Presunzione di distribuzione utili extracontabili nelle società a ristretta base partecipativa: mala tempora currunt, sed peiora parantur

Mario Giannotta
06 Ottobre 2022

Due recenti pronunce della Cassazione (n. 10679/2022 e n. 25322/2022) offrono l'occasione per occuparsi ancora della presunzione di distribuzione ai soci del maggior utile extracontabile accertato in capo a società a ristretta base azionaria.
Introduzione

Si dice che i contrasti aiutino a progredire, facendo emergere la verità e che, per tale motivo, questa sia inesorabilmente figlia del tempo. Eppure, a seguire l'incedere delle pronunce di legittimità sulla questione della presunzione di distribuzione ai soci del maggior utile accertato in capo alle società di capitali a base familiare o a ristretta base azionaria e, soprattutto, dopo aver letto le recenti pronunce della Corte di Cassazione (Cass., Sez. V, n. 10679/2022 e Cass., Sez. VI, 25322/2022), il cupo pessimismo comincia a prevalere e si fa spazio il timore che siano i contribuenti e i loro difensori a non aver capito nulla sull'argomento.

La presunzione della distribuzione utili extracontabili

Com'è noto, quella della distribuzione occulta ai soci degli utili extracontabili accertati in capo alla società a ristretta base azionaria è una presunzione semplice di esclusiva creazione giurisprudenziale, non prevista da una specifica norma di legge. Tuttavia, accade che l'Agenzia delle Entrate la applichi, con sempre maggiore frequenza e automatismo, non soltanto nelle ipotesi in cui si possa ritenere sussistente una provvista finanziaria ‘occulta' (per via dell'intervenuto accertamento di ricavi incassati ‘in nero' o di costi non effettivamente sostenuti), ma anche in caso in cui il maggior imponibile in capo alla società derivi dal disconoscimento ai soli fini e per ragioni fiscali di costi effettivamente sostenuti ma reputati non inerenti.

Questa prassi era, fin qui, agganciata ad un orientamento giurisprudenziale minoritario della Cassazione che, in specifiche ipotesi, ha considerato legittima detta presunzione. Tuttavia, si trattava di pronunce nelle quali – a leggere attentamente – il principio appare fortemente influenzato dallo specifico caso deciso, il quale sottendeva, in realtà, una contestazione di ricavi non dichiarati o di inesistenza del costo sotto un profilo della sua falsità; non già della sua non inerenza.

Il nuovo orientamento della Cassazione

Con le sentenze in commento, viceversa, la Cassazione rompe gli argini e dichiara a “chiare” lettere legittima tale presunzione anche in ipotesi di costi non inerenti: “…i costi indeducibili, quale che sia la ragione di tale indeducibilità, non possono essere considerati nel passivo del conto economico del bilancio, che, per il principio di derivazione di cui all'art. 83 d.P.R. n. 917/1986, è alla base del bilancio fiscale. Cosicché, eliminate le poste indeducibili dal passivo del conto economico, ne scaturisce, a parità di ricavi già contabilizzati, un aumento del reddito di impresa e maggiori imposte a carico della società e, quindi, dei soci.” (così, letteralmente, Cass. n. 10679/2022).

L'affermazione non può non lasciare esterrefatti, dal momento che, nell'ipotesi di costi non inerenti, difetta un utile extracontabile ‘distribuibile'. Dunque, ci si trova chiaramente al di fuori di quelle ipotesi in cui si può presumere, ragionevolmente, creata una provvista finanziaria occulta, vale a dire quella disponibilità che si genera in presenza di ricavi realizzati ma non dichiarati (“in nero”) o di costi inesistenti (non effettivamente pagati), successivamente distribuita ai soci.

Viceversa, applicare la presunzione di distribuzione ai soci al di fuori di fattispecie nelle quali una provvista finanziaria occulta si possa ritenere effettivamente sussistente significa commettere una ingiustificabile assimilazione tra maggior reddito fiscale e maggior utile civilistico (AIDC, Sez. Milano, Commissione Norme di Comportamento e di Comune Interpretazione in Materia Tributaria, Norma di Comportamento n. 198, Attribuzione ai soci del maggior reddito accertato in capo a società di capitali con ristretta compagine sociale). Ci sembra – il dubbio ormai è d'obbligo – di ricordare che l'utile societario dell'esercizio, ex art. 2425 c.c., e il reddito complessivo societario dell'anno d'imposta, siano due concetti ontologicamente diversi, derivando il secondo dal primo (non viceversa!) dopo le variazioni in aumento e in diminuzione apportate ex d.P.R. n. 917/1986, artt. 81 e ss. Laddove l'accertamento in capo alla società di un maggior reddito derivi dal mancato soddisfacimento – secondo l'Agenzia – delle condizioni di cui all'art. 109 TUIR per la deducibilità fiscale dei costi – si pensi, appunto, a costi non inerenti, non di competenza, non certi nell'ammontare – il maggior reddito accertato nell'anno d'imposta non muta l'utile dell'esercizio. E poiché può essere distribuito, cioè distribuito ai soci, solo il maggior utile prodotto "in nero" ma, certo, non il maggior reddito (fiscale), la presunzione di distribuzione "in nero" si regge solo nel caso in cui dall'accertamento emerga un maggior utile "in nero" e, non, solo, un maggior reddito (fiscale); maggior utile formatosi, extracontabilmente, in modo tale che sia possibile ritenere generata una provvista da trasferire "in nero" direttamente ai soci (C.T.P. Reggio Emilia, sent. 07.05.2021, n. 133; C.T.R. Veneto, Sez. V, sent. 13.11.2019, n. 1099; C.T.P. Belluno, Sez. II, sent. 21.12.2020, n. 41).

Né si potrà trascurare il fatto che, laddove detta presunzione, automatica, venga ammessa anche in caso di maggior utile fiscale, senza alcuna prova di disponibilità occulte distribuibili, a essere violato è addirittura il presupposto – questo, sì, previsto dalla legge e non di creazione pretoria – che legittima la tassazione in capo ai soci: l'effettiva percezione dell'utile societario da parte del socio. La correttezza di questa affermazione è confermata dalla stessa giurisprudenza della Cassazione che, nel legittimare l'applicabilità della presunzione di distribuzione occulta del maggior utile accertato, fa salva la “facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti” (ex multis: Cass., sent. 11.09.2013, n. 20806). E', così, però evidente che, laddove la suddetta presunzione semplice di distribuzione venga applicata anche nei casi – sopra esemplificati – in cui non può presumersi ragionevolmente formata alcuna disponibilità finanziaria occulta – e quindi alcunché che possa essere materialmente distribuito ai soci – il socio è persino impossibilitato a fornire quell'unica prova contraria ammessa dalla stessa Cassazione (i.e. non aver percepito il maggior reddito), trasformando la presunzione da semplice in assoluta, con buona pace dell'art. 53 Cost., dal momento che il socio sarebbe, di fatto, costretto a fornire la prova – impossibile – di un fatto negativo: la non percezione. Vero è che la Cassazione prevede, talvolta e in alternativa, la facoltà di provare che il maggior utile sia stato accantonato o reinvestito. Tuttavia, sia l'accantonamento degli utili per la costituzione della riserva legale o statutaria sia il reinvestimento degli utili nella medesima società fanno riferimento agli utili di esercizio regolarmente risultanti dal bilancio, non certo agli utili occulti, frutto di evasione fiscale. Cfr. G. Locatelli, La presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili delle società di capitali a ristretta base partecipativa, in Corr. Trib., n. 38, 2018, 2914.

Ulteriore preoccupante prassi che, talora, si è riscontrata è l'applicazione della presunzione di distribuzione nell'ipotesi in cui la società che avrebbe realizzato il maggior utile occultamente distribuito è partecipata, per la quasi totalità, da un'altra società (ad es.: holding) a ristretta base partecipativa o familiare. Qui, la presunzione considera – di fatto – trasparenti ex art. 5 TUIR, cioè alla stregua di società di persone, non una ma addirittura due società di capitali, distinte e, magari, diversamente amministrate: la controllante e la controllata. Ove si validasse anche questa prassi accertativa, la presunzione potrebbe replicarsi all'infinito, lungo tutte le catene di controllo (anche quelle che non sono tacciabili di recondite finalità di interposizione fittizia), con evidenti effetti negativi in termini di autonomia dei soggetti, di responsabilità patrimoniale dei gruppi societari e di certezza dei rapporti giuridici.

Considerazioni conclusive

Non resta che sperare che i giudici di merito continuino a dissentire da quella che anche a noi continua ad apparire una prassi completamente illegittima, priva di un sostrato economico e che confonde reddito civilistico e fiscale, affinché qualche collegio in Cassazione, focalizzando le distinzioni – che a noi sembravano evidenti – fra concetti basilari sia sotto il profilo economico che giuridico, solleciti un quantomai doveroso e urgente chiarimento alle Sezioni Unite.

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