Polizza infortuni e compensatio lucri cum damno: il punto di vista medico legale

Luigi Mastroroberto
Maria Carla Mazzotti
Maria Carla Mazzotti
15 Novembre 2022

Estendere il principio della compensatio anche alla polizza infortuni, pur nel pieno rispetto delle regole che le Sezioni Unite della Cassazione Civile hanno stabilito, ci sembra da un lato una forzatura per la impossibilità di individuare una identità fra il bene tutelato dalla responsabilità civile e quello che invece è posto ad oggetto della copertura data dalla polizza infortuni. Dall'altro aprirebbe scenari ingestibili nella comune pratica, ancor più se si considera la rilevante diffusione di contratti di polizza infortuni, sia individuali, sia collettivi, sia a tutela dei mutui, sia forniti automaticamente da aziende di credito, di cui a volte gli stessi assicurati vengono a conoscenza solo a distanza di tempo dall'evento.
La funzione indennitaria dell'assicurazione contro gli infortuni

Traendo ispirazione dall'interessante contributo recentemente pubblicato dalla Dott.ssa Lilia Papoff (Papoff L. Compensatio lucri cum damno nell'assicurazione privata contro gli infortuni. Ridare, 11 luglio 2022), a integrazione dalle argomentazioni di natura eminentemente giuridica già trattate, vorremmo, sullo stesso tema, esprimere un'opinione prettamente medico-legale, in riferimento prevalentemente al tipo di tutela che questa copertura fornisce e se ed eventualmente in che modo essa si rapporti al più generale impianto del risarcimento del danno alla persona.

Il tema legato alla riconducibilità del contratto di assicurazione contro gli infortuni alla categoria dell'assicurazione contro i danni piuttosto che a quella dell'assicurazione sulla vita, che rappresenta la premessa dell'interrogativo sulla possibilità di cumulare indennizzo e risarcimento, ha origini ormai non recenti.

Senza ripercorrere nei dettagli la ricostruzione storica inerente l'inquadramento giuridico e dottrinario della questione, che esulerebbe dalla finalità precipua del presente elaborato, basterà ricordare che se inizialmente l'orientamento maggioritario riconduceva l'assicurazione contro gli infortuni alla categoria delle assicurazioni sulla vita, quale evento attinente all'esistenza umana quindi non identificabile quale pregiudizio economicamente valutabile (Locatelli L. Responsabilità civile e previdenza. Assicurazione contro gli infortuni non mortali e cumulo di indennizzo e risarcimento del danno. Giuffrè Editore, 2014), tale soluzione è stata poi progressivamente ribaltata fino all'emersione della funzione indennitaria, diretta ad inserire le assicurazioni infortuni nell'alveo delle assicurazioni contro i danni.

Proprio a supporto di tale orientamento, le Sezioni Unite della Cassazione, con la nota sentenza n. 5119 del 2002, hanno affermato che nella nozione di danno possono essere ricondotti non solo i danni alle cose o al patrimonio, ma anche i danni derivati per effetto di un infortunio dell'assicurato quale evento attinente alla persona, distinguendo infortuni mortali e polizza vita da una parte ed infortuni invalidanti dall'altra. Secondo le Sezioni Unite, l'appiglio normativo in grado di giustificare l'inserimento dell'assicurazione contro gli infortuni non mortali nelle assicurazioni contro i danni trova conferma nel disposto normativo dell'art. 1916, comma 4, c.c., espressione del principio indennitario, che estende esplicitamente le disposizioni sul diritto di surrogazione dell'assicuratore alle assicurazioni contro le disgrazie accidentali (Bugli A. L'applicazione del principio indennitario alle polizze infortuni. Ridare, 2014).

La possibilità dell'assicuratore di surrogarsi nei diritti dell'assicurato verso il responsabile del pregiudizio alla persona, infatti, è espressione della funzione esclusivamente indennitaria del contratto di assicurazione contro i danni, con la finalità di evitare in un unico soggetto il possibile cumulo del diritto al risarcimento e di quello all'indennizzo, qualora la somma degli stessi superi complessivamente il valore civilistico del danno subito (Papoff L. Compensatio lucri cum damno nell'assicurazione privata contro gli infortuni. Ridare, 11 luglio 2022).

Nel 2014 la Corte di Cassazione, con sentenza n. 13233/2014, ha ripreso tale determinazione e l'ha inserita all'interno della compensatio lucri cum damno: detta sentenza, anche nota come "sentenza Rossetti”, muove dal soprariportato enunciato della Sentenza n. 5119 del 2002 secondo il quale non è possibile cumulare le somme erogabili a titolo di risarcimento con quelle di indennizzo, ribadendo così la funzione indennitaria nella quale si assume che attraverso l'assicurazione l'assicurato non possa conseguire un indebito arricchimento (Aventaggiato V. Polizza infortuni: indennizzo e risarcimento del danno non sono cumulabili. Responsabilità Civile, 2015): la polizza infortuni, quando c'è un danno da responsabilità di terzi, deve rientrare nel risarcimento.

Se da una parte la “sentenza Rossetti” ha avuto un notevole risalto, dall'altra non è stata scevra da contrasti con la giurisprudenza. Orientamenti di senso opposto, infatti, vedevano la possibilità di cumulo tra indennizzo assicurativo e risarcimento di danno per via della loro diversa fonte, rispettivamente di natura contrattuale e di natura legale. Secondo tali presupposti, la differente natura dei due crediti escluderebbe che gli stessi possano compensarsi in base al principio della compensatio lucri cum damno, poiché la prestazione indennitaria trarrebbe fonte da un titolo diverso, indipendente dalla responsabilità per l'accadimento dell'evento stesso.

È stato anche sottolineato (Ronchi E. Indennizzo e risarcimento si cumulano? Il parere “anche” del medico Legale. Ridare, 14 luglio 2017; Ronchi E. Le carenze nel ricorso in cassazione di cui all'ordinanza della corte n.14358/19: a proposito di compensatio lucri cum damno. Ridare, 13 maggio 2021) che tali dissonanze potrebbero trovare accordo in un preciso aspetto medico-legale della problematica che, se correttamente considerato, dovrebbe permettere di superare il divieto stesso, in base alla regola di giudizio di cui al punto 6) della sopracitata sentenza n. 13233/2014, secondo cui “la detrazione del risarcimento del danno aquiliano dell'indennizzo assicurativo percepito dalla vittima in virtù di una assicurazione contro gli infortuni esige che il danno patito e il rischio assicurato coincidano: se l'assicurazione copre il danno da perdita della capacità di lavoro (danno patrimoniale), e la vittima del fatto illecito ebbe soltanto un danno biologico (danno non patrimoniale), nessuna detrazione sarà possibile [...]”.

La questione è stata affrontata successivamente dalle Sezioni Unite nel 2018: la sentenza n. 125656/2018 ha offerto una soluzione che ha legittimato la compensatio lucri cum damno con separate pronunce affrontando alcune fattispecie riconducibili all'indennizzo assicurativo privato erogato per danni alle cose e nel caso di assicurazione sulla vita, senza però risolvere diversi problemi interpretativi dell'assicurazione contro gli infortuni. Sono, infatti, state proposte numerose argomentazioni, diverse fra loro, ma non strettamente legate al rapporto diretto fra assicurazione contro infortuni e divieto di cumulo.

L'oggetto della valutazione del risarcimento in medicina legale

In tale contesto sorgono spontanee alcune problematiche applicative che appaiono non omogenee ed irrisolte, tra le quali spicca primariamente il tema legato all'oggetto della valutazione del risarcimento. Se, infatti, nel risarcimento del danno alla persona è nozione comune distinguere il danno non patrimoniale e il danno patrimoniale, in polizza infortuni non è corretto parlare né dell'uno né dell'altro.

È noto che il frutto della tutela assicurativa non è altro che un contratto privato, stipulato in base alle specifiche esigenze e richieste, che le due entità assicuratore-assicurato pattuiscono reciprocamente e con il quale l'assicuratore, dietro corrispettivo del premio, si impegna a corrispondere all'assicurato una somma al verificarsi di un determinato evento. Il principio è tale per cui ogni qual volta si verifichi un evento che si presume possa riguardare la garanzia sottoscritta, tutto ciò che concerne il fatto stesso e le sue conseguenze deve essere vagliato tenendo conto di ciò che prevede quello specifico contratto.

Quindi, se da una parte la responsabilità civile, governata da norme sovranazionali, ha l'ambizione di garantire a tutti i soggetti lo stesso trattamento a parità di lesione e menomazione, nella contrattualistica privata l'indennizzo spettante all'assicurato dipende dallo specifico contratto che questo ha sottoscritto. Da ciò deriva che a parità di lesione, per soggetti assicurati con polizze diverse, ci saranno valutazioni differenti con indennizzi altrettanto differenti.

È opportuno ricordare che relativamente al risarcimento in responsabilità civile, il danno biologico che occorre valutare e risarcire come conseguenza di un fatto da responsabilità di terzi rappresenta la diminuzione della capacità di vivere la vita che aveva il soggetto al momento del sinistro, valutando, per effetto del danno subito, la misura della specifica compromissione di quell'insieme di abilità che consentivano alla persona di svolgere determinate attività.

In tema di abilità e disabilità, nel 1980 l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) propose l'ICDH -Classificazione Internazionale delle Disabilità e Handicap- (World Health Organization. International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps. A manual of classification relating to the consequences of disease. Geneva, Switzerland, 1980), che prevedeva la descrizione della persona attraverso la triplice scala lesione-disabilità-handicap. Secondo l'OMS con il termine “handicap” si intende una condizione di svantaggio conseguente ad una lesione che genera una disabilità, ovvero un malfunzionamento della parte colpita che a sua volta limita o impedisce al soggetto leso di ricoprire il proprio ruolo ed è tale da generare uno svantaggio nell'effettuare determinati atti, sia lavorativi sia extra-lavorativi, della vita quotidiana.

Nel 2001, poi, con la pubblicazione del nuovo sistema classificatorio ICF -Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute- (World Health Organization. ICF: International Classification of Functioning, Disability and Health. Geneva, Switzerland 2001) furono aggiornati tali concetti, intendendo la disabilità come la condizione personale di chi, in seguito ad una o più menomazioni, ha una ridotta capacità d'interazione con l'ambiente sociale ed è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane, nonché in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale, con l'intento di descrivere non le persone, ma le loro situazioni di vita quotidiana in relazione al loro contesto ambientale.

Al di là dei sistemi classificatori, in ogni caso, ciò che viene contemplato in responsabilità civile è proprio la disfunzionalità del soggetto, ovverosia la reale incidenza dei postumi sull'abilità del soggetto. Vien da se che tali concetti risultano di più facile comprensione qualora si parli di un determinato tipo di menomazione: dimostrativo, in tal senso, è l'esempio di una anchilosi di ginocchio a seguito della frattura da scoppio dei condili femorali, irreparabile ed improtesizzabile, da cui si genera una “disabilità” che è l'incapacità di flettere il ginocchio, la quale a sua volta genera una serie di “handicap” (il soggetto non riesce più a correre come prima, zoppica vistosamente, quando si siede mantiene la gamba in estensione, non può praticare sport che prevedono la mobilità del ginocchio e così via). Nel caso, invece, di lesioni di minori entità (come, ad esempio, una frattura diafisaria di perone che guarisce con un minimo callo osseo al centro della diafisi) ci sarà un evento che certamente genera una lesione, ma probabilmente dalla lesione non si produrrà alcuna disabilità poiché in quel determinato soggetto tutte le strutture anatomico-funzionali interessate dalla lesione potranno funzionare esattamente come prima, grazie anche a fenomeni di compenso attivati dai restanti distretti non interessati dal trauma.

In altri termini, dunque, nella valutazione del danno in responsabilità civile è necessario attuare un appropriato adattamento della criteriologia valutativa, che non si limita a quantificare gli esiti di una lesione attraverso l'applicazione di percentuali standardizzate riportate nelle tabelle, ma deve ricomprendere quanto pertinente all'effettiva e complessiva variazione dello stato anteriore causalmente ascrivibile all'illecito, ovverosia valutando la misura in cui, temporaneamente o permanentemente, la lesione e la menomazione hanno ridotto la capacità di quella persona di vivere la vita di tutti i giorni come avveniva prima del fatto.

La differenza tra il bene tutelato in responsabilità civile e la copertura data dalla polizza infortuni

Il prodotto infortuni, al contrario, è puramente indennitario: nel calcolare il premio viene considerato un unico parametro, che è la densità di rischio del soggetto di rimanere vittima di un infortunio, contratto che viene dunque stipulato senza variazioni del premio in funzione dell'età e dello stato di salute del proponente.

Come già sopra anticipato, la tutela assicurativa è regolamentata da un contratto, costituito da una serie di definizioni, norme, condizioni generali e particolari che regolano e governano l'assicurazione.

Quando si parla di invalidità permanente in polizza infortuni, la nozione più nota è che il danno indennizzabile rappresenti la menomazione della capacità lavorativa generica, che i contratti definiscono come la “capacità generica ad un qualsiasi lavoro proficuo indipendentemente dalla professione dell'assicurato”, ovverosia quella generica disponibilità del soggetto ad esercitare attività di tipo sia intellettuale che manuale, senza avere nessun rilievo la maggiore incidenza della menomazione sulla capacità lavorativa specifica del contraente (Genovese U. Riflessioni medico-legali sulla riduzione della capacità lavorativa generica e specifica. Ridare, 2022). Già questo marca una sostanziale differenza fra il bene tutelato dalla polizza ed il danno patrimoniale da lucro cessante come inteso in ambito di danno alla persona in responsabilità civile.

Ma vi è ben di più. In realtà, se si tiene conto dell'intera normativa contrattuale che codifica i criteri di valutazione dell'invalidità permanente, ci si rende conto che questo riferimento alla capacità generica è vero solo in misura decisamente contenuta. Ogni polizza infatti contiene una tabella che, per la perdita anatomica o funzionale dei vari distretti elencati in essa, stabilisce quale debba essere il valore della invalidità da riconoscere indipendentemente quindi dalla misura in cui quella menomazione ha inciso sul “funzionamento” di quell'assicurato. Ne consegue che in polizza infortuni il tasso di invalidità permanente da riconoscere sarà sempre e comunque quello previsto dalla tabella riportata nel contratto, qualunque esso sia.

Se, dunque, la polizza presente in quel contratto, o richiamata da quel contratto, prevede un tasso del 25% per la perdita della funzione visiva di un occhio, qualora si verifichi una tale condizione quello sarà il valore percentuale della invalidità da riconoscere ed indennizzare. Se invece la polizza, come accade in un numero elevato di contratti del genere, prevede che la valutazione vada fatta sulla base della tabella INAIL ex DPR 1124 del 1965 per la stessa menomazione il valore da riconoscere sarà quello del 35%. Altre polizze ancora, ad esempio alcune di quelle a tutela delle carte di credito, indicano il tasso del 15%.

Sempre il contratto, nella parte in cui definisce come si debba valutare l'invalidità permanente, stabilisce che il medesimo criterio “tabellare” vale anche, evidentemente, per menomazioni che comportano una perdita anatomica o funzionale parziale di uno dei distretti anatomici elencati nella stessa tabella e, dunque, riprendendo l'esempio sopracitato, in caso di menomazione che comporti la perdita di metà della funzione visiva di un occhio, la valutazione da riconoscere sarà pari alla metà del valore indicato in tabella, qualunque esso sia. Una valutazione di postumi eventualmente ispirata alla cosiddetta capacità lavorativa generica/ultra-generica si potrà riservare unicamente a quei casi in cui la condizione menomativa attiene un distretto corporeo nei cui confronti la tabella non fornisce alcuna indicazione, neanche per analogia.

Appare quindi a nostro avviso evidente che la valutazione della invalidità permanente e il conseguente indennizzo sono espressione, nella polizza infortuni, di un rigido meccanismo contrattuale che vincola la prestazione da riconoscere ad un mero calcolo sula base di parametri prestabiliti e concordati fra le parti, indipendentemente dalle reali ripercussioni che quella menomazione può avere concretamente su quella persona, sia per quanto riguarda il suo stato di salute, sia per quanto riguarda la sua capacità di produrre reddito.

Inoltre, la polizza infortuni contiene (e questo accade nella pressochè totalità delle polizze in commercio oggi in Italia) almeno altre due norme che, governando il modo di stimare l'invalidità permanente, allontanano drasticamente l'oggetto della tutela di questo prodotto di assicurazione dai beni salvaguardati dalla responsabilità civile in caso di danno alla persona e propongono al medico legale una criteriologia di accertamento differente da quella che si applica in tutti gli altri ambiti.

1) Il primo dei due è quell'articolo di polizza che quasi sempre è denominato “criteri di indennizzabilità”, secondo il quale (a rimarcare il concetto che il bene tutelato non è il reale funzionamento dell'assicurato, bensì il frutto di un astratto artificio tecnico), qualora le conseguenze dell'infortunio determino lesioni su distretti già menomati, le conseguenze da riconoscere in termini di percentuale di invalidità sono solo quelle che si sarebbero realizzate, a parità di evento, in un soggetto “integro e sano”. La stessa norma dunque esclude l'indennizzabilità di quelle lesioni che sono il frutto di un concorso fra il trauma e condizioni patologiche preesistenti, senza le quali quella lesione non si sarebbe realizzata; così come, qualora la lesione, ancorchè di per sé indennizzabile perché conseguenza diretta ed esclusiva dell'infortunio, abbia un decorso più sfavorevole per un maggior pregiudizio arrecato da stati anteriori patologici, allo stesso modo questi ultimi vengono considerate conseguenze “indirette” ed ancora una volta escluse dalla copertura.

2) Ci sembra dunque di facile comprensione come il pregiudizio che viene posto ad oggetto della prestazione assicurativa sia molto lontano da ciò che, in responsabilità civile, viene considerato danno alla persona e risarcito come tale.

3) La seconda norma, che ulteriormente allontana il concetto di invalidità permanente in polizza infortuni da quello di danno risarcito in ambito di responsabilità civile, è quella secondo cui, in caso di infortunio che determini lesioni a più distretti anatomici, la valutazione finale, sempre indipendentemente dal reale pregiudizio funzionale subito dall'assicurato, va fatta calcolando, in riferimento ai valori previsti dalla tabella di quello specifico contratto, le singole percentuali attribuibili a ciascun distretto menomato e semplicemente sommandole fino al valore massimo del 100%.

4) E se a seguito di un infortunio tale valore viene raggiunto (si pensi ad esempio ad una lesione spinale che causa una paraplegia), continuando ad essere attiva la polizza resta la possibilità che altri infortuni successivi causino, nello stesso assicurato, altre invalidità del 100% (ad esempio un secondo infortunio che causi la totale perdita della facoltà visiva, e poi ancora un altro evento che comporti la perdita funzionale degli arti superiori… e via elencando), tutte regolarmente indennizzabili col riconoscimento ogni volta dell'intero capitale assicurato. Chiaramente, quindi in casi del genere si supererebbe di gran lunga il “valore civilistico” che aveva l'assicurato inizialmente.

In conclusione

Risulta evidente che in polizza infortuni la valutazione medico-legale non contempla la reale incidenza dei postumi sull'abilità di quell'individuo, che rappresenta invece l'oggetto del risarcimento in responsabilità civile, ma è unicamente riferita al valore tabellare previsto dalla polizza. Si tratta, in buona sostanza, di fattispecie di squisita natura contrattualistica, individualmente regolata da specifiche norme e dunque passibili, da caso a caso, di differenze anche sostanziali.

Riprendendo il concetto di disabilità dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e la triplice dimensione schematica di lesione-disabilità-handicap a cui ispirarsi in ambito di responsabilità civile, in polizza infortuni si considera unicamente la lesione-disabilità e non la disfunzionalità del soggetto.

Tutto questo, ripetiamo ancora una volta, ben evidenzia come l'invalidità permanente tutelata dalla polizza infortuni non ha nulla a che fare con nessuno dei due tipi di pregiudizio ammessi dalle norme di legge e dalla evoluzione della giurisprudenza in caso di lesione della salute: il danno non patrimoniale ed il danno patrimoniale.

Per tutto quanto finora esposto e ritornando al principio della compensatio lucri cum damno, se da un lato esso è certamente legittimo e ben comprensibile quando intervengono, a tutelare lo stesso danno, un ente previdenziale (i.e. INAIL) e la responsabilità civile, e quindi il valore civilistico del danno viene ripartito fra l'ente e il responsabile, lo stesso ragionamento non può essere esteso parimenti in ambito di polizza infortuni, creando insormontabili ostacoli applicativi: laddove il terzo responsabile risarcisca la vittima prima che questa percepisca l'indennizzo per polizza infortuni, quest'ultimo non sarà dovuto, e lo stesso ove il danneggiato percepisca l'indennizzo prima del risarcimento.

Nella pratica comune, dunque, entrambi gli assicuratori – sia quello del responsabile civile, sia quello che deve indennizzare il danno in polizza infortuni – andrebbero incontro ad una sorta di “paralisi”, nessuno dei due assumendosi per primo l'onere di provvedere alla liquidazione del sinistro. Ed in questo va considerato che ormai da decenni la quasi totalità dei contratti di polizza infortuni ha una esplicita rinuncia alla azione di rivalsa nei confronti del responsabile delle lesioni.

Per tutti questi motivi, a nostro avviso, estendere il principio della compensatio anche alla polizza infortuni, pur nel pieno rispetto delle regole che le Sezioni Unite della Cassazione Civile hanno stabilito, ci sembra da un lato una forzatura per la impossibilità di individuare una identità fra il bene tutelato dalla responsabilità civile e quello che invece è posto ad oggetto della copertura data dalla poilizza infortuni.

Dall'altro aprirebbe scenari ingestibili nella comune pratica, ancor più se si considera la rilevante diffusione di contratti di polizza infortuni, sia individuali, sia collettivi, sia a tutela dei mutui, sia forniti automaticamente da aziende di credito, di cui a volte gli stessi assicurati vengono a conoscenza solo a distanza di tempo dall'evento.

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