già richiamato criterio di delega, è stata effettuata la scelta di inserire nel codice del processo amministrativo anche la disciplina delle azioni, pur non essendo questa presente negli altri codici di rito.

Alcun dubbio vi può essere sul fatto che, anche nel nuovo sistema di azioni, la domanda di annullamento resti centrale e ciò è, del resto, la conseguenza del regime di invalidità dei provvedimenti amministrativi, caratterizzato dalla regola dell'annullabilità, che necessita di applicazione giudiziale e dalla eccezionalità dei casi di nullità, configurabili nelle tassative ipotesi previste dal legislatore e non in via generale per effetto della violazione di norme imperative.

Nel dedicare all'azione di annullamento il primo articolo del capo relativo alle azioni di cognizione, il Codice si limita a ribadire che l'azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni.

E' significativo che il termine di sessanta giorni sia riferito non alla disciplina del ricorso (art. 41 c.p.a.), ma all'azione di annullamento, potendo con il ricorso essere introdotte azioni diverse soggette a differenti termini.

L'annullabilità dell'atto come ordinaria forma di invalidità nel diritto amministrativo

La invalidità di un atto è, in via generale, la difformità di tale atto dal diritto e determina la sanzione della inefficacia definitiva dello stesso; tale sanzione può essere automatica, come nel caso della nullità, che opera di diritto o necessita di una apposita applicazione giudiziale, come nel caso dell'annullabilità, che non si determina automaticamente ma deriva da una decisione del giudice amministrativo su sollecitazione del privato ricorrente.

Le due forme di invalidità costituiscono entrambe una qualificazione negativa dell'atto, determinata dall'inosservanza delle norme giuridiche, con la differenza che l'atto nullo è, in quanto invalido, inefficace di diritto, e viene considerato tamquam non esset, mentre l'atto annullabile è comunque idoneo a produrre i suoi effetti che permangono nell'ordinamento giuridico fino a quando e solo se, su istanza di parte, non venga dichiarata, in via giudiziale, l'illegittimità dell'atto stesso (nel caso dell'attività amministrativa, l'atto non venga rimosso in via di autotutela dalla stessa amministrazione).

Con riguardo al regime delle invalidità nel diritto amministrativo, il legislatore si era limitato a prevedere che il giudice amministrativo decidesse sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa (art. 26, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato ed art. 2 l. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tar).

Con tali disposizioni di contenuto solo processuale era stato comunque codificato il principio, secondo cui la tipica sanzione prevista per l'invalidità del provvedimento amministrativo è l'annullabilità, di applicazione giudiziale.

Per la nullità del provvedimento amministrativo e l'azione di accertamento della nullità vedi il commento all'art. 31.

Nel diritto civile, la regola per violazione a norme imperative è la nullità, mentre il rimedio dell'annullabilità è applicabile soltanto in presenza di una espressa previsione legislativa ovvero qualora la norma stessa è posta a presidio di interessi particolari e non generali, come in materia di delibere assembleari, di matrimonio, di testamento.

La ragione di fondo di tale divergenza di disciplina tra vizi dell'atto amministrativo e vizi del negozio è chiara: nel diritto amministrativo l'esigenza prioritaria è quella di assicurare la stabilità del provvedimento amministrativo. Nel nostro ordinamento, come si evince chiaramente dal termine di decadenza, fissato per la contestazione dei provvedimenti amministrativi, è inconcepibile che il vizio di un provvedimento amministrativo, ancorché derivante da violazione di norma imperativa, possa essere rilevato senza limiti temporali ed addirittura d'ufficio da parte del giudice. Se così non fosse, l'azione amministrativa resterebbe perennemente precaria ed incerta e potrebbe in ogni tempo essere rimessa in discussione. Esigenze di rilievo pubblicistico impongono invece che, decorso il termine di decadenza, il provvedimento amministrativo, giusto o sbagliato che sia, pervenga ad una condizione di stabilità ed intangibilità giurisdizionale, salva naturalmente la possibilità per la Pubblica Amministrazione di esercitare l'autotutela nei limiti previsti anche per tale potere, che infatti sono stati temporalmente ristretti ad «un termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20» (modifica introdotta dall'articolo 6, comma 1, lett. d), n. 1) della l. 7 agosto 2015, n. 124).

Mentre l'atto nullo è inefficace di diritto, il provvedimento annullabile è provvisoriamente efficace, salvo a perdere la sua efficacia al momento dell'annullamento.

Nel diritto amministrativo l'annullabilità costituisce, quindi, una figura generale, collegata ai tre tradizionali vizi di illegittimità dell'atto amministrativo (violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza).

È stato evidenziato che tale particolare annullabilità si differenzia da quella civilistica. perché non solo è previsto un breve termine di decadenza in luogo della prescrizione breve, ma il vizio non si può fare valere in via di eccezione, quando la prescrizione (o la decadenza) sia scaduta.

Altra differenza con il diritto civile è costituita dai vizi che attengono al momento formativo dell'atto: nel diritto amministrativo tale fase è procedimentalizzata per legge e le figure sintomatiche dell'eccesso di potere attengono all'erronea rappresentazione della realtà fattuale ed anche i vizi formali o quelli procedimentali assumono maggiore rilievo perché privano il cittadino della possibilità di verificare se il contenuto precettivo del provvedimento si è formato correttamente.

I tre vizi di legittimità

La codificazione aveva così riguardato solo i tre tradizionali vizi di legittimità, che determinano l'annullabilità dell'atto amministrativo: violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza.

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L'atto illegittimo è idoneo a produrre effetti fino a che non intervenga una pronuncia giurisdizionale che ne determina la caducazione retroattiva o fino a che sono sia annullato d'ufficio dalla stessa amministrazione nell'ambito dei propri poteri di autotutela.

Le norme che disciplinano l'azione amministrativa e, in particolare, il provvedimento amministrativo sono tutte norme imperative giacché trovano fondamento nei principi costituzionali di buon andamento e di efficienza dell'azione amministrativa di cui all' art. 97 Cost. e non sono disponibili per la Pubblica Amministrazione.

Tuttavia, ogni violazione di legge (anche di disposizioni imperative) costituisce vizio di legittimità, e quindi causa di annullabilità, dell'atto amministrativo; pertanto, la violazione di norma imperativa che nel diritto civile provoca nullità, nel diritto amministrativo si qualifica come vizio di violazione di legge, che determina invece l'annullabilità dell'atto.

È stato correttamente sottolineato come la ragione di fondo di tale divergenza di disciplina tra vizi dell'atto amministrativo e vizi del negozio sia chiara: nel diritto amministrativo l'esigenza prioritaria è quella di assicurare la stabilità del provvedimento amministrativo. Nel nostro ordinamento, come si evince chiaramente dal principio di decadenza, è inconcepibile che il vizio di un provvedimento amministrativo, ancorché derivante da violazione di norma imperativa, possa essere rilevato senza limiti temporali ed addirittura d'ufficio da parte del giudice. Se così non fosse, l'azione amministrativa resterebbe perennemente precaria ed incerta e potrebbe in ogni tempo essere rimessa in discussione. Esigenze di rilievo pubblicistico impongono invece che, decorso il termine di decadenza, il provvedimento amministrativo, giusto o sbagliato che sia, pervenga ad una condizione di stabilità ed intangibilità giurisdizionale, salva naturalmente la possibilità per la Pubblica Amministrazione di esercitare l'autotutela nei limiti previsti anche per tale potere.

Nel 2005, in sede di riforma delle legge sul procedimento amministrativo, tale impostazione ha rischiato di essere in parte stravolta.

L'art. 21-octies nella prima formulazione del disegno di riforma prevedeva al comma 1 che «è annullabile il provvedimento amministrativo contrario a norme imperative o viziato da eccesso di potere».

La restrizione del tradizionale vizio della violazione di legge alla violazione di norme imperative da un lato confermava l'autonomia del diritto amministrativo rispetto al diritto civile, ma dall'altro lato comportava la necessità di distinguere tra norme imperative e norme dispositive, introducendo così un grave problema interpretativo.

Fortunatamente, oggi tale problema non si pone, in quanto la definitiva versione della norma non fa che confermare il tradizionale e consolidato regime di annullabilità del provvedimento amministrativo, fondato sui tre vizi di legittimità: violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza.

Le novità introdotte in sede di riforma del 2005 sono invece costituite dalla codificazione dell'istituto della nullità del provvedimento amministrativo (art. 21-septies; v. il commento all'art. 31, comma 4) e dall'introduzione dei c.d. vizi non invalidanti del provvedimento: alcune illegittimità formali o procedimentali, che possono non condurre all'annullamento dell'atto ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990.

In definitiva, nel diritto amministrativo l'annullabilità costituisce una figura generale, collegata ai tre tradizionali vizi di illegittimità dell'atto amministrativo (violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza).

È stato evidenziato che tale particolare annullabilità si differenzia da quella civilistica perché non solo è previsto un breve termine di decadenza in luogo della prescrizione breve, ma il vizio non si può fare valere in via di eccezione, quando la prescrizione (o la decadenza) sia scaduta.

Il regime di invalidità degli atti amministrativi si accosta, più significativamente, al particolare regime delle invalidità delle delibere assembleari (delle società di capitali e del condominio) che si evince dagli artt. 2377-2379 c.c., laddove la regola generale prevista è la annullabilità, la nullità è la eccezione (la nullità è limitata dall' art. 2379 c.c. ai casi di impossibilità o illiceità dell'oggetto). Tale accostamento deriva dal fatto che in entrambi i casi si è in presenza di esercizio del potere, privato per le delibere assembleari e pubblico per l'azione amministrativa e dalla esigenza di certezza delle situazioni giuridiche regolate dall'esercizio del potere, realizzata dal legislatore attraverso la previsione della sanzione dell'annullabilità e di un breve termine di decadenza per contestare tale esercizio (applicabile anche alle delibere assembleari, tanto che in dottrina si è fatto riferimento agli «interessi legittimi di diritto privato»).

Il vizio dell'eccesso di potere con le sue figure sintomatiche è quello che ha consentito al giudice amministrativo di passare da un controllo meramente estrinseco sull'azione amministrativa ad un controllo intrinseco, esteso alla verifica della correttezza della modalità di esercizio della discrezionalità, anche tecnica (v. oltre).

Le figure sintomatiche dell'eccesso di potere

L'evoluzione del sindacato del giudice amministrativo sull'esercizio del potere discrezionale della P.A. ha da sempre coinciso con l'evoluzione stessa del processo amministrativo.

Il processo amministrativo è stato in passato ancorato ad un modello impugnatorio, in cui il giudice valuta la legittimità dell'atto impugnato; tuttavia, è innegabile che il processo si sia evoluto tanto che l'oggetto dello stesso viene oggi individuato non tanto nel formale atto impugnato, quanto nella pretesa sostanziale fatta valere in giudizio e tale evoluzione trova una conferma con l'entrata in vigore del Codice del processo amministrativo.

Ciò è stato possibile proprio grazie all'affinamento delle tecniche del sindacato sulla discrezionalità amministrativa.

In origine, il giudice amministrativo annullava l'atto solo se adottato in palese violazione di legge o da organo incompetente, utilizzando con estrema parsimonia il vizio dell'eccesso di potere.

La giurisprudenza creò le c.d. figure sintomatiche dell'eccesso di potere, prendendo spunto dall'esperienza del detournement de pouvoir del Conseil d'Etat francese.

Attraverso il vizio dell'eccesso di potere potevano così emergere tutte le violazioni dei limiti interni della discrezionalità amministrativa che, pur non essendo consacrati in norme positive, sono inerenti alla natura stessa del potere esercitato.

Il vizio dell'eccesso di potere è quindi il tipico vizio dell'atto discrezionale, mentre in ipotesi di attività vincolata, non vi è alcun apprezzamento che può essere compiuto dall'Autorità, che deve limitarsi ad applicare la legge.

Non essendo facile comprendere se, nei casi concreti, l'amministrazione abbia deviato dalla causa del potere esercitato e dal perseguimento dell'interesse pubblico, la giurisprudenza ha individuato una serie di figure sintomatiche dell'eccesso di potere, che costituiscono gli indici della deviazione.

Anche in questo caso il processo è stato graduale.

All'inizio i giudici amministrativi prendevano in considerazione il solo atto impugnato, senza estendere l'indagine a come l'amministrazione era arrivata ad adottarlo e, di conseguenza, i margini del sindacato erano piuttosto ristretti e si incentravano sulla motivazione del provvedimento.

Tra le prime figure sintomatiche dell'eccesso di potere compare così il difetto assoluto di motivazione, che poi via via si affina e in risposta a motivazioni standard utilizzate dalla P.A. si trasforma nell'insufficienza della motivazione e ancora più avanti nelle illogicità o contraddittorietà della motivazione.

Il passaggio da un controllo meramente formale sulla sola esistenza di una motivazione alla verifica della correttezza in fatto e, soprattutto, della logicità della motivazione costituisce già un primo passo, attraverso il quale la discrezionalità amministrativa viene sindacata in modo più penetrante.

A questo punto dottrina e giurisprudenza spostano l'attenzione sul processo decisionale seguito dalla Pubblica amministrazione, sul procedimento e indicano una serie di regole cui la P.A. deve attenersi; regole poi codificate dalla legge n. 241/1990.

È un ulteriore passo avanti che consente al giudice di non limitare il proprio controllo al mero atto impugnato ma di valutare l'istruttoria svolta dalla P.A. e quindi i fatti.

L'accertamento dei fatti entra così a far parte del processo amministrativo e consente al giudice di verificare se il potere sia stato esercitato sulla base di presupposti corretti o di un travisamento dei fatti (altra figura sintomatica).

Tra i fatti che possono assumere rilievo come indice dell'eccesso di potere sono oggi inclusi anche i messaggi sui c.d. social, come le dichiarazioni via tweet di un Ministro, che benché non integrino un atto amministrativo annullabile per incompetenza (posto che al Ministro compete soltanto l'adozione degli atti di indirizzo, non già dei concreti atti di gestione), costituiscono sicura spia dell'eccesso di potere per sviamento, specie quando gli organi di gestione della p.a. sembrano essersi determinati non già sulla base di una meditata valutazione degli elementi istruttori, ma al fine di assecondare gli impegni ormai pubblicamente assunti dal Ministro con il tweet (TAR Liguria, n. 787/2014, confermata da Cons. Stato, sez. VI, n. 769/2015 e a cui ha fatto seguito TAR Liguria n. 11/2019, che ha condannato il Ministero al risarcimento del danno).

Inoltre, una nuova tematica è emersa con riferimento alle decisioni amministrative robotizzate che sono espressione di un algoritmo; tali forme di decisione sono conformi ai canoni di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa in quanto comportano indiscutibili vantaggi derivanti dalla automazione del processo decisionale dell'amministrazione mediante l'utilizzo di una procedura digitale ed attraverso un “algoritmo” – ovvero di una sequenza ordinata di operazioni di calcolo–che in via informatica sia in grado di valutare e graduare una moltitudine di domande.

L'utilizzo di procedure “robotizzate” non può, tuttavia, essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell'attività amministrativa e l'algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico” (Cons. Stato, sez. VI, n. 2270/2019, che ha affermato che la regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall'uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest'ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva.

Questa regola algoritmica, quindi: - possiede una piena valenza giuridica e amministrativa, anche se viene declinata in forma matematica, e come tale, come si è detto, deve soggiacere ai principi generali dell'attività amministrativa, quali quelli di pubblicità e trasparenza (art. 1, l. 241/90), di ragionevolezza, di proporzionalità, etc.; - non può lasciare spazi applicativi discrezionali (di cui l'elaboratore elettronico è privo), ma deve prevedere con ragionevolezza una soluzione definita per tutti i casi possibili, anche i più improbabili (e ciò la rende in parte diversa da molte regole amministrative generali); la discrezionalità amministrativa, se senz'altro non può essere demandata al software, è quindi da rintracciarsi al momento dell'elaborazione dello strumento digitale; - vede sempre la necessità che sia l'amministrazione a compiere un ruolo ex ante di mediazione e composizione di interessi, anche per mezzo di costanti test, aggiornamenti e modalità di perfezionamento dell'algoritmo (soprattutto nel caso di apprendimento progressivo e di deep learning); - deve contemplare la possibilità che sia il giudice a “dover svolgere, per la prima volta sul piano ‘umano', valutazioni e accertamenti fatti direttamente in via automatica”, con la conseguenza che la decisione robotizzata “impone al giudice di valutare la correttezza del processo automatizzato in tutte le sue componenti”. Il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l'algoritmo) deve, quindi, essere “conoscibile” (e quindi sindacabile), secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico.

Nel caso esaminato da Cons. Stato, sez. VI, n. 2270/2019 la decisione robotizzata è stata annullata perché la regola contenuto nell'algoritmo non è risultata comprensibile con conseguente impossibilità di capire le modalità con le quali, attraverso il citato algoritmo, erano stati assegnati i posti disponibili per le docenze nella scuola (peraltro, gli esiti della procedura automatizzata avevano determinato situazioni paradossali per cui docenti con svariati anni di servizio si sono visti assegnare degli ambiti territoriali mai richiesti e situati a centinaia di chilometri di distanza dalla propria città di residenza, mentre altri docenti, con minori titoli e minor anzianità di servizio, hanno ottenuto proprio le sedi dagli stessi richieste).

L'utilizzo del parametro della ragionevolezza e della proporzionalità consente infine al giudice di trasformare il proprio controllo, una volta meramente estrinseco, in un controllo intrinseco sulla discrezionalità, attraverso il quale viene proprio verificato se la comparazione degli interessi in gioco è avvenuta in modo corretto, con un esatto accertamento dei fatti e se la scelta finale non solo sia rispondente all'interesse primario perseguito, ma sia anche ragionevole e proporzionata (con il minor sacrificio possibile degli altri soggetti coinvolti).

Il vizio di eccesso di potere resta un vizio di legittimità ed implica un confronto tra l'atto (e l'attività) e il precetto non scritto che presiede alla discrezionalità; i vizi di merito non sindacabili sono quindi ristretti ai profili dell'opportunità e della convenienza.

Effetti dell'annullamento in sede giurisdizionale

Di regola, in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa, l'accoglimento della azione di annullamento comporta l'annullamento con effetti ex tunc del provvedimento risultato illegittimo, con salvezza degli ulteriori provvedimenti della autorità amministrativa, che può anche retroattivamente disporre con un atto avente effetti ‘ora per allora'.

L'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento amministrativo produce effetti diversi a seconda del vizio per il quale il provvedimento viene annullato: in presenza di un vizio procedimentale (assenza di una fase del procedimento, mancata partecipazione degli aventi titolo, ecc.) l'esito della pronuncia del giudice di annullamento sarà costituito dalla necessità di rinnovare in modo corretto il procedimento; il riscontro del vizio del difetto o dell'insufficienza della motivazione, determinerà l'esigenza che l'amministrazione motivi in modo adeguato il proprio atto; invece, quando, il provvedimento viene annullato per ragioni di ordine sostanziale (ad es., fondatezza della pretesa del privato negata con l'atto impugnato o insussistenza dei presupposti per l'adozione di un atto destinato ad incidere negativamente sul privato), l'esito dell'annullamento sarà maggiormente satisfattivo per il ricorrente, determinando nel primo caso l'obbligo di riesercitare il potere in senso a lui favorevole, salvo sopravvenienze e, nel secondo caso, l'eliminazione del provvedimento sfavorevole e la riespansione della sua posizione giuridica.

L'annullamento dell'atto da parte del giudice amministrativo non preclude in via di principio la riedizione del potere amministrativo, ma la nuova valutazione non può porre in discussione l'accertamento del giudice circa la sussistenza dei presupposti relativi alla pretesa del ricorrente e comunque deve dimostrarsi il frutto della constatazione della erroneità del giudizio precedente ( Cons. Stato, Ad. plen., n. 2/2013).

Sul rapporto tra riesercizio del potere discrezionale e giudicato, v. il commento all'art. 112 in relazione all'obbligo per la p.a., dopo un giudicato di annullamento, di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati (Cons. Stato, sez. IV, n. 1018/2014, che richiama Cons. Stato, sez. V, n. 134/1999).

Effetti della sentenza di annullamento e potere del giudice di limitare tali effetti

Come appena detto gli effetti dell'annullamento di un atto in sede giurisdizionale sono ex tunc.

Tuttavia, quando la sua applicazione risulterebbe incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale, la regola dell'annullamento con effetti ex tunc dell'atto impugnato a seconda delle circostanze deve trovare una deroga, o con la limitazione parziale della retroattività degli effetti (Cons. Stato, sez. VI, n. 1488/2011; Cons. giust. amm. Reg. Sic., n. 1173/2020 e n. 994/2021; Cons. St., Ad. plen., n. 13/2017), o con la loro decorrenza ex nunc ovvero escludendo del tutto gli effetti dell'annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi.

Gli effetti tipicamente e necessariamente ex tunc dell'annullamento disposto dal giudice sono stati posti in dubbio da una decisione del Consiglio di Stato, con cui si ipotizza una limitazione parziale della retroattività degli effetti dell'annullamento, ovvero la loro decorrenza «ex nunc», ovvero ancora l'esclusione di tali effetti con indicazione gli effetti conformativi (Cons. Stato, sez. VI, n. 2755/2011, oggetto di critica di parte della dottrina). Nel caso esaminato da detta pronuncia, accertata l'illegittimità di una Piano faunistico venatorio, il Consiglio di Stato si è limitato a dettare misure idonee ad assicurare l'attuazione della sentenza e il relativo obbligo conformativo ai sensi dell' art. 34, comma 1, lett. e), prima frase, del c.p.a. (che consente di anticipare alla sede di cognizione le misure esecutive). È stato escluso non solo l'effetto demolitorio ex tunc, ma anche quello ex nunc, perché altrimenti «sarebbero state travolte tutte le prescrizioni del piano, e ciò sia in contrasto con la pretesa azionata col ricorso di primo grado, sia con la gravissima e paradossale conseguenza di privare il territorio pugliese di qualsiasi regolamentazione e di tutte le prescrizioni di tutela sostanziali contenute nel piano già approvato (retrospettivamente o a decorrere dalla pubblicazione della presente sentenza, nei casi rispettivamente di annullamento ex tunc o ex nunc)». Secondo il giudice di appello, l'annullamento ex tunc e anche quello ex nunc degli atti impugnati risulterebbero in palese contrasto sia con l'interesse posto a base dell'impugnazione, sia con le esigenze di tutela prese in considerazione dalla normativa di settore, e si ritorcerebbe a carico degli interessi pubblici di cui è portatrice ex lege l'associazione appellante. Viene, quindi, stabilito che l'illegittimità del piano determina unicamente la produzione di effetti conformativi, in assenza di effetti caducatori e d'annullamento, in quanto la Regione Puglia dovrà emanare ulteriori provvedimenti, sostitutivi ex nunc di quelli risultati illegittimi e che tengano conto dei medesimi effetti conformativi (In linea con il citato discusso precedente Tar Piemonte,9 agosto 2017 n. 960 che, nonostante l'illegittimità dell'atto, non ha proceduto all'annullamento, disponendo solo effetti conformativi per la p.a., consistenti nella specie nel riattivare un procedimento per valutare la posizione della ricorrente senza appunto annullare l'atto impugnato che era una diffida ad effettuare una bonifica).

Un importante caso di limitazioni degli effetti di una sentenza di annullamento e di posticipazione degli stessi nel tempo è quello relativo alla proroga delle concessioni balneari: la Adunanza plenaria, dopo aver riconosciuto la necessità di disapplicare per contrasto con il diritto dell'U.E. le norme di proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, ha sostanzialmente posticipato gli effetti della decisione ammettendo che le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023 al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedura di gara richieste e, altresì, nell'auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea (Cons. St., Ad. plen. n. 17/2021 e n. 18/2021).

La possibilità di limitare gli effetti di una pronuncia di annullamento viene tratta anche dalla giurisprudenza comunitaria.

Viene ricordato che la giurisprudenza comunitaria ha da tempo affermato che il principio dell'efficacia ex tunc dell'annullamento, seppur costituente la regola, non ha portata assoluta e che la Corte può dichiarare che l'annullamento di un atto (sia esso parziale o totale) abbia effetto ex nunc o che, addirittura, l'atto medesimo conservi i propri effetti sino a che l'istituzione comunitaria modifichi o sostituisca l'atto impugnato (Corte di Giustizia, 5 giugno 1973, Commissione c. Consiglio, in C-81/72; Corte di Giustizia, 25 febbraio 1999, Parlamento c. Consiglio, in C-164/97 e 165/97).

Tale potere valutativo prima dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona era previsto espressamente nel caso di riscontrata invalidità di un regolamento comunitario (v. l'art. 231 del Trattato istitutivo della Comunità Europea), ma era esercitabile — ad avviso della Corte — anche nei casi di impugnazione delle decisioni (Corte giustizia CE, 12 maggio 1998, Regno Unito c Commissione, in C-106/96), delle direttive e di ogni altro atto generale (Corte giustizia CE, 7 luglio 1992, Parlamento c. Consiglio, in C-295/90; Corte giustizia CE, 5 luglio 1995, Parlamento c Consiglio, in C-21-94).

La Corte di Giustizia è dunque titolare anche del potere di statuire la perduranza, in tutto o in parte, degli effetti dell'atto risultato illegittimo, per un periodo di tempo che può tenere conto non solo del principio di certezza del diritto e della posizione di chi ha vittoriosamente agito in giudizio, ma anche di ogni altra circostanza da considerare rilevante (Corte giustizia CE, 10 gennaio 2006, in C-178/03; Corte giustizia CE, 3 settembre 2008, in C-402/05 e 415/05; Corte giustizia CE, 22 dicembre 2008, in C-333/07).

Tale giurisprudenza ha ormai trovato un fondamento testuale nel secondo comma dell'art. 264 (ex 231) del Trattato di Lisbona sul funzionamento della Unione Europea, che non contiene più il riferimento delimitativo alla categoria dei regolamenti («Se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dell'Unione europea dichiara nullo e non avvenuto l'atto impugnato. Tuttavia la Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi»).

La natura discrezionale del potere di annullamento di ufficio sarebbe sicuramente compatibile con una graduazione degli effetti dell'annullamento e consentirebbe di tutelare, almeno in parte, l'affidamento del privato, senza dover scegliere in modo rigido tra conservazione dell'atto e annullamento con effetti retroattivi.

Del resto, se la pubblica amministrazione ha il potere di non annullare l'atto illegittimo, sulla base di una valutazione discrezionale o anche di annullare parzialmente un atto, non si vede perché tale potere non possa essere graduato anche con riferimento agli effetti dell'annullamento sulla base del principio che il più (non annullamento) comprende il meno (annullamento limitato ad effetti ex nunc).

In attesa di un consolidamento del principio giurisprudenziale, ci si limita a osservare che la limitazione degli effetti dell'annullamento non può diventare uno strumento attraverso cui il giudice amministrativo compie valutazioni di merito e soprattutto limita la tutela giurisdizionale.

L'efficacia dell'annullamento giudiziale di un atto a natura regolamentare si estende a tutti i possibili destinatari, sebbene non siano stati parti del giudizio, perché gli effetti della sentenza si estendono al di là delle parti che sono intervenute nel singolo giudizio, dato che l'annullamento di un atto amministrativo a contenuto normativo ha efficacia erga omnes per la sua ontologica indivisibilità (Cons. Stato, sez. VI, n. 6212/2011).

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