Sì all'annullamento dell'accordo patrimoniale nella separazione consensuale se estorto con la minaccia
22 Settembre 2022
In una vicenda relativa ad una separazione tra coniugi, emergeva dall'accordo l'obbligo per l'ex moglie di versare una quota all'ex marito relativa ad un'azienda, nonché un contributo di mantenimento in suo favore. Con il ricorso per Cassazione, la donna lamentava, con il motivo principale, la sussistenza dei requisiti per l'annullamento dell'accordo di omologa separazione consensuale, per vizio del consenso. La ricorrente precisava che il Tribunale di secondo grado avesse erroneamente rigettato il suo appello, in quanto erano presenti dei presupposti di violenza morale, che rendevano invalido il consenso. Specificava infatti, che nei giudizi precedenti si fosse compita solo un'astratta valutazione della configurabilità della minaccia, senza procedere alla verifica reale dei fatti. Il motivo è fondato e accolto dal Collegio. Ricorda la Corte di Cassazione che «in tema di violenza morale, quale vizio invalidante del consenso, i requisiti previsti dall'art. 1435 c.c. possono variamente atteggiarsi, a seconda che la coazione si eserciti in modo esplicito, manifesto e diretto, o viceversa, mediante un comportamento intimidatorio, oggettivamente ingiusto, anche ad opera di un terzo; è in ogni caso necessario che la minaccia sia stata specificamente diretta ad estorcere la dichiarazione negoziale della quale si deduce l'annullabilità e risulti di natura tale da incidere, con efficacia causale concreta, sulla libertà di autodeterminazione dell'autore di essa» (Cass. n. 19974/2017 e n. 15161/2015). Ancora «in materia di annullamento del contratto per vizi di volontà, si verifica l'ipotesi della violenza, invalidante il negozio giuridico, qualora uno dei contraenti subisca una minaccia specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione del contratto, proveniente dalla controparte o da un terzo e di natura tale da incidere, con efficienza causale, sulla specifica capacità di determinane del soggetto passivo, che in assenza della minaccia non avrebbe concluso il negozio (…)» (Cass. 265/2007, n. 20305/2015 e n. 12058/2022). È pertanto evidente che la Corte di Cassazione non abbia seguito questi principi, ritenendo in modo errato che nel caso in esame non ci fosse una reale condotta minatoria. Alla luce di questi motivi, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso relativamente al primo motivo.
Fonte: dirittoegiustizia.it |