Azione risarcitoria

Roberto Chieppa
21 Settembre 2022

Nonostante l'art. 30 del Codice sia rubricato come «azione di condanna» in termini generali, la maggior parte delle disposizioni (commi da 2 a 6) riguardano la condanna al risarcimento del danno e costituiscono il tentativo di dare una disciplina compiuta alle modalità di esercizio dell'azione risarcitoria nel processo amministrativo. A rafforzamento dei criteri di riparto di giurisdizione, contenuti nell'art. 7 c.p.a., è ribadito che di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo. La previsione con maggiore carattere innovativo è senza dubbio quella con cui è stato superato il principio della c.d. pregiudiziale amministrativa ed è stato introdotto un termine di decadenza per proporre la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi (centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo), che ha superato il vaglio di costituzionalità. Nel nuovo sistema l'impugnazione dell'atto fonte del danno non è pregiudiziale, ma è rilevante ai fini dell'esame della domanda di risarcimento e il giudice esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti. In caso di proposizione della domanda di annullamento il ricorrente può scegliere se proporre la domanda di risarcimento contestualmente al ricorso introduttivo, o nel corso del giudizio di annullamento con motivi aggiunti o entro il termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento. Per il danno derivante dall'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (c.d. danno da ritardo), la domanda di risarcimento deve essere proposta entro 1 anno e 120 giorni dalla scadenza del termine per provvedere. Viene anche precisato che nel processo amministrativo il risarcimento del danno in forma specifica è un rimedio di natura risarcitoria attivabile in presenza dei presupposti previsti dall'art. 2058 c.c.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

L'azione risarcitoria nel processo amministrativo non rappresenta ovviamente una novità del Codice e, di conseguenza, prima di affrontare le questioni processuali è opportuno ricostruire il quadro normativo e giurisprudenziale che ha condotto a fare della giurisdizione amministrativa una giurisdizione «piena» comprendente anche la tutela risarcitoria.

Secondo la lettura interpretativa precedente la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione 22 luglio 1999, n. 500, l'ostacolo insormontabile alla risarcibilità dell'interesse legittimo era costituito da una ragione di ordine sostanziale, e cioè dalla tradizionale lettura dell' art. 2043 c.c., che identificava il danno ingiusto con la lesione di un diritto soggettivo, sul rilievo che l'ingiustizia del danno, che l' art. 2043 c.c. assume quale componente essenziale della fattispecie della responsabilità civile, andava intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure e contra ius; non iure, nel senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato dall'ordinamento giuridico; contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall'ordinamento medesimo nella forma del diritto soggettivo perfetto (Cass., sez. un., n. 5813/1985).

Nessun limite veniva invece ravvisato in relazione ai comportamenti materiali della p.a., indiscussa fonte di responsabilità aquiliana (Cass. III, n. 3939/1996).

La giurisprudenza della Corte suprema, anche prima dell'intervento della sentenza n. 500/1999, pur riaffermando in linea di principio la irrisarcibilità degli interessi legittimi quale necessario corollario della lettura tradizionale dell' art. 2043 c.c., aveva manifestato una tendenza progressivamente estensiva dell'area della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione di alcune figure di interesse legittimo, « mascherando » da diritto soggettivo situazioni che non avevano tale consistenza, come affermato poi nella stessa sentenza n. 500/1999.

Con riguardo alla tutela degli «interessi legittimi oppositivi », era stata ammessa la risarcibilità del c.d. diritto affievolito, e cioè dell'originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con effetto ripristinatorio retroattivo (Cass. III, n. 6542/1995).

Analoghe conclusioni erano state raggiunte nell'ipotesi, che costituisce sviluppo di quella precedente, della c.d. riespansione della quale beneficia anche il diritto soggettivo (non originario ma) nascente da un provvedimento amministrativo, qualora sia stato annullato il successivo provvedimento caducatorio dell'atto fonte della posizione di vantaggio (Cass., sez. un., n. 2436/1997).

Anche per gli interessi legittimi pretesivi venne riconosciuta la risarcibilità limitatamente all'ipotesi di lesione da fatto reato, ritenendo che per i danni prodotti da reato l'ingiustizia è in re ipsa, e non ha quindi bisogno di essere riconnessa alla violazione di un diritto soggettivo (Cass. I, n. 1540/1995).

Perplessità circa l'adeguatezza della tradizionale soluzione che negava la tutela risarcitoria in caso di danni causati a posizioni di interesse legittimo erano state espresse dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 35/1980), che aveva anche auspicato un intervento del legislatore (Corte cost. n. 165/1998).

Con la sentenza n. 500/1999, la Cassazione ha preso atto che l' art. 2043 c.c. non costituisce una norma secondaria, ma racchiude una clausola generale primaria espressa nella formula danno ingiusto, riconoscendo che la tradizionale limitazione della tutela risarcitoria alle posizioni di diritto soggettivo è estranea al tenore letterale della norma e ne costituisce una forzatura, essendo invece risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, in quanto lesivo di interessi ai quali l'ordinamento attribuisce rilevanza.

Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori, ma è compito del giudice procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, sulla base di un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, che non è rimesso alla sua discrezionalità, ma va condotto alla stregua del diritto positivo, al fine di accertare se, e con quale consistenza ed intensità, l'ordinamento assicura tutela all'interesse del danneggiato, con disposizioni specifiche. La Cassazione ha poi precisato che ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale, in quanto la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risultino integrati tutti i requisiti, oggettivi e soggettivi, dell'illecito (Cass. S.U., n. 500/1999).

Prima dell'attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione sulle pretese risarcitorie, il dibattito sulla giurisdizione era incentrato sulla definizione della nozione di diritti patrimoniali conseguenziali.

Sulla base del previgente testo dell' art. 7, comma 3, l.Tar (e prima ancora dell' art. 30 del t.u. Cons. Stato), era previsto che, nelle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A., quest'ultimo conoscesse anche di diritti soggettivi, con il limite delle « questioni attinenti a diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di illegittimità dell'atto o provvedimento contro cui si ricorre », riservate all'autorità giudiziaria ordinaria.

Restavano quindi fuori dalla giurisdizione esclusiva non tutte le questioni attinenti a diritti patrimoniali, ma solo quelle consequenziali alla pronuncia di illegittimità; il risarcimento del danno derivato dal provvedimento amministrativo caducato nel giudizio amministrativo costituiva un diritto patrimoniale consequenziale, in quanto conseguenza ulteriore della pronuncia di illegittimità e non derivante immediatamente da questa.

Al fine di concentrare la tutela giurisdizionale, l' art. 11, comma 4, lett. g), della l. 15 marzo 1997, n 59 prevedeva, quale criterio di delega, la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sui rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e « infine, la contestuale estensione della giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali conseguenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici ».

Su quest'ultimo punto la legge delega venne attuata attraverso l'originaria formulazione dell' art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 (« il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli articoli 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto »).

Il sistema di riparto di giurisdizione con riferimento alla tutela risarcitoria ha poi subito un definitivo assestamento dopo la sentenzan. 292/2000 della Corte costituzionale e l'entrata in vigore della l. n. 205/2000.

Dapprima, nel luglio del 2000, la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell' art. 76 Cost., l' art. 33 comma 1 d.lgs. n. 80/1998, nella parte in cui istituisce una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi, anziché limitarsi ad estendere in tale materia la giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali conseguenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, in quanto l' art. 11, comma 4, lett. g), l. n. 59/1997 non consentiva l'ampliamento della giurisdizione esclusiva all'intero ambito della materia dei servizi pubblici. La dichiarazione di incostituzionalità dell' art. 33 d.lgs. n. 80/1998, nella parte in cui ha creato una giurisdizione esclusiva in tema di pubblici servizi, non consentita dalla legge di delega, produce effetti sul successivo art. 35, inerente la tutela risarcitoria, determinando la necessità di adeguarne il contenuto in via interpretativa, e di limitarne la portata dei richiami operati nei commi 1, 2, 3 e 5 di tale norma alla sola parte residua dell'art. 33 (Corte cost. n. 292/2000). Con la stessa sentenza, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata questione di costituzionalità dell' art. 35, comma 4, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, sostitutivo dell' art. 7, comma 3 della l. Tar, ritenendo che la delega legislativa prevista dall'art. 11, comma 4, lett. g), seconda parte, della l. 15 marzo 1997 n. 59 fosse sufficientemente determinata, in quanto con la stessa il legislatore non intendeva ampliare, nelle materie dell'edilizia, dell'urbanistica e dei servizi pubblici, l'ambito delle esistenti giurisdizioni esclusive, ma soltanto concentrare dinanzi al giudice amministrativo, nell'esercizio dei poteri di cognizione ordinaria ed esclusiva già nella sua titolarità, accanto alla fase del controllo di legittimità dell'azione amministrativa, anche quella (ove configurabile) della riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno, senza dover instaurare un successivo giudizio dinanzi al giudice ordinario. Nella parte finale della sentenza la Corte osservava che — premesso l'effetto prodotto dalla pronuncia di ricondurre l' art. 33 d.lgs. n. 80/1998 negli stretti limiti della legge delegante — restava al Legislatore ogni valutazione sull'opportunità di una delega più estesa o di un diretto intervento, nella prospettiva del compimento del disegno riformatore della l. n. 59/1997, che sia conforme alla Costituzione.

Immediatamente dopo la pubblicazione della sentenza Corte cost. n. 292/2000 è entrato in vigore l' art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205, che ha riscritto gli artt. 33,34 e 35 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80.

La l. n. 205/2000 ha quindi immediatamente sanato gli effetti della pronuncia di incostituzionalità, di cui alla sentenza della Consulta n. 292/2000, ma non ha previsto alcuna disposizione di diritto transitorio per disciplinare i processi in corso.

In ipotesi di giudizi, anche risarcitori, riconducibili alla parte di art. 33 del d.lgs. n. 80/1998 dichiarato incostituzionale, promossi davanti al giudice ordinario dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, ma prima dell'entrata in vigore della l. 21 luglio 2000, n. 205, la Cassazione ha affermato che la giurisdizione spetta al giudice ordinario, in quanto per valutare la giurisdizione, non è determinante l' art. 33 d.lgs. n. 80/1998, perché dichiarato incostituzionale, né è determinante la l. n. 205/2000, perché, ai sensi dell' art. 5 c.p.c., come sostituito dall' art. 2 l. n. 353/1990, la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della domanda e non hanno rilevanza i mutamenti successivi ( Cass., sez. un., n. 9645/2001).

La Corte costituzionale ha aderito alla tesi, secondo cui il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova « materia » attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione (Corte cost. n. 204/2004).

Infine, s rafforzamento dei criteri di riparto di giurisdizione, contenuti nell'art. 7 c.p.a., l'art. 30 c.p.a. stabilisce che di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo.

Attribuita la giurisdizione sulle domande di risarcimento e ammessa la possibilità di ottenere il risarcimento per i danni causati alle posizioni di interesse legittimo, si è aperta una discussione sull'esatta delimitazione della estensione della giurisdizione amministrativa alle diverse domande di risarcimento.

Azione risarcitoria e riparto di giurisdizione

Con la sentenza n. 204/2004 la Corte costituzionale ha dichiarato in parte incostituzionali gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80/1998, come riscritti dall' art. 7 della legge n. 205/2000 ed ha precisato che la dichiarazione di incostituzionalità non investe in alcun modo — nonostante il richiamo da parte dei giudici a quo a sostegno delle loro censure — l' art. 7 della l. n. 205/2000, nella parte in cui (lettera c) sostituisce l' art. 35 del d.lgs. n. 80/1998. La Corte ha chiarito che il risarcimento del danno non è una nuova «materia» attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. Ha aggiunto la Corte che l'attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato, ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell' art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola, che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l' art. 13 l. n. 142/1992, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null'altro che attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cost. (Corte cost. n. 204/2004).

Alla cognizione del giudice amministrativo – giudice del legittimo esercizio della funzione amministrativa – sono così attribuite le domande di risarcimento del danno che si pongano in rapporto di causalità diretta con l'illegittimo esercizio del potere pubblico, mentre resta riservato al giudice ordinario soltanto il risarcimento del danno provocato da “comportamenti” della p.a. che non trovano rispondenza nel precedente esercizio di quel potere»; di conseguenza, il danno provocato dalla mancata o illegittima adozione di provvedimenti amministrativi discrezionali rientra nell'ambito della giurisdizione amministrativa.

Il descritto quadro, caratterizzato dalla concentrazione davanti al g.a. delle diverse forme di tutela, compresa quella risarcitoria, è stato confermato dal Codice nella disposizione generale sulla giurisdizione (art. 7), che conferma l'attribuzione al giudice amministrativo della tutela risarcitoria sia nella giurisdizione generale di legittimità (comma 4), sia in sede di giurisdizione esclusiva (comma 5).

La rilevanza dell'attribuzione al g.a. della tutela risarcitoria, al fine di rendere tale tutela piena, si desume dal comma 6 dell'art. 30, che rafforza l'art. 7, esplicitando che «di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo».

Viene definitivamente chiarito che le modalità di proposizione della domanda (contestualmente all'azione di annullamento o in via autonoma) non hanno alcun rilievo ai fini del riparto di giurisdizione, che spetta comunque al giudice dell'esercizio del potere, che è appunto il giudice amministrativo, unico a poter conoscere delle domande risarcitorie inerenti le modalità di esercizio, o mancato esercizio, di quel potere, non potendo in alcun modo la giurisdizione dipendere da ragioni di connessione.

Con riferimento all'azione risarcitoria per danni causati dalla lesione di diritti incomprimibili, come la salute o l'integrità personale, la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la q.l.c. dell'art. 1, comma 552, della l. n. 311/2004 nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie aventi ad oggetto le procedure ed i provvedimenti in materia di impianti di generazione di energia elettrica di cui al d.l. 7 febbraio 2002, n. 7 e le relative questioni risarcitorie, ha evidenziato che non osta alla validità costituzionale della norma la natura « fondamentale » dei diritti soggettivi coinvolti nelle controversie de quibus, non essendovi alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario — escludendone il giudice amministrativo — la tutela dei diritti costituzionalmente protetti. (Corte cost. n. 140/2007, e successivamente Corte cost. n. 35/2010, che ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell' art. 4 del d.l. n. 90/2008 in materia di rifiuti, che prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie, anche relative a diritti costituzionalmente tutelati, comunque attinenti alla complessiva azione di gestione dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti dell'amministrazione pubblica o dei soggetti alla stessa equiparati).

A tale principio si è poi adeguata anche la Cassazione, che ha negato la fondatezza della tesi, secondo cui i diritti fondamentali protetti dalla Costituzione, come quello alla salute, sarebbero non degradabili ad interessi legittimi, con la conseguenza che la P.A. agirebbe sempre in carenza assoluta di potere e quindi i comportamenti di essa dovrebbero sempre ritenersi non fondati sull'esercizio di un potere e valutarsi come attività materiali e di mero fatto, riservate alla esclusiva cognizione del giudice ordinario ( Cass., sez. un., n. 27187/2007, che ha affermato che si deve distinguere sempre tra i comportamenti materiali, che esprimono l'esercizio di un potere amministrativo e sono collegati comunque ad un fine pubblico o di pubblico interesse legalmente dichiarato, da quelli di mero fatto, riservando quindi soltanto i primi alla cognizione dei giudici amministrativi, nella materie riservate alla giurisdizione esclusiva di questi ultimi; Cass., sez. un., n. 16304/2013, che sempre in materia di tutela della salute e in presenza di una domanda di risarcimento del danno derivante dalla compromissione dell'ambiente, ha ribadito l'inesistenza nell'ordinamento di un principio che riservi esclusivamente al giudice ordinario la tutela dei diritti costituzionalmente protetti; Cass., sez. un., n. 22612/2014, che, nell'affermare che il risarcimento del danno da ritardo nel rilascio del visto d'ingresso per ricongiungimento familiare appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, ha ritenuto che da ciò non derivi alcuna illegittimità costituzionale, in quanto il g.a. assicura una tutela dei diritti fondamentali equivalente a quella garantita dal g.o.).

Un contrasto di giurisprudenza permane con riferimento al risarcimento del danno causato al privato, beneficiario di un provvedimento a lui favorevole ma illegittimo ed annullato dall'amministrazione stessa in via di autotutela o in sede giurisdizionale.

In contrasto con l'orientamento del giudice amministrativo, la cassazione ha affermato che la attrazione della tutela risarcitoria nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo può verificarsi esclusivamente qualora il danno, patito dal soggetto che ha proceduto alla impugnazione dell'atto, sia conseguenza immediata e diretta (art. 1223 c.c.) della illegittimità dell'atto impugnato. Il proprietario del suolo o il titolare di altro diritto reale, che legittimi a costruire, hanno, quindi, un interesse pretensivo al rilascio della concessione edilizia; se il richiedente che si trova nelle condizioni previste dalla legge per il rilascio di detta concessione, se la veda ingiustamente negare, può insorgere contro l'illegittimo provvedimento di diniego chiedendo al giudice amministrativo sia il controllo della legittimità dell'atto sia il conseguente risarcimento del danno. In questo caso è ammissibile la concentrazione di entrambe le tutele dinanzi allo stesso giudice, potendo l'avente diritto al rilascio della licenza invocare entrambe le tutele. Quando, invece, il proprietario o altro titolare dello ius aedificandi che ottenuta la concessione edilizia ed iniziata l'attività di edificazione sul fondo facendo affidamento (incolpevole) sulla (apparente) legittimità dell'atto, venga successivamente (e legittimamente) privato del diritto ad edificare a seguito di annullamento di ufficio della concessione o di annullamento giurisdizionale della stessa su ricorso di un soggetto, la tutela — risarcitoria per l'affidamento ingenerato dal provvedimento (illegittimo) favorevole spetta al giudice ordinario, perché non richiede che per ottenere il risarcimento la parte domandi al giudice amministrativo un accertamento a proposito della illegittimità del comportamento tenuto dall'amministrazione (Cass., sez. un., n. 6594/2011; principio ribadito da Cass., sez. un., n. 6450/2016, che ha affermato la sussistenza della giurisdizione del G.O. per l'azione di risarcimento dei danni derivanti dall'affidamento incolpevole su di un provvedimento amministrativo, nella specie, licenza di esercizio di un albergo, successivamente oggetto di provvedimento di chiusura per l'assenza di certificati che costituivano il presupposto per l'iniziale rilascio della licenza, sulla quale aveva fatto affidamento una impresa al momento dell'acquisto del complesso alberghiero; Cass. I, n. 24438/2011; Cass., sez. un., n. 17586/2015; Cass., sez. un., n. 15640/2017, che ha ribadito che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in presenza di una azione di risarcimento del danno proposta dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento ampliativo successivamente dichiarato illegittimo in una fattispecie in cui una società aveva chiesto il risarcimento dei danni asseritamente patiti in conseguenza della mancata esecuzione di un contratto di appalto in seguito all'annullamento in sede giurisdizionale del procedimento di selezione del contraente; Cass., sez. un., n. 19170/2017; Cass., sez. un., n. 22435/2018, che ha ribadito tale principio anche in fattispecie rientranti nella giurisdizione esclusiva del g.a., affermando che l'attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto che agisce nei confronti della pubblica amministrazione sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che ha impugnato; mentre si è al di fuori della giurisdizione amministrativa se viene in rilievo una fattispecie complessa in cui l'emanazione di un provvedimento favorevole, che venga successivamente annullato in quanto illegittimo, si configura solo come uno dei presupposti dell'azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del provvedimento di determinare l'affidamento dell'interessato e la lesione del suo patrimonio che consegue a tale affidamento e alla sopravvenuta caducazione del provvedimento favorevole. In questi casi – secondo la Cassazione - la natura stessa del comportamento lesivo non consiste tanto ed esclusivamente nella illegittimità dell'agire della p.a. ma piuttosto nella violazione del principio generale del neminem laedere; Cass., sez. un. n. 4889/2019, ha attribuito alla giurisdizione ordinaria una controversia in cui un privato aveva chiesto il risarcimento dei danni derivanti dall'affidamento incolpevole riposto dall'acquirente di un immobile sui titoli edilizi e certificati di abitabilità rilasciati dal Comune successivamente rivelatisi illegittimi, venendo in questo caso in rilievo la situazione di diritto soggettivo, rappresentata dalla conservazione dell'integrità del patrimonio che il ricorrente assume esser stata lesa per avere acquistato una parte di quella costruzione sull'affidamento riposto sull'azione del Comune, rivelatasi invece negligente ed inerte, sicchè i provvedimenti menzionati rilevano solo se ed in quanto idonei a fondare tale affidamento; Cass., sez. un. n. 19677/2020; Cass., sez. un., n. 12635/2019 che afferma anch'essa la giurisdizione del g.o. nelle controversie risarcitorie per lesione del legittimo affidamento del privato ingenerato dal comportamento della p.a.)

Il contrasto tra Cassazione e Consiglio di Stato permane anche dopo le sentenze della Plenaria del novembre del 2021: da un lato, la Adunanza plenaria ha affermato che sussiste, tanto in sede di giurisdizione generale di legittimità, quanto nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la giurisdizione amministrativa sulla domanda risarcitoria proposta dal controinteressato soccombente in un giudizio di annullamento di provvedimenti della pubblica amministrazione per il risarcimento dei danni derivanti dalla lesione dell'affidamento ingenerato in un provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale (Cons. Stato, Ad. plen., n. 20/2021) e, dall'altro lato, la Cassazione ha ribadito la sussistenza della giurisdizione ordinaria sulla domanda di risarcimento dei danni da lesione dell'affidamento serbato su un provvedimento favorevole poi annullato in sede giurisdizionale (Cass., sez. un., n. 1778/2022).

Nel merito, la Plenaria ha aggiunto che la responsabilità dell'amministrazione per lesione dell'affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell'impugnazione contro lo stesso provvedimento e postula che sia insorto un ragionevole convincimento sulla legittimità dell'atto, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell'impugnazione contro lo stesso provvedimento (Cons. Stato, Ad. plen., n. 19/2021 e n. 21/2021; con la sentenza n. 19/2021 è stato anche affermato che la parte risultata vittoriosa di fronte al tribunale amministrativo regionale sul capo di domanda relativo alla giurisdizione non è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice amministrativo).

Il superamento della pregiudiziale amministrativa e l'azione autonoma di risarcimento

Il passaggio da un sistema processuale incentrato sulla rigorosa e non derogabile regola della pregiudiziale amministrativa ad un sistema aperto alla possibilità di azioni autonome di risarcimento è stato lungo e controverso, oltre che caratterizzato da una forte contrapposizione tra la giurisprudenza civile e quella amministrativa.

Per «pregiudiziale amministrativa» si intende la necessità di impugnare (ed ottenere l'annullamento) dell'atto amministrativo prima di poter conseguire il risarcimento del danno derivante da quel medesimo atto.

Prima della sentenza n. 500/1999, la Cassazione ammetteva la tutela risarcitoria del c.d. diritto affievolito, e cioè dell'originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con effetto ripristinatorio retroattivo (Cass., sez. III, n. 6542/1995; v. supra).

In tali ipotesi era necessario adire prima il giudice amministrativo per ottenere l'annullamento dell'atto, idoneo a far riemergere il diritto soggettivo e poi il giudice ordinario per chiedere il risarcimento del danno.

Da quel momento è sorto, in giurisprudenza e in dottrina, un aspro contrasto tra i sostenitori della tesi della pregiudiziale e quelli dell'opposto orientamento.

Il contrasto è stato sanato solo dopo l'entrata in vigore del Codice del processo amministrativo.

La soluzione individuata è stata quella di prevedere l'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento, superando così il principio della c.d. pregiudiziale ma, al contempo, sottoponendo la proponibilità dell'azione di risarcimento al rispetto di un termine decadenziale di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto dannoso si è verificato o il provvedimento lesivo è stato conosciuto, prevedendo che, nel determinare il risarcimento, il giudice valuti tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, escluda il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, «anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti».

Affinché il comportamento del creditore sia ritenuto conforme all'ordinaria diligenza ai fini del risarcimento del danno, non è richiesto il necessario esperimento degli ordinari rimedi giurisdizionali di impugnazione: ciò sarebbe contrario alla ratio della norma di cui all' art. 30 c.p.a., che ha escluso la necessità di previa impugnazione dell'atto ai fini dell'ammissibilità dell'azione di risarcimento del danno patrimoniale, nonché alla lettera del comma 3, che chiaramente si riferisce a «strumenti di tutela», non già di «tutela giurisdizionale» e comunque non li considera ineluttabili («anche attraverso...»). A tal fine, è sufficiente che l'amministrazione sia stata messa in condizione, tramite un apposito «avviso di danno» consistente nell'invito all'autotutela, di ritornare sul proprio atto, assolvendo, in un regime di risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo, l'obbligo (o, meglio, l'onere) di annullamento d'ufficio dell'atto illegittimo ( art. 21-nonies l. n. 241/1990), al fine di evitare di incorrere nella condanna al risarcimento del danno anche per le spese ulteriori sostenute dal privato (Cons. Stato, sez. V, n. 6296/2011; Cons. Stato, sez. VI, n. 1605/2014). La prima decisione, che richiama Cass. III, 3 marzo 2011, n. 5120, si riferisce ad un caso in cui il ricorrente aveva tenuto un comportamento rispondente al canone di ordinaria diligenza preordinato ad evitare il danno, dapprima comunicando con raccomandata all'amministrazione, analiticamente, le ragioni per le quali riteneva l'illegittimità del provvedimento, con avviso degli «ingenti danni economici» subiti per effetto dell'atto, e trasmettendo, poi, atto stragiudiziale di diffida a provvedere entro dieci giorni alla revoca dell'atto; la mancata impugnazione dell'atto è stata ritenuta valutabile in sede di quantificazione del danno risarcibile, ma non come causa di esclusione del risarcimento; nel secondo caso il danneggiato da una ordinanza comunale di occupazione di una cava aveva diligentemente provveduto a partecipare durante tutto il periodo di perdurante occupazione a conferenze di servizi convocate dalle amministrazioni interessate, vanamente manifestando la volontà di ottenere ristoro al danno perpetrato e il g.a. non ha ravvisato elementi per escludere o diminuire il danno da risarcire.

Il giudice delle leggi ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30, comma 3, nella parte in cui stabilisce che la « domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo», sollevata, in riferimento agli artt. 3,24, primo e secondo comma, 111, primo comma, 113, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all' art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza il 12 dicembre 2000, e agli artt. 6 e 13 della Cedu (Corte cost. 4 maggio 2017 n. 94).

La Consulta ha escluso l'incostituzionalità della nuova disciplina sulla base delle seguenti ragioni.

a) in relazione al principio di ragionevolezza, la previsione del termine di decadenza per l'esercizio dell'azione risarcitoria non può ritenersi il frutto di una scelta viziata da manifesta irragionevolezza, ma costituisce l'espressione di un coerente bilanciamento dell'interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con eliminazione della regola della pregiudizialità), con l'obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria, secondo una logica di stabilità degli effetti giuridici ben conosciuta anche in diritto privato (art. 2377, comma 6, c.c.). La ragionevolezza emerge anche a fronte del bilanciamento operato con l'interesse, di rango costituzionale, di consolidare i bilanci delle pubbliche amministrazioni (artt. 81,97 e 119 Cost.) e di non esporli, a distanza rilevante di tempo, a continue modificazioni incidenti sulla coerenza e sull'efficacia dell'azione amministrativa;

b) in relazione al principio di uguaglianza, è esclusa la sussistenza del presupposto dell'identità di situazioni. Infatti, alla necessità che davanti al giudice amministrativo sia assicurata al cittadino la piena tutela, anche risarcitoria, non consegue che detta tutela debba essere del tutto analoga all'azione risarcitoria del danno da lesione di diritti soggettivi;

c) in relazione all'introduzione di un termine breve per l'esercizio della difesa ex artt. 24 e 113 Cost., secondo la Consulta il termine di centoventi giorni è significativamente più lungo di molti dei termini decadenziali previsti dal legislatore sia nell'ambito privatistico che in quello pubblicistico, e per ciò solo non può dirsi in alcun modo inidoneo a rendere la tutela giurisdizionale effettiva;

d) in merito ai parametri di ordine sovranazionale, mentre il principio di equivalenza è rispettato in quanto la norma censurata riguarda sia la posizione dei titolari di posizioni giuridiche fondate sul diritto dell'Unione sia i titolari di posizioni giuridiche fondate sul diritto interno, per ciò che concerne il principio di effettività, il termine di centoventi giorni, di per sé ed in assenza di problemi legati alla conoscibilità dell'evento dannoso (v. infra), non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione.

Con la decisone della Corte costituzionale si è chiusa definitivamente una lunga vicenda che aveva visto dapprima contrapposte la giurisprudenza amministrativa e quella civile sulla c.d. pregiudiziale amministrativa e poi aveva visto sollevare dubbi (oggi rivelatisi infondati) sulla idoneità della soluzione accolta dal Codice a superare le criticità del precedente orientamento favorevole alla pregiudiziale.

Azione di risarcimento e termine di prescrizione

Con riguardo al termine di prescrizione, la prevalente tesi della natura extracontrattuale della responsabilità della P.A. implica la durata quinquennale del termine di prescrizione (a tale soluzione si perviene anche nelle ipotesi di responsabilità precontrattuale).

Dopo l'entrata in vigore del Codice, per i danni causati alle posizioni di interesse legittimo da un provvedimento amministrativo, il problema della prescrizione non si pone, dovendo essere rispettato il termine di decadenza di 120 giorni, decorrente – in caso di domanda di risarcimento autonoma — dal momento in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo o – in caso di domanda proposta dopo il tempestivo esercizio dell'azione di annullamento del provvedimento fonte del danno — dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce tale azione. Per i danni causati a posizioni di diritto soggettivo o che comunque non derivano da un provvedimento amministrativo illegittimo, il termine per proporre la domanda di risarcimento è quello quinquennale di prescrizione.

L'entrata in vigore della nuova disciplina introdotta dal Codice ha posto il problema interpretativo relativo all'applicabilità del termine decadenziale previsto dall'articolo 30, comma 3, agli illeciti consumati in epoca anteriore a detto jus superveniens.

La giurisprudenza ha ritenuto che l'introduzione di un termine di decadenza di centoventi giorni – decorrente, a seconda dei casi, dalla verificazione del fato lesivo o dalla conoscenza del provvedimento dannoso – costituisce un'innovazione legislativa rispetto al regime prescrizionale quinquennale, ex art. 2947 c.c., operante in epoca precedente e i principi generali stabiliti dalle preleggi, in materia di efficacia delle leggi nel tempo (art. 11) e di portata applicativa di norme eccezionali (art. 14), impediscono, in assenza di una prescrizione esplicita in tal senso, l'applicazione retroattiva di una reformatio in peius a fattispecie sostanziali anteriori, senza che assuma rilievo l'epoca della proposizione del ricorso; soluzione confermata dal disposto dell'art. 2 dell'Allegato 3 al Codice, secondo cui «per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti», applicabile anche (e a maggior ragione) all'ipotesi di successione tra un termine sostanziale, qual è quello di prescrizione, ed un termine processuale precedentemente non previsto, quale appunto il termine di decadenza sub art. 30 citato, essendo una diversa lettura della predetta disposizione (nel senso, restrittivo, della sua riferibilità solo a termini processuali «in corso») innegabilmente contra Constitutionem, per la compromissione, che ne deriverebbe, non solo della tutela ma della esistenza stessa della situazione soggettiva ( Cons. Stato, sez. III, n. 297/2014; Corte cost. n. 57/2015; Cons. Stato, Ad plen., n. 6/2015; Cons. giust. amm.Sicilia, 8 febbraio 2016, n. 38).

In conclusione, per tutti i fatti antecedenti al 16 settembre 2010 (data di entrata in vigore del Codice del processo amministrativo) non si applica il termine di decadenza previsto dall'art. 30, comma 3 del Codice stesso, ma continua ad applicarsi l'originario termine quinquennale di prescrizione decorrente dal momento in cui il danno si è verificato.

Per i fatti (e atti) successivi all'entrata in vigore del Codice si applicherà il nuovo termine di decadenza di 120 giorni, fermo restando che il ricorrente può decidere di impugnare il provvedimento fonte del danno e attendere l'esito del giudizio di annullamento per proporre la domanda risarcitoria, avvalendosi del disposto del comma 5 dell'art. 30, che prevede che «nel caso in cui sia stata proposta l'azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio «o, comunque, fino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza». Norma da intendersi riferita ai soli danni causati a posizioni di interesse legittimo da un provvedimento illegittimo e che amplia le possibili strategie processuali del danneggiato, consentendogli di attendere l'esito del giudizio di annullamento prima di proporre la domanda di risarcimento (in linea con la ratio della citata pregressa giurisprudenza, secondo cui l'azione di annullamento avverso il provvedimento fonte del danno interrompeva la prescrizione).

La proposizione della domanda di annullamento produce un effetto interruttivo astrattamente ascrivibile a siffatta domanda giudiziale ai sensi dell'art. 2943 c.c. anche se gli effetti interruttivi della prescrizione operano solo a favore del soggetto attivo ed in danno del soggetto passivo dell'atto interruttivo, non potendo riverberarsi sulla sfera giuridica di terzi estranei (Cass., sez. I, n. 25644/2017, che ha rilevato che nel giudizio amministrativo di annullamento deve essere parte l'amministrazione nei cui confronti successivamente si chiede il risarcimento del danno).

La domanda di risarcimento del danno da inosservanza dei termini di conclusione del procedimento

L'art. 30, comma 2 fa riferimento alla azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria.

Il termine «obbligatoria» va riferito alla possibilità di chiedere il risarcimento del danno da ritardo, ove sussista un obbligo di provvedere della p.a. e, sotto tale profilo, la questione si sposta sul piano sostanziale della verifica, in ordine alle singole fattispecie, della sussistenza dell'obbligo di provvedere.

In relazione ai termini per proporre la domanda di risarcimento, per la ipotesi di danno da ritardo, consistente nell'adozione di un primo provvedimento negativo, poi annullato dal giudice e nel successivo rilascio del provvedimento favorevole, il danno da ritardo non è altro che una ipotesi di danno da provvedimento illegittimo (il primo diniego) e si rientra quindi nella disciplina del comma 3 dell'art. 30 e la domanda va proposta nel termine di 120 giorni dalla conoscenza del provvedimento di diniego o, in caso di impugnazione di tale provvedimento, nel corso del giudizio di annullamento o entro 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, con cui viene annullato l'atto fonte del danno.

Il Codice del processo amministrativo ha previsto che il termine per proporre l'azione di risarcimento del danno derivante dall'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento è di un anno e 120 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per provvedere o di 120 giorni dalla cessazione dell'inadempimento (data del provvedimento adottato con ritardo ma prima della decorrenza dell'anno).

Si ricorda che il decorso dell'anno dal termine di conclusione del procedimento non consolida la situazione di inerzia dell'amministrazione e non preclude la tutela del privato, che, come previsto dall'art. 31, comma 2, può sempre riproporre l'istanza.

Del resto, è nota in sede civilistica la distinzione tra l'atto illecito istantaneo e l'atto illecito permanente — con le relative conseguenze in ordine alla decorrenza del termine prescrizionale per l'esercizio dell'azione risarcitoria.

Mentre nell'illecito istantaneo tale comportamento si esaurisce con il verificarsi del danno, pur se l'esistenza di questo si protragga poi autonomamente (c.d. fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti), nell'illecito permanente la condotta oltre a produrre l'evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell'uno e dell'altro (Cass., sez. III, n. 5831/2007).

Il danno derivante dalla mancata conclusione del procedimento non deriva da un fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti, ma costituisce un illecito permanente, che non cessa con la scadenza dell'anno dal termine per provvedere.

Il limite temporale sembra, invece, presupporre che dopo il decorso dell'anno, se non tempestivamente attivata l'azione di risarcimento (nei 120 giorni successivi), la riproponibilità dell'istanza comporta che ogni eventuale danno può essere solo riferito al periodo temporale successivo alla scadenza del termine per provvedere sulla nuova istanza.

La quantificazione del danno

Per i danni derivanti dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa la quantificazione del danno risarcibile non è sempre agevole, specie in presenza di lesione di interessi legittimi pretensivi o procedimentali, nei quali la verifica della spettanza del bene della vita postula un'intermediazione amministrativa favorevole e risultano, quindi, difficilmente apprezzabili le effettive implicazioni economiche della violazione accertata, mentre si rivela più agevole la quantificazione del danno nei casi di lesione di interessi oppositivi, nei quali si tratta di determinare il valore del bene illegittimamente sacrificato.

In caso di impossibilità di dimostrare la misura esatta del danno, soccorre il metodo di liquidazione equitativa dettato dagli artt. 2056 e 1226 c.c., certamente utilizzabile anche dal giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, n. 396/2001); tuttavia, il ricorso a criteri equitativi per la quantificazione del danno, previsto dall' art. 1226 c.c., richiamato dall' art. 2056 c.c., è possibile solo quando il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, quando cioè il pregiudizio non è conoscibile perché il fatto che ne avrebbe consentito la quantificazione non è avvenuto e non può avvenire, sicché occorre procedere in via presuntiva secondo la regola dell'id quod plerumque accidit, mentre a tale criterio non può farsi ricorso quando i fatti causativi del danno sono avvenuti e sarebbero suscettibili di dimostrazione non potendo il criterio essere utilizzato per supplire al mancato assolvimento dell'onere della prova posto a carico del danneggiato (Cons. Stato, sez. VI, n. 3989/2006).

In sede di determinazione del danno il giudice amministrativo deve tener conto anche dei criteri valutativi contemplati dall'art. 1227 c.c., a tenore del quale se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno il risarcimento va diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate (comma 1), mentre il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (comma 2).

Nel settore degli appalti, la giurisprudenza ha individuato i seguenti criteri per la quantificazione del danno subito da un concorrente, che si sarebbe aggiudicato l'appalto se l'amministrazione avesse operato correttamente: a titolo di danno emergente vengono risarcite le spese sostenute per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara e le eventuali occasioni di lavoro perse, se dimostrate; a titolo di mancato guadagno si tiene conto dell'utile economico che sarebbe derivato all'impresa dall'esecuzione dell'appalto. Per determinare l'utile economico, la giurisprudenza ha individuato come parametro di valutazione la misura presuntiva dell'utile d'impresa complessivamente realizzabile dal danneggiato, pari al 10% dell'importo a base d'asta, come ribassata dall'offerta presentata dall'appaltatore medesimo, ricorrendo all'applicazione analogica dell' art. 345 della l. 20 marzo 1865, allegato F, in base al quale l'amministrazione può risolvere in qualunque tempo il contratto, mediante il pagamento all'appaltatore « dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell'importo delle opere non eseguite » (Cons. Stato, sez. V, n. 3796/2002; Cons. Stato, sez. IV, n. 5012/2004).

Il criterio trova ulteriori riscontri nell' art. 122 del d.P.R. n. 554/1999 e nel poi abrogato art. 37-septies, comma 1, l. n. 109/1994, laddove prevede, in materia di project financing, che, nelle ipotesi in cui la concessione sia risolta per inadempimento del concedente o revocata per motivi di interesse pubblico, al concessionario spetti un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10% delle opere ancora da eseguire.

È stato tuttavia precisato che il danno derivante ad una impresa dal mancato affidamento di un appalto è quantificabile nel 10% del prezzo offerto, solo se e in quanto l'impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l'espletamento di altri servizi, mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta, è da ritenere che l'impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile, liquidato nel caso di specie nella misura del 5% (Cons. Stato, sez. V, n. 5860/2002; Cons. Stato, sez. VI, n. 1114/2007). In altre fattispecie, il danno è stato ridotto di un terzo in considerazione dell'avvenuto annullamento in autotutela del provvedimento, fonte del danno; comportamento della p.a. da valutare positivamente e che rende meno grave il precedente illecito (Cons. Stato, sez. IV, n. 4401/2007).

Nel caso di mancata aggiudicazione il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto): non essendo, invero, dubitabile che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l'impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante) possa essere, comunque, fonte per l'impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti.

In via di principio, che il riconoscimento del lucro cessante deve ritenersi subordinato:

a) all'assolvimento, in positivo, di un preciso onere probatorio, inteso a dimostrarne, anche per via indiziaria, la consistenza, avuto riguardo alle caratteristiche dell'appalto, al mercato di riferimento, alle condizioni operative dell'impresa, alle dimensioni organizzative, alle risorse reali e finanziarie disponibili, alle multiformi peculiarità della fattispecie;

b) alla dimostrazione, in negativo, anche qui per via indiziaria (e, per esempio, mediante la non disagevole allegazione dei libri contabili) della mancata interinale utilizzazione delle proprie risorse reali e personali e della obiettiva ed involontaria immobilizzazione delle stesse, nonché della diligente condotta imprenditoriale, preordinata a non trascurare occasioni di utile impiego, nell'esclusivo e non commendevole intento di aggravare il danno da mancata aggiudicazione (Cons. Stato, sez. V, n. 5803/2019).

Quando il ricorrente allega solo la perdita di una chance a sostegno della pretesa risarcitoria (e cioè quando non riesce a provare che l'aggiudicazione dell'appalto spettava a lui in assenza della illegittimità commessa dall'amministrazione), la somma commisurata all'utile d'impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura (Cons. Stato, sez. VI, n. 2485/2002), facendo anche ricorso al criterio di quantificazione della chance in misura corrispondente al numero di partecipanti alla gara, ipotizzando uguali possibilità per ciascuno (Cons. Stato, sez. VI, n. 1514/2007; Cons. Stato, sez. V, n. 5837/2011; Cons. Stato, sez. V, n. 3450/2016).

In sostanza, quando ad un operatore è preclusa in radice la partecipazione ad una gara (di tal che non sia possibile dimostrare, ex post, né la certezza della sua vittoria, né la certezza della non vittoria), la sola situazione soggettiva tutelabile è la chance, e cioè l'astratta possibilità di un esito favorevole. In tali situazioni, si è ritenuto di utilizzare il criterio per cui il quantum del risarcimento per equivalente vada determinato ipotizzando, in via di medie e di presunzioni, quale sarebbe stato il numero di partecipanti alla gara se gara vi fosse stata (sulla base dei dati relativi a gare simili indette dal medesimo ente) e dividendo l'utile d'impresa (quantificato in via forfettaria) per il numero di partecipanti: il quoziente ottenuto costituendo, in tale prospettiva, la misura del danno risarcibile (Cons. Stato, sez. V, n. 5307/2019, che ha però utilizzato il diverso criterio dell'utile percepito dalla ricorrente quale gestore uscente del servizio).

Va tuttavia considerato che l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall'altro non ricomprende anche l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l'onere della parte di dimostrare la sussistenza e l'entità materiale del danno, nè esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l'apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell'iter della determinazione dell'equivalente pecuniario del danno” (Cons. Stato, sez. III, n. 2181/2019, che richiama Cass., sez. II, n. 4310/2018).

Secondo una giurisprudenza allo stato minoritaria il risarcimento della chance sarebbe ammissibile solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita, che dovrebbe essere almeno pari al 50 per cento, poiché, diversamente, diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo, statisticamente non significative (Cons. Stato, sez. V, n. 3249/2015; Cons. Stato, sez. III, n. 559/2016; Cons. Stato, sez. IV, n. 3757/2017).

Al riguardo era stata rimessa alla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la questione se spettasse, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe potuto concorrere quale operatore del settore economico (Cons. Stato, sez. V, n. 118/2018 in relazione ad una fattispecie in cui la consistenza della chance ammontava al 20 % essendoci cinque operatori qualificati nel mercato interessato); la Plenaria ha tuttavia restituito gli atti alla sezione remittente potendo la definizione della questione interferire con profili già esaminati dalla sezione con la sentenza non definitiva (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 7/2018).

La giurisprudenza successiva ha tuttavia ribadito che il richiamo alla ‘elevata probabilità' (ad es., almeno pari al 50 %) di realizzazione, quale condizione affinché la chance acquisti rilevanza giuridica, è fuorviante, in quanto così facendo si assimila il trattamento giuridico della chance alla causalità civile ordinaria (ovvero alla causalità del risultato sperato), mentre la risarcibilità della perdita di chance è stata elaborata al fine di ‘traslare' sul versante delle situazioni soggettive e, quindi, del danno ingiusto, un problema di causalità incerta non per accertare l'esistenza della chance come bene a sé stante, bensì per misurare in modo equitativo il ‘valore' economico della stessa, in sede di liquidazione del quantum risarcibile (Cons. Stato, sez. VI, n. 6268/2021, che ha anche sottolineato che la tecnica risarcitoria della chance presuppone una situazione di fatto immodificabile, che abbia definitivamente precluso all'interessato la possibilità di conseguire il risultato favorevole cui aspirava).

Nell'ipotesi di responsabilità precontrattuale il danno risarcibile consiste, secondo la costante giurisprudenza, nella diminuzione patrimoniale che è diretta conseguenza del comportamento del soggetto che ha violato l'obbligo della correttezza, definito comunemente « interesse contrattuale negativo ». In tal caso, possono essere riconosciute, a titolo risarcitorio, le spese sopportate per la partecipazione alla gara e la eventuale perdita delle occasioni di lavoro alternative, per la quale è necessaria la dimostrazione dell'entità dell'asserito pregiudizio derivante dalla perdita di altre occasioni (Cons. Stato, sez. IV, n. 1457/2003, Cons. Stato, sez. III, n. 2181/2019).

È stato osservato che la natura precontrattuale della responsabilità viene a volte richiamata unicamente per giustificare l'applicazione del limite dell'interesse negativo in sede di quantificazione del danno, quando la lesione dell'affidamento non si traduce nella perdita di una concreta chance di conseguire il bene della vita; mentre tale limitazione deriva dal rigoroso accertamento dell'esistenza del danno e del suo rapporto di causalità con il comportamento della p.a., anche senza ricorrere all'inquadramento nella responsabilità precontrattuale (Chieppa, Viaggio, 2003, 709).

L'indicazione da parte del g.a. dei soli criteri di quantificazione del danno

L'attribuzione al giudice amministrativo della cognizione delle domande risarcitorie nel periodo 1998 / 2000 è stata accompagnata dall'introduzione di alcune novità, tra le quali il meccanismo previsto dall' art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 80/1998.

In base a tale disposizione, il giudice amministrativo ha a disposizione, nel caso in cui non addivenga all'esatta determinazione del danno, una peculiare tecnica processuale: può « stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine » ( art. 35, comma, 2, d.lgs. n. 80/1998). In caso di mancato accordo, il danneggiato può ricorrere al giudice affinché determini, nelle forme del giudizio di ottemperanza, la somma dovuta a titolo di risarcimento.

Si tratta di uno strumento che non è utilizzabile per determinare l'an del risarcimento, ma a cui può farsi ricorso solo nella fase successiva della liquidazione del danno, in quanto l'accertamento dell'inadempimento dell'amministrazione e dell'esistenza di un danno è un compito del giudice (Cons. Stato, sez. V, n. 353/2001). L' art. 35 d.lgs. n. 80/1998 non comporta la traslazione in sede di ottemperanza di tutto il giudizio risarcitorio, ma solo della parte che concerne la determinazione del quantum, restando l'accertamento dell'an debeatur e la definizione dei criteri del risarcimento attratti nella giurisdizione di cognizione (Cons. Stato, sez. IV, n. 396/2001).

Come si evince dalla lettera della legge, quella di determinare i criteri in base ai quali l'amministrazione deve proporre al danneggiato il pagamento di una somma ai sensi dell' art. 35, comma 2 del d.lgs. n. 80/1998, è una facoltà, e non un obbligo per il giudice amministrativo. In ordine alla natura dell'accordo concluso tra le parti, sembra che allo stesso non possa attribuirsi valore di titolo esecutivo, con la conseguenza che, in caso di inadempimento da parte dell'amministrazione, al privato resta preclusa la possibilità di ottenere la soddisfazione del suo credito con gli strumenti propri del procedimento di esecuzione forzata.

Il richiamo al giudizio di ottemperanza si riferisce solo alle forme del procedimento e non anche al suo contenuto ed ai suoi presupposti, considerato che lo strumento in questione più che servire a garantire l'attuazione di una pronuncia ineseguita, risulta piuttosto preordinato alla diversa finalità di assicurare l'integrazione della stessa, nella parte, relativa alla quantificazione della soma dovuta, rimasta incompleta.

La giurisprudenza ha chiarito che questo istituto non deve essere confuso con la condanna generica ai sensi dell' art. 278 c.p.c., che anzi è stata ritenuta inammissibile nel processo amministrativo (Cons. Stato, Ad. plen., n. 5/2009).

Il Codice ha non solo confermato tale istituto, ma lo ha esteso ad ogni tipo di condanna pecuniaria, prevedendo che la fissazione dei criteri possa avvenire da parte del giudice «in mancanza di opposizione delle parti» (art. 34, comma 4).

In precedenza, la tesi che riconosceva il carattere libero ed ufficioso al potere del giudice di valersi di tale modulo operativo (nel senso che lo stesso può essere usato anche in mancanza di una specifica istanza o quando la parte ha domandato la quantificazione esatta dell'importo dovuto e può non essere usato, con liquidazione diretta del danno, nel caso in cui sia stata, invece, richiesta la fissazione dei criteri ai sensi dell' art. 35, comma 2 d.lgs. n.80/1998), è stata criticata in quanto insanabilmente confliggente con le esigenze di conformità tra chiesto e pronunciato postulate dal principio della domanda consacrato nell' art. 112 c.p.c. Non si ravvisano, viceversa, ostacoli alla pronuncia di una condanna c.d. mista, che contempli, cioè, la liquidazione del danno per la parte agevolmente accertabile (ad es. quella relativa al danno emergente) e che riservi all'accordo delle parti la determinazione delle voci più difficilmente quantificabili (presuntivamente relative al lucro cessante).

La soluzione accolta dal Codice è stata quella di consentire alle parti di opporsi espressamente alla fissazione dei soli criteri di quantificazione di una condanna pecuniaria e, in questo caso, al giudice è precluso l'utilizzo di questo strumento e deve necessariamente esaminare nel giudizio di cognizione ogni profilo della condanna pecuniaria.

La competenza territoriale

L'attribuzione al giudice amministrativo della cognizione delle domande risarcitorie nel periodo 1998 / 2000 è stata accompagnata dall'introduzione di alcune novità, tra le quali il meccanismo previsto dall' art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 80/1998.

In base a tale disposizione, il giudice amministrativo ha a disposizione, nel caso in cui non addivenga all'esatta determinazione del danno, una peculiare tecnica processuale: può « stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine » ( art. 35, comma, 2, d.lgs. n. 80/1998). In caso di mancato accordo, il danneggiato può ricorrere al giudice affinché determini, nelle forme del giudizio di ottemperanza, la somma dovuta a titolo di risarcimento.

Si tratta di uno strumento che non è utilizzabile per determinare l'an del risarcimento, ma a cui può farsi ricorso solo nella fase successiva della liquidazione del danno, in quanto l'accertamento dell'inadempimento dell'amministrazione e dell'esistenza di un danno è un compito del giudice (Cons. Stato, sez. V, n. 353/2001). L' art. 35 d.lgs. n. 80/1998non comporta la traslazione in sede di ottemperanza di tutto il giudizio risarcitorio, ma solo della parte che concerne la determinazione del quantum, restando l'accertamento dell'an debeatur e la definizione dei criteri del risarcimento attratti nella giurisdizione di cognizione (Cons. Stato, sez. IV, n. 396/2001).

Come si evince dalla lettera della legge, quella di determinare i criteri in base ai quali l'amministrazione deve proporre al danneggiato il pagamento di una somma ai sensi dell' art. 35, comma 2 del d.lgs. n. 80/1998, è una facoltà, e non un obbligo per il giudice amministrativo. In ordine alla natura dell'accordo concluso tra le parti, sembra che allo stesso non possa attribuirsi valore di titolo esecutivo, con la conseguenza che, in caso di inadempimento da parte dell'amministrazione, al privato resta preclusa la possibilità di ottenere la soddisfazione del suo credito con gli strumenti propri del procedimento di esecuzione forzata.

Il richiamo al giudizio di ottemperanza si riferisce solo alle forme del procedimento e non anche al suo contenuto ed ai suoi presupposti, considerato che lo strumento in questione più che servire a garantire l'attuazione di una pronuncia ineseguita, risulta piuttosto preordinato alla diversa finalità di assicurare l'integrazione della stessa, nella parte, relativa alla quantificazione della soma dovuta, rimasta incompleta.

La giurisprudenza ha chiarito che questo istituto non deve essere confuso con la condanna generica ai sensi dell' art. 278 c.p.c., che anzi è stata ritenuta inammissibile nel processo amministrativo (Cons. Stato, Ad. plen., n. 5/2009).

Il Codice ha non solo confermato tale istituto, ma lo ha esteso ad ogni tipo di condanna pecuniaria, prevedendo che la fissazione dei criteri possa avvenire da parte del giudice «in mancanza di opposizione delle parti» (art. 34, comma 4).

In precedenza, la tesi che riconosceva il carattere libero ed ufficioso al potere del giudice di valersi di tale modulo operativo (nel senso che lo stesso può essere usato anche in mancanza di una specifica istanza o quando la parte ha domandato la quantificazione esatta dell'importo dovuto e può non essere usato, con liquidazione diretta del danno, nel caso in cui sia stata, invece, richiesta la fissazione dei criteri ai sensi dell' art. 35, comma 2 d.lgs. n.80/1998), è stata criticata in quanto insanabilmente confliggente con le esigenze di conformità tra chiesto e pronunciato postulate dal principio della domanda consacrato nell' art. 112 c.p.c. Non si ravvisano, viceversa, ostacoli alla pronuncia di una condanna c.d. mista, che contempli, cioè, la liquidazione del danno per la parte agevolmente accertabile (ad es. quella relativa al danno emergente) e che riservi all'accordo delle parti la determinazione delle voci più difficilmente quantificabili (presuntivamente relative al lucro cessante).

La soluzione accolta dal Codice è stata quella di consentire alle parti di opporsi espressamente alla fissazione dei soli criteri di quantificazione di una condanna pecuniaria e, in questo caso, al giudice è precluso l'utilizzo di questo strumento e deve necessariamente esaminare nel giudizio di cognizione ogni profilo della condanna pecuniaria.

La competenza territoriale

Le regole di competenza territoriale comportano a volte problemi per le domande di risarcimento.

Il problema si pone ogni qualvolta la domanda risarcitoria sia proposta in modo non contestuale rispetto al ricorso di annullamento; in quanto la domanda risarcitoria contestuale a quella di annullamento è di competenza del tribunale davanti a cui è proposto il ricorso impugnatorio principale, in base al principio dell'accessorietà, che pure è positivamente affermato anche nell'ambito del processo civile.

Secondo una tesi la domanda risarcitoria successiva, ma strutturalmente consequenziale, deve essere proposta ugualmente davanti al giudice che ha cognizione sul ricorso principale, mentre solo la domanda risarcitoria «pura», proposta contro l'amministrazione, riguardante i comportamenti e l'inerzia, ma senza preventiva impugnazione del provvedimento, soggiace alle regole processuali del c.p.c.

È stato affermato che in mancanza di apposite norme idonee a definire i criteri sostanziali di riparto di competenza territoriale nel processo amministrativo avente ad oggetto esclusivamente diritti soggettivi patrimoniali, non potendosi utilizzare le regole sancite dagli artt. 2 e 3 l. n. 1034/1971, in quanto dettate per giudizi in tutto o in parte impugnatori, troveranno applicazione i criteri sostanziali di competenza territoriale previsti dal codice di procedura civile (Cons. Stato, sez. IV, n. 400/2001). È stato stabilito che la competenza a conoscere di una domanda risarcitoria consequenziale rispetto all'annullamento del provvedimento spetta allo stesso giudice che ha già pronunciato la sentenza di annullamento, in quanto il ricorso con cui viene chiesto il risarcimento del danno costituisce vera e propria prosecuzione di quello a suo tempo definito con sentenza passata in giudicato, avente ad oggetto l'illegittimità dell'atto impugnato; il principio vale sia che si tratti di ipotesi nelle quali la pretesa risarcitoria consequenziale concerna diritti soggettivi lesi da atti degradatori, sia che si tratti di interessi pretensivi. Né vale a modificare la disciplina avanti riferita — fondata sulla regola della concentrazione innanzi al giudice dell'impugnazione anche della pretesa riparatoria — il fatto che la controversia rivolta ad ottenere il risarcimento del danno sia stata avanzata con autonomo e successivo ricorso proposto dopo che il giudizio di impugnazione si era concluso e la relativa sentenza era passata in giudicato ( Cons. Stato, Ad. plen., n. 10/2004).

In base al Codice per i danni da provvedimenti il criterio della sede legale dell'autorità che ha causato il danno opererà unitamente a quello dell'efficacia dell'atto fonte del danno e, allo stesso modo, per i comportamenti, connessi con l'esercizio del potere e fonte di danno, gli effetti dannosi della condotta costituiranno il criterio di competenza territoriale.

Forma, contenuto e modalità di proposizione della domanda risarcitoria

Il veicolo necessario della domanda è costituito dal ricorso, notificato e depositato nei modi ordinari.

La domanda risarcitoria può essere proposta anche nel corso del giudizio per l'annullamento dell'atto che ha causato il danno, purché con atto notificato alla controparte, in quanto dalla riforma del processo amministrativo emerge in termini generali la ratio di concentrazione dei giudizi; detta ratio è confermata dalla disposizione prevista dall' art. 21, comma 1, della l. Tar, in materia di motivi aggiunti, che deve essere letta in maniera estensiva e quindi riferibile anche alla domanda di risarcimento del danno ( Cons. Stato, Ad. plen., n. 10/2007). Resta fermo però il principio secondo cui ogni domanda a contenuto cognitorio, quale quella risarcitoria, è ammissibile solo se formulata con un atto ritualmente notificato alla controparte (e non con semplice memoria depositata) nel rispetto dei principi di difesa e del contraddittorio. È inammissibile la domanda formulata con il ricorso in appello, tenuto conto che il rispetto del principio del doppio grado di giudizio costituisce limite invalicabile che impedisce di formulare per la prima volta in appello la domanda (Cons. Stato, sez. VI, n. 6575/2002; Cons. Stato, sez. VI, n. 2556/2006).

Se la domanda di risarcimento viene proposta unitamente a quella di annullamento, può accadere che il giudice di primo grado possa respingere la domanda di annullamento senza esaminare quella di risarcimento; in questo caso, la domanda può essere riproposta con l'atto di appello ai sensi dell'art. 101, comma 2, ma è stato ritenuto che, ove non riproposta e riformata la sentenza che respinge l'azione di annullamento, la domanda di risarcimento possa essere riproposta in un nuovo giudizio nel termine previsto dall'art. 30, comma 5 (120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza; Cons. Stato, sez. III, n. 5014/2018).

Si è esclusa la necessità che la domanda risarcitoria venga articolata come autonomo motivo di ricorso indicante le ragioni della pretesa: essa, trovando il suo fondamento nelle stesse censure che sorreggono la separata, ma contestuale domanda di annullamento e che si configurano quindi come causa petendi, potrebbe essere contenuta anche nelle sole « conclusioni » (Cons. Stato, sez. VI, n. 973/2004). Ciò non esclude, ovviamente, che la domanda di ristoro sia formulata in modo che emergano gli elementi costitutivi della ritenuta fattispecie di responsabilità dell'amministrazione, oltre che supportata con argomenti probatori di carattere specifico. È inammissibile la domanda di risarcimento del danno avanzata con mera clausola di stile (Cons. Stato, sez. V, n. 6387/2001). La domanda di risarcimento deve essere fondata su una puntuale prospettazione del danno, in relazione alle concrete modalità della fattispecie e alla illegittimità procedimentale che ha determinato l'annullamento giurisdizionale della aggiudicazione (Cons. Stato, sez. VI, n. 244/2000).

La domanda di risarcimento è a volte complementare rispetto all'azione di annullamento e altre volte alternativa rispetto agli effetti ottenibili con l'annullamento; spetta al ricorrente decidere la propria strategia processuale nel rapporto tra domanda di annullamento e di risarcimento e il g.a. non può sostituirsi in questo al ricorrente, come confermato dalla giurisprudenza, secondo cui il g.a. non può «ex officio» limitarsi a condannare l'Amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda del ricorrente, a nulla potendo rilevare che l'annullamento possa recare gravi pregiudizi ai contro interessati o che sia decorso un lungo periodo di tempo dall'adozione degli atti ( Cons. Stato, Ad. Plen., n. 4/2015).

La giurisprudenza ha chiarito che nel giudizio risarcitorio, in caso di incompletezza del contraddittorio, non valgono le regole generali del giudizio impugnatorio, ma operano, in via analogica, le norme previste per il processo civile e trova quindi applicazione l' art. 102 c.p.c. in materia di integrazione del contraddittorio in ipotesi di litisconsorzio necessario (Cons. Stato, sez. IV, n. 2850/2001).

Per quanto concerne l'individuazione delle parti necessarie del giudizio risarcitorio, si era affermato che il controinteressato è estraneo al giudizio, in quanto la pretesa risarcitoria si rivolge nei confronti dell'amministrazione autrice del provvedimento. Anche nelle ipotesi in cui sia ipotizzabile una partecipazione alla commissione dell'illecito (per esempio per aver rappresentato circostanze non veritiere, poi recepite nel provvedimento illegittimo), il privato non assume la veste del litisconsorte necessario, atteso il principio della responsabilità solidale extracontrattuale. Tuttavia, l'art. 41, comma 2, c.p.a. ha previsto che «Qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari dell'atto illegittimo, ai sensi dell' articolo 102 del codice di procedura civile; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell'articolo 49.»

Per l'azione di condanna (in particolare, al risarcimento del danno) viene introdotto un caso di litisconsorzio necessario con la parte privata beneficiaria dell'atto illegittimo.

L'istruttoria nel giudizio risarcitorio

L'istruzione probatoria nel processo amministrativo di legittimità è governata, com'è noto, dal c.d. principio dispositivo attenuato dal metodo acquisitivo. In base a tale principio sul ricorrente non grava «l'onere della prova», come accade nel processo civile, ma «l'onere del principio di prova», nel senso che egli è tenuto semplicemente a prospettare al giudice adito una ricostruzione attendibile sotto il profilo di fatto e giuridico delle circostanze addotte, potendo il giudice acquisire d'ufficio gli elementi probatori indicati dalle parti ovvero ritenuti comunque necessari.

Il c.d. principio dispositivo attenuato con metodo acquisitivo si giustifica in ragione della disponibilità degli elementi probatori in capo alla pubblica amministrazione nel processo amministrativo di legittimità. Laddove tali elementi rientrino nella disponibilità del ricorrente, come accade nel giudizio risarcitorio, ove soprattutto (se non esclusivamente) l'istante è a conoscenza di quali danni ha subito ed è in possesso degli elementi idonei a provarli, il giudizio non può che essere governato dal principio dell'onere della prova e occorre che il ricorrente supporti la propria domanda dimostrando la sussistenza del danno medesimo.

Il ricorrente deve necessariamente allegare e dimostrare in giudizio tutti gli elementi costitutivi della sua pretesa risarcitoria e il metodo acquisitivo può essere utilizzato laddove siano stati allegati tali fatti, ma il privato, per la sua posizione di disparità sostanziale con l'amministrazione, non sia in grado di provarli (Cons. Stato, sez. VI, n. 973/2004). Nell'azione di responsabilità per danni da ritardo il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697 comma 1, c.c., opera con pienezza, e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (Cons. Stato, sez. VI, n. 12/2018).

In base alla regola generale racchiusa nell' art. 2697 c.c., il danneggiato ha l'onere di provare tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento (danno, nesso di causalità, colpa) per illecito della p.a. (Cons. Stato, sez. V, n. 4239/2001). È generica la domanda di risarcimento del danno, ai sensi dell' art. 35 d.lgs. n. 80/1998, ove il ricorrente non fornisca una puntuale prova del danno patrimoniale subito e del suo nesso eziologico con l'atto di aggiudicazione annullato in sede giurisdizionale, non potendo, peraltro, scaturire dall'illegittimità dell'azione amministrativa una colpa in re ipsa per l'amministrazione (Cons. Stato, sez. IV, n. 5412/2000).

Senza aderire all'assunto secondo cui l'onere della prova è circoscritto alla sussistenza del pregiudizio subito, non estendendosi alla sua entità, può ritenersi assolto l'onere probatorio allorché il ricorrente indichi, a fronte di un danno certo nella sua verificazione, taluni criteri di quantificazione dello stesso, salvo il potere del giudice di vagliarne la condivisibilità attraverso l'apporto tecnico del consulente. Tuttavia, la consulenza tecnica, pur disposta d'ufficio, non è certo destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell'onere della prova posti dall' art. 2697 c.c., ma ha la funzione di fornire all'attività valutativa del giudice l'apporto di cognizioni tecniche non possedute (Cons. Stato, sez. VI, n. 1261/2004). È ammissibile l'utilizzo di una consulenza tecnica per verificare la correttezza di alcune valutazioni fatte in sede di giudizio di anomalia delle offerte nelle pubbliche gare (Cons. Stato, sez. VI, n. 6607/2006, in cui anche in base alla Ctu è stata accertata l'illegittimità del giudizio di anomalia ed è stato risarcito il danno).

Spetta al soggetto leso provare che la rimozione del provvedimento non soddisfa, di per sé, l'interesse azionato e che residua un danno ulteriore nella sua sfera patrimoniale, non interamente reintegrato per effetto della caducazione dell'atto (Cons. Stato, sez. IV, n. 5012/2004, in cui viene anche confermato che non può valere ad esonerare dalla prova del danno la parte sulla quale incombe il relativo onere, il ricorso, anche su istanza del ricorrente, alla consulenza tecnica d'ufficio).

In materia di appalti, spetta all'impresa danneggiata offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto e la la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull'ammontare del danno (Cons. Stato, sez. V, n. 5803/2019, che ha anche però affermato che la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre, peraltro, che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici).

Sommario