Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: per la reintegrazione non è necessario che l'insussistenza del fatto sia “manifesta”
18 Ottobre 2022
Massima
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo collegato a ragioni tecnico produttive e organizzative, il giudice del lavoro, ai fini dell'applicazione della tutela reale ex art. 18 L. 300/1970, non deve accertare che il fatto posto a base del licenziamento sia “manifestamente” insussistente essendo sufficiente che lo stesso non sia ravvisabile (art. 18, comma 7, secondo periodo L. 300/1970). Il caso
Il Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 6 maggio 2021 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, comma 7, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42 lettera b) della legge n. 92 del 2012, per violazione degli artt. 1, 3, 4, 24 e 35 della Costituzione.
Il Tribunale ravvisa in primo luogo un'”ingiustificata, irrazionale ed illegittima differenziazione” tra la disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, da un lato, e quello per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, dall'altro.
Ciò in quanto solo nel primo caso sarebbe richiesto, ai fini della reintegra del lavoratore, un'insussistenza manifesta del fatto e ciò senza una plausibile motivazione. Inoltre la violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Costituzione si coglierebbe nel raffronto con la disciplina dei licenziamenti collettivi che prescrive, in caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero, la reintegra nel posto di lavoro senza la necessità che tale violazione sia manifesta.
Infine il criterio individuato dal legislatore dell'art. 18 della L. 1970 n. 300 risulterebbe “intrinsecamente illogico” in quanto incerto nella sua applicazione concreta e carente di “preciso e concreto metro di giudizio” idoneo a individuare il carattere manifesto dell'insussistenza del fatto.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, interveniva in giudizio chiedendo di dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Ravenna nei confronti dell'art. 18 della legge 1970 n. 300, comma settimo, secondo periodo.
La Corte Costituzionale, con la decisione in commento, ha ritenuto fondata la questione di legittimità sollevata dal giudice rimettente ed ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 18 legge 1970 n. 300, settimo comma, secondo periodo, come modificato dall'art. 1, comma 42 lettera b) della legge 28 giugno 2012, limitatamente alla parola “manifesta”. La questione
La questione trattata dalla Corte Costituzionale verte sulla legittimità costituzionale dell'at. 18, comma settimo, secondo periodo della legge 1970 n. 300 nella parte in cui richiede, ai fini dell'applicabilità della tutela reintregratoria, che l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento c.d. economico e cioè adottato per giustificato motivo oggettivo (connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative) sia “manifesta”. La soluzione giuridica
La Corte Costituzionale, considerate le motivazioni dell'ordinanza di rimessione, ha ritenuto la questione fondata per violazione dell'art. 3 della Costituzione.
In particolare la Consulta ha richiamato una sua precedente decisione in argomento (Corte cost. 1 aprile 2021 n. 59), strettamente collegata, con la quale era stato eliminato il concetto di facoltatività della tutela reintegratoria nel caso in cui il giudice avesse accertato l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Partendo da questa premessa la Corte Costituzionale ribadisce che il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati negli artt. 4 e 35 della Costituzione e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell'ordinamento repubblicano ai sensi dell'art. 1 della Costituzione.
L'attuazione di tali principi è demandata ovviamente al legislatore che, pur nell'ampio margine di discrezionalità di cui dispone, deve sempre prevedere rimedi ordinamentali che siano sorretti da una “giustificazione plausibile” e deve assicurare l'adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente licenziato, nelle quali la reintegra non costituisce “l'unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali” (sentenza 59 del 2021 e sentenza n. 46 del 2020, punto 5 di considerato in diritto).
Ma non solo. Nell'attuazione dei principi costituzionali sopra enunciati anche il compito del giudice assume un ruolo fondamentale, in quanto quest'ultimo deve individuare di volta in volta la tutela più efficace, sulla base delle “indispensabili indicazioni fornite dalla legge”.
In tale ambito la Corte Costituzionale ha inoltre precisato che il giudice, al fine di valutare la legittimità del licenziamento, è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità sull'effettività e genuinità delle scelte imprenditoriali, non potendo entrare nel merito delle stesse.
A tal fine il criterio indicato nella legge, riferito alla manifesta infondatezza del fatto posto a base del provvedimento espulsivo, risulta del tutto indeterminato, stante anche la difficoltà di distinguere tra insussistenza “pura e semplice” e insussistenza “manifesta”, con la conseguenza che il giudice potrebbe adottare decisioni difformi, esposte finanche al possibile arbitrio, in violazione del principio di uguaglianza.
Infine la Corte Costituzionale ha specificato che il requisito della “manifesta insussistenza” demanda al giudice una valutazione sfornita di “ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico”.
La sussistenza di un fatto, argomenta la Corte, “non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto un'alternativa netta, che l'accertamento del giudice è chiamato a scegliere in termini positivi o negativi”.
Questo vuol dire che, ai fini della legittimità del licenziamento, la valutazione del giudice deve riguardare puramente e semplicemente la sussistenza o meno del fatto, non potendo ricomprendere quella sulla natura più o meno evidente del difetto di giustificato motivo. Osservazioni
La decisione in commento si inserisce all'interno del processo di destrutturazione operato dalla giurisprudenza nei confronti della riforma della disciplina dei licenziamenti, di cui alla legge Fornero (che ha operato sull'art. 18 St. Lav.) e al Jobs Act (che ha operato con il D. Lgs. 23/15 per gli assunti successivamente al marzo del 2015).
In tale ambito si segnala, oltre alla menzionata Corte cost. n. 59 del 2021, la decisione della Consulta che ha pronunciato l'illegittimità costituzionale del meccanismo delle c.d. tutele crescenti, per irragionevolezza del riferimento esclusivo all'anzianità di servizio e per l'inidoneità a rappresentare un valido deterrente contro i licenziamenti illegittimi (Corte cost. n. 194 del 2018).
Successivamente, nella stessa direzione, la sentenza della Corte Costituzionale (n. 150/2020) ha dichiarato incostituzionale, per la desunta scarsa deterrenza e per irragionevolezza del criterio della sola anzianità di servizio, l'art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015 (facente parte del Jobs Act) nella parte in cui prevedeva, in caso di vizi procedurali o di motivazione del recesso, l'indennità risarcitoria di una mensilità per anno lavorato.
Sul tema, come noto, è ulteriormente intervenuta la Corte di Cassazione con due recenti decisioni, volte ad estendere la casistica delle fattispecie astratte che comportano la reintegra in servizio.
Con la decisione dell'11 aprile 2022 n. 11665 la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui va disposta la reintegra del lavoratore anche quando il contratto collettivo preveda le ipotesi di applicazione di sanzioni conservative del posto di lavoro in modo non specifico e tipizzato (e quindi mediante clausole generali del tipo: svolgere il lavoro con negligenza o con scarsa diligenza) .
In tal modo il Giudice può effettuare una valutazione discrezionale relativa alla proporzionalità e gravità della condotta contestata, di fatto contraddicendo il carattere eccezionale della tutela reintegratoria voluto dagli interventi riformatori.
La seconda pronuncia (Cass. 26 aprile 2022, n. 13063) afferma, nel medesimo indirizzo della precedente, che se il contratto collettivo prevede una sanzione più tenue (e dunque conservativa) per un fatto più grave di quello che ha determinato il licenziamento, il lavoratore deve essere reintegrato.
E ciò nonostante le riforme avessero espressamente espunto il criterio della proporzionalità tra fatto commesso e sanzione al fine dell'applicazione o meno della tutela reintegratoria.
Ebbene la decisione in commento si inserisce in tale orientamento restrittivo – espresso sia dal giudice delle leggi (in tal senso la menzionata decisione n. 59 del 2021) che in sede di legittimità- avendo eliminato, relativamente ai licenziamenti economici, l'avverbio “manifestamente “ in relazione all'insussistenza del fatto posto a giustificazione del recesso .
Quindi oggi, in caso di situazione tecnico produttiva e organizzativa esistente ma poco evidente, magari perché di difficile dimostrazione in sede giudiziale in ragione della complessità della ristrutturazione aziendale che abbia portato alla soppressione del posto di lavoro, un licenziamento per giustificato motivo oggettivo potrà essere annullato con conseguente reintegra in servizio del lavoratore. |