Corte costituzionale: il termine a difesa deve essere riconosciuto anche nel giudizio direttissimo

Giuseppe Marino
07 Dicembre 2022

La necessità di una piena garanzia del diritto di difesa – che si traduce nel carattere effettivo della scelta sui riti alternativi assicurato dal riconoscimento di condizioni, materiali e temporali, che consentano all'imputato un'adeguata ponderazione della propria strategia processuale – vale a maggior ragione nel giudizio direttissimo, segnato da un rapido avvicendamento delle fasi processuali.

Il caso. La pronuncia in commento trae origine dalle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, c.p.p., nella parte in cui prevedono il diritto ad un termine a difesa soltanto a seguito dell'apertura del dibattimento, invece di prevedere la possibilità di accedere ai riti alternativi anche all'esito del termine a difesa eventualmente richiesto. Nel giudizio principale, il rimettente era stato chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di applicazione della pena a norma dell'art. 444 c.p.p., avanzata dall'imputato dopo che questi, in esito all'udienza di convalida, aveva ottenuto il termine a difesa previsto nel giudizio direttissimo che si svolge dinnanzi al tribunale in composizione monocratica. Ad impedire l'accoglimento della richiesta si sarebbe opposta, tuttavia, la lettura che, della disciplina censurata, ha dato la consolidata giurisprudenza di legittimità, assurta al rango di diritto vivente, secondo cui la concessione del termine a difesa (previsto dalle disposizioni censurate senza apprezzabili differenze tra i due riti) comporterebbe l'apertura del dibattimento, con conseguente preclusione della possibilità di richiedere il giudizio abbreviato e l'applicazione della pena su richiesta.

Le censure del rimettente. Per il giudice a quo, le disposizioni censurate si porrebbero, innanzitutto, in contrasto con l'art. 24 Cost.: affermare che l'imputato, nel giudizio direttissimo, non possa fruire del termine a difesa per operare una scelta sul rito implicherebbe una compromissione delle sue garanzie difensive. Ad avviso del rimettente, sarebbe leso, inoltre, l'art. 3 Cost., a causa della irragionevole disparità di trattamento che subirebbe l'imputato nel giudizio direttissimo rispetto al soggetto che venga processato con altro rito (vengono richiamate le ipotesi della richiesta di rinvio a giudizio nel rito ordinario, della citazione diretta a giudizio, del giudizio immediato e del procedimento per decreto), cui l'ordinamento riconosce un termine per preparare la difesa e per valutare anche l'eventuale scelta di procedere con rito alternativo. Altrettanto irragionevole, e parimenti lesiva dell'art. 3 Cost., sarebbe poi la disparità di trattamento rispetto all'imputato che si veda modificare l'imputazione o contestare nuovi reati o nuove circostanze, da parte del pubblico ministero, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, cui la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto, attraverso la caducazione delle relative preclusioni, la facoltà di accedere ai riti alternativi.

Termine a difesa: il quadro normativo e giurisprudenziale. Gli avvisi disciplinati dalle disposizioni censurate costituiscono imprescindibili adempimenti cui il giudice (sia esso collegiale o monocratico) è chiamato a dar seguito, nel giudizio direttissimo, in vista dell'esercizio di essenziali prerogative difensive dell'imputato: entrambi tali avvisi si collocano in una fase caratterizzata da una marcata contrazione dei tempi processuali, sia che essa consegua immediatamente alla convalida dell'arresto (art. 449, comma 1, c.p.p.), sia che essa venga attivata negli altri casi previsti dal codice di rito (art. 449, commi 4 e 5, c.p.p.). Proprio tale contrazione, del resto coessenziale ad un rito contrassegnato da esigenze di celerità e speditezza, rende non sempre agevole distinguere nettamente la fase preliminare al dibattimento da quella propriamente dibattimentale, tanto più nell'ipotesi in cui – come nel giudizio a quo e nella maggior parte dei casi – il giudizio direttissimo sia immediatamente conseguente al giudizio di convalida dell'arresto. Pur a fronte di tali difficoltà, ripetutamente evidenziate dalla dottrina, la giurisprudenza della Cassazione ha costantemente sottolineato la natura inderogabile degli avvisi in questione. Con riguardo, in particolare, al termine a difesa, è stato ribadito che, se richiesto, esso deve essere concesso dal giudice che deve pertanto disporre il rinvio del processo ad altra udienza, altrimenti incorrendo in un'ipotesi di nullità, generale e a regime intermedio, riguardando la stessa non l'assenza del difensore in giudizio ma l'assistenza nel medesimo dell'imputato (cfr. Cass. pen., n. 8951/2022). Dopo la decisione della Corte costituzionale n. 254/1993 (avente ad oggetto una questione sostanzialmente analoga a quella ora demandata alla Consulta), solo una parte della giurisprudenza di legittimità si è orientata nel senso di ritenere che la concessione del termine a difesa non precluda, sino alla formale apertura del dibattimento di primo grado, la richiesta di riti speciali. In considerazione del tenore letterale delle disposizioni in esame e delle diverse rationes dei due avvisi nel quadro delle fasi che si svolgono nel giudizio direttissimo, è prevalso nettamente, invece, l'orientamento giurisprudenziale incline a configurare il rapporto tra i due avvisi in termini di netta alternatività.

Il giudizio direttissimo deve conciliarsi con il diritto di difesa. Nel caso del giudizio direttissimo, la scelta dell'imputato di accedere a uno dei riti speciali previsti dal codice di rito deve raccordarsi con la disciplina particolarmente serrata dei tempi di instaurazione del giudizio, senza che ciò possa comportare il sacrificio delle essenziali esigenze difensive dell'imputato sull'altare della speditezza dei tempi processuali. Non può dunque ritenersi che la scelta del rito debba necessariamente avvenire seduta stante e incognita causa, senza cioè un'adeguata ponderazione delle implicazioni che derivano da tale strategia processuale. Proprio al fine della salvaguardia di un imprescindibile spatium deliberandi, il giudice, ove l'imputato ne faccia richiesta, è quindi tenuto a concedere il termine non solo in vista dell'approntamento della migliore difesa nella prosecuzione della fase dibattimentale, ma anche in funzione dell'esercizio consapevole della scelta sull'accesso al giudizio abbreviato e all'applicazione della pena a norma dell'art. 444 c.p.p. La necessità di una piena garanzia del diritto di difesa, che si traduce nel carattere effettivo della scelta sui riti alternativi per come assicurato dal riconoscimento di condizioni, materiali e temporali, che consentano all'imputato un'adeguata ponderazione della propria strategia processuale, vale a maggior ragione in un rito, quello direttissimo, segnato da un rapido avvicendamento delle fasi processuali. Per tali ragioni, considerata l'incompatibilità con l'art. 24 Cost. dell'interpretazione delle disposizioni censurate fatta propria dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, gli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, c.p.p. risultano costituzionalmente illegittimi in quanto interpretati nel senso che la concessione del termine a difesa nel giudizio direttissimo preclude all'imputato di formulare, nella prima udienza successiva allo spirare del suddetto termine, la richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p.

*Fonte: DirittoeGiustizia