Danno intermittente: i criteri milanesi consentono davvero un’equa liquidazione al macroleso?

12 Dicembre 2022

Prescindendo dall'entità delle lesioni riportate dal danneggiato, negli anni, si è teorizzato il principio secondo cui l'archetipo del danneggiato sarebbe sempre dotato di una resilienza tale da garantirgli una progressiva ripresa e, dal terzo anno, un'accettazione della propria condizione di invalidità. Ma è veramente così? E, soprattutto, tali considerazioni possono valere anche per le macrolesioni?
Premorienza per causa diversa dalla lesione

In data 12 dicembre 2019 veniva pubblicato su questa rivista un articolo dal titolo “La Tabella milanese sul danno definito da premorienza nelle prime applicazioni giurisprudenziali”, nel quale si plaudiva alla capillare diffusione dei criteri dell'Osservatorio di Milano sulla liquidazione del danno da premorienza.

Ebbene, se le tabelle milanesi sono una pietra miliare nella storia del danno alla persona, tanto da aver razionalizzato quel che non pareva potesse esserlo, al contrario, sin da subito, quanto edito nel 2018 in materia di premorienza ha destato delle perplessità.

Si legga, in proposito, quanto preconizzato a suo tempo da Marco Bona nell'articolo “Tabelle milanesi oltre il seminato: critica ai parametri per i danni da premorienza e terminali”

Ma procediamo con ordine.

Il consolidato indirizzo della Cassazione (cfr. Cass. civ. n. 679/2016 e n. 10897/2016, menzionate nelle note esplicative delle Tabelle di Milano 2018 sulla premorienza) sul criterio da utilizzarsi per risarcire il danno biologico occorso ad un soggetto premorto, per causa diversa dalla lesione primigenia, è chiaro: il decesso antecedente la liquidazione del danno, facendo venir meno la variabile della durata della vita residua, rende improprio il ricorso alla liquidazione tabellare che tale incognita, per l'appunto, adotta.

Deve tenersi in conto, dunque, l'effettiva sopravvivenza del danneggiato.

Proprio in ossequio a tale indirizzo, nel 2018 l'Osservatorio di Milano canonizzava in una nuova tabella il procedimento di quantificazione del danno biologico intermittente”, in caso di decesso per causa diversa dalla lesione, fondato sull'idea che “il danno non è una funzione costante nel tempo, ma esso è ragionevolmente maggiore in prossimità dell'evento per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi (…). Nello specifico si ritiene che il pregiudizio sofferto nel primo e nel secondo anno abbiano una intensità maggiore rispetto a quello sofferto dal terzo anno in avanti, sicché i valori risarcitori relativi a quell'arco temporale devono essere più elevati”.

Si tratta - per inciso - del medesimo comune denominatore del principio di calcolo del danno da lucida agonia, proposto nelle stesse tabelle: “si è ritenuto di porre come criterio di base la regola, sostenuta dall'esperienza medico legale (quale? n.d.r.), secondo la quale il danno tende a decrescere col passare del tempo, dal momento che la massima sofferenza è percepita nel periodo immediatamente successivo all'evento lesivo per poi scemare nella fase successiva (lasciando spazio ad una sorta di “adattamento” se non, addirittura, alla speranza di sopravvivere)”.

Prescindendo dall'entità delle lesioni riportate dal danneggiato, dunque, si è voluto teorizzare il principio, quasi che si trattasse di regola di esperienza comune, secondo il quale l'archetipo del danneggiato sarebbe sempre dotato di una resilienza tale da garantirgli una progressiva ripresa e, dal terzo anno, una stoica e definitiva accettazione della propria condizione di grave invalidità.

Ma è veramente così? E, soprattutto, tali considerazioni possono valere tanto per le menomazioni di poco conto, quanto per le macrolesioni?

È possibile che gli ideatori di tale meccanismo non abbiano un quotidiano e stretto contatto con i portatori di gravi menomazioni di origine “violenta”.

In caso contrario, non avrebbero potuto non considerare che il reale vissuto delle vittime, lo analizzeremo meglio nel prosieguo, è notevolmente e drammaticamente diverso, in special modo in caso di danni ingenti.

Così come non può negarsi che il consolidamento delle lesioni gravi avviene a distanza anche di anni dal “sinistro”, spesso a seguito di complessi iter terapeutici e reiterati interventi chirurgici, calvario clinico che rende difficoltoso individuare il momento dell'effettiva stabilizzazione e che mal si concilia con tale idea di sofferenza (fisica ed emotiva) decrescente a partire dal fatto, che legittimerebbe una progressiva riduzione del valore monetario giornaliero.

I diversi criteri a confronto: una simulazione di risarcimento

A. Anteriormente all'affermarsi del citato orientamento della Cassazione del calcolo del danno biologico permanente in funzione dell'effettiva sopravvivenza, quando il decesso del danneggiato sopraggiungeva per cause non ricollegabili all'evento primario, prima dell'effettiva liquidazione ma in epoca successiva alla “stabilizzazione dei postumi” (valutazione di pertinenza medico legale), si procedeva ad una quantificazione secondo criteri tabellari.

E, dunque, ad un ventenne con lesioni valutate in una percentuale dell'80%, sopravvissuto 5 anni, veniva riconosciuto a titolo di invalidità permanente un importo di circa € 850.000,00, sul presupposto - per l'appunto - che prima dell'exitus potesse considerarsi intervenuta la stabilizzazione del danno, con postumi permanenti.

B. Adottando il criterio milanese del danno da premorienza, agli eredi del medesimo danneggiato viene oggi riconosciuta una liquidazione pari ad € 130.000,00 (oltre ad eventuale aumento personalizzato, fino a +50%).

Di fatto, se formalmente conforme ai principi espressi dalla Cassazione (la liquidazione “ratione temporis”), nella sostanza il metodo milanese ha annullato (gravemente compromesso) tale posta risarcitoria.

E lo ha fatto sulla base dell'apodittica e, sotto diversi aspetti sorprendente teoria secondo la quale “il pregiudizio sofferto nel primo e nel secondo anno abbiano una intensità maggiore rispetto a quello sofferto dal terzo anno in avanti”.

Sui criteri di liquidazione meneghini, a conferma della loro diffusione nel Foro di Milano (e non), si legga la recentissima ed approfondita analisi della sentenza n. 9042 del Trib. Milano, sez. X, 16 novembre 2022, edita su questa rivista “Il Tribunale di Milano fa il punto sulla quantificazione del danno da premorienza”.

La giurisprudenza contraria ai criteri milanesi

Nonostante il perdurante successo del criterio milanese presso le corti di merito, forse eccessivamente sensibili al fascino dell'automatismo tabellare, da tale impostazione, ineccepibile in relazione al meccanismo quodam tempore, meno negli effetti, si discosta la giurisprudenza di legittimità.

La Suprema Corte ha preso decisamente le distanze da tale criterio, da ultimo con l'ordinanza n. 41933 del 29 dicembre 2021, secondo la quale non è condivisibile supporre che “il danno è ragionevolmente maggiore in prossimità dell'evento per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi”.

Tale assunto è definito “in contrasto con la logica, il diritto e la medicina legale”.

  • Sul piano logico, poiché non «ha senso ipotizzare che un danno possa “decrescere” nello stesso momento in cui lo si definisce, appunto, “permanente” ».
  • Sotto il profilo giuridico “l'idea che il danno permanente alla salute possa diminuire nel tempo non appare corretta. Tale pregiudizio consiste infatti in una forzata rinuncia ad una o più attività quotidiane (così, tra le altre, la nota ordinanza 27 marzo 2018, n. 7513); il danno biologico permanente è, dunque, una rinuncia permanente”.
  • Sul piano medico legale «“permanenti” sono definiti quei postumi che residuano alla cessazione dello stato di malattia e sono perciò caratterizzati da una condizione di stabilità nel tempo»; né pare esistere un effettivo riscontro empirico, in medicina legale, di questa “nocicezione decrescente”.

La Suprema Corte pone come punto centrale della liquidazione del danno da premorienza il principio secondo cui “una tabella sul danno da premorienza, per poter essere “equa”, deve partire dal presupposto che a parità di durata della vita residua deve corrispondere, ovviamente in caso di uguale invalidità permanente, un risarcimento uguale”, specificando poi che un danno già sopportato (prima della morte) non può valere meno di un danno che si sopporterà.

Con la conseguenza che non può essere liquidato in misura inferiore il danno patito da una persona poi deceduta, rispetto ad una persona che sia sopravvissuta.

Gli effetti sulla gestione stragiudiziale delle macrolesioni

Così come profetizzato dall'Avv. Bona, l'imparagonabile risultato, in termini di monetizzazione del risarcimento, cui si perviene ove il danno permanente sia liquidato al danneggiato ancora in vita, rispetto a quello riconosciuto dopo il decesso secondo i criteri dell'Osservatorio, ha troppo spesso reso materialmente impossibile (o, quanto meno, estremamente difficoltoso) definire i sinistri con lesioni gravi a carico di soggetti anziani o che facciano presagire un decesso prematuro del macroleso.

Salvo che il danneggiato non sia disponibile ad accettare offerte gravemente defalcate, infatti, nessun obbligato al risarcimento ha interesse a comporre casi di lesioni gravi a carico di soggetti a rischio di decesso, risultando economicamente assai più vantaggioso attenderne la morte, che continua ad essere la scelta di gran lunga preferibile anche ove l'exitus si verifichi a distanza di diversi anni dal sinistro, tanto per cause indipendenti, quanto riconducibili alla lesione originaria.

Certo non rappresentano un efficace deterrente l'applicazione di interessi compensativi e rivalutazione (ininfluenti dal punto di vista finanziario), la possibile soccombenza giudiziale e relativa condanna alle spese (peraltro oggetto di frequente ed immotivata riduzione rispetto al Tariffario Forense), tantomeno la condanna ex art. 96 c.p.c., tanto rara da riscontrare, quanto simbolica nell'ammontare.

Premorienza riconducibile alla lesione

Le note esplicative delle Tabelle milanesi non rendono note le ragioni che hanno indotto gli estensori dei criteri in esame a limitare la propria osservazione al caso (i) di morte sopravvenuta per causa diversa, escludendo dall'ambito di applicazione dei nuovi parametri (ii) il decesso provocato dalla lesione originaria.

Se è innegabile che le fattispecie sono giuridicamente e fattualmente diverse, lo è altrettanto che trattasi in entrambi i casi di lesione del diritto alla salute/vita; l'operatore (Avvocato, Magistrato, liquidatore che sia), in entrambe le evenienze, si trova innanzi alla medesima necessità: attribuire un valore monetario ai giorni di vita, a prescindere dalle ragioni del decesso e dal nomen juris che si voglia assegnare alla sopravvivenza del danneggiato.

Si consideri, altresì, che - nei casi di lesioni molto gravi cui ci stiamo riferendo - l'individuazione della sussistenza (o meno) di un nesso causale tra morte ed evento lesivo originario non è sempre così netta ed oggettivamente determinabile, sostanziandosi in valutazioni medico-legali che spesso offrono ben poche sicurezze, per limiti oggettivi loro propri (si pensi all'ambito oncologico) e per la relazione concausale che le patologie preesistenti/coesistenti/concorrenti possono avere con la lesione primaria; basti pensare (senza scoperchiarlo in questa sede) al vaso di pandora del danno differenziale, sul quale la dottrina giuridica e medico legale si confrontano da tempo, senza risultati univoci, nel tentativo di individuare forma e contenuto del nesso causale che lega menomazioni coesistenti e concorrenti.

Tutte considerazioni che, forse, potrebbero consigliare un trattamento uniforme delle due fattispecie (morte correlata o non), diverse dal punto di vista fenomenologico, ma non dissimili sotto il profilo del diritto compromesso (alla salute/vita) e delle necessità risarcitorie cui danno origine.

Anche nel caso (ii) di morte correlata all'evento primario, infatti, salvo l'inatteso revirement di cui alla - dirompente - recentissima pronunzia n. 32916/2022, la Suprema Corte aveva posto il principio secondo il quale la liquidazione dovesse eseguirsi ratione temporis: già Cass. civ., 16 maggio 2003, n. 7632, in tema di danno biologico terminale, aveva indicato come tale posta risarcitoria rientri nell'alveo del danno da inabilità temporanea, considerato nel massimo della sua entità e intensità; ne consegue che il giudice di merito dovrà considerare che, sebbene transeunte, tale lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte.

Quanto sopra, come anticipato, prima della tanto inaspettata quanto dirompente decisione n. 32916/2022: come un fulmine a ciel sereno, infatti, contestualmente alla redazione di questo approfondimento, la Suprema Corte sovverte venti anni della propria stessa giurisprudenza, tornando ad affermare che: “il principio secondo cui l'ammontare del danno biologico spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non già a quella probabile, in quanto la durata della vita futura in tal caso non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica ma è un dato noto (v. Cass., n. 41933/2021; Cass., n. 10897/2016; Cass., n. 679/2016), si applica invero, come nell'impugnata sentenza posto correttamente in rilevo, solo nel caso in cui la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, e non anche allorquando come nella specie la morte sia stata viceversa direttamente cagionata dall'illecito, essendo la persona deceduta proprio in conseguenza della patologia contratta all'esito della subita trasfusione con sangue infetto, e non già per cause da essa indipendenti.

Trova in tal caso infatti applicazione il principio affermato da questa Corte in base al quale la menomazione non reversibile dell'integrità della persona (idonea, cioè, ad incidere stabilmente e continuativamente sull'esplicazione della personalità lungo il presumibile arco della vita futura del soggetto che la patisce) presuppone che la persona sopravviva almeno temporaneamente al fatto lesivo e, presentandosi con i connotati del danno permanente, va risarcita con le corrispondenti tecniche di valutazione probabilistica (v. Cass., n. 10942/2003).

Troppo deflagrante, tale pronuncia, per poterne in questa sede commentare contenuti ed effetti; è certo che, se questo dovesse essere l'orientamento a venire della Suprema Corte, ogni ragionamento circa la valutazione pro tempore della sopravvivenza perderebbe di utilità, tornando a liquidarsi il danno al macroleso cui consegua il decesso col metodo tabellare del danno stabilizzato.

È prospettabile un univoco ed equo criterio di liquidazione applicabile alla premorienza correlata e non correlata?

È verosimile, dunque, l'adozione di criterio idoneo ad un'equa riparazione del danno da premorienza, universalmente inteso, che l'exitus sia o meno riconducibile all'evento originario?

Nel caso deciso dalla sentenza del Tribunale di Milano, sez. I, n. 10653/2021, quello di un soggetto di 44 anni deceduto per causa correlata ad una caduta in ambito ospedaliero dopo 872 giorni di coma, in ordine alla richiesta di liquidazione del danno da premorienza erano state proposte tre soluzioni alternative.

a. Il criterio della stabilizzazione del danno, quello adottato dalla decisione della C.d.A. di Milano sez. lav. n. 2099/18 e conforme alla citata sentenza n. 32916/2022, la quale, dato il lunghissimo lasso di tempo intercorso tra evento lesivo ed exitus ed il sostanziale consolidamento del quadro clinico, aveva considerato come stabilizzata la compromissione biologica e, come tale, suscettibile di liquidazione secondo gli usuali criteri tabellari (€ 945.833,00 - I.P. 100% in soggetto di anni 44 all'evento).

b. Il criterio della liquidazione pro die, indicato dalla Suprema Corte (sentenza n. 23183/2014, ma vedi anche Cass. n. 18163/2007, Cass. n. 1877/2006, Cass. 9959/2006, Cass. 11003/2003), secondo la quale il danno biologico terminale, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità: con la conseguenza che “Una mera applicazione della liquidazione tabellare dell'inabilità temporanea assoluta, pertanto, violerebbe quella necessità di considerare l'assoluta particolarità del danno biologico terminale, consistente in una lesione della salute, non solo massima, ma anche di una tale intensità da determinare la morte”. Nel caso esaminato, la Corte territoriale aveva stabilito che, “tenuto conto anche della giovane età della vittima”, il danno dovesse “essere liquidato, in moneta dell'epoca, in € 2.500,00 pro die”.

c. Il criterio elaborato dal consigliere della Suprema Corte, Dottor Marco Rossetti (Marco Rossetti, Il danno alla salute, p. 1080 e ss.); tale metodo, prevede che la liquidazione di quanto spettante ad un soggetto maschio di 44 anni (età all'evento del danneggiato) con I.P. del 100%, che sopravviva 3 anni, debba equivalere a quella che competerebbe ad un maschio ottantunenne (dunque, con 3 anni di aspettativa di vita, secondo dati Istat) con pari disabilità del 100%: € 741.734,00, secondo le Tabelle di Milano 2021.

Se è vero che tale sistema - per espressa previsione del suo ideatore - è pensato per il caso di morte non correlata, pare di semplice e legittima adozione anche nel caso di morte connessa all'evento primario.

d. Nella citata sentenza del Tribunale di Milano, il giudice ha adottato un quartum genus, un sistema ibrido, che ha moltiplicato i giorni di sopravvivenza (872) per € 99,00 al giorno (l'importo minimo previsto dalle Tabelle di Milano per invalidità temporanea assoluta), per una liquidazione complessiva di € 86.000,00.

Sostanzialmente, si è equiparata la condizione di chi versa in stato vegetativo, a quella di un paziente ricoverato in ospedale a seguito di intervento chirurgico per la riduzione di una frattura di un femore.

Il raffronto dei valori numerici riportati rende evidente nell'un caso [(i) il criterio dell'osservatorio milanese per morte non correlata)], come nell'altro [(ii) decesso riconducibile all'evento originario)], la straordinaria convenienza economica che il responsabile ha nell'attendere l'exitus.

E non ci riferiamo certo a vicende cliniche in cui tra evento e decesso trascorrano pochi giorni o mesi, nelle quali vi sono oggettive difficoltà o impossibilità di accertamento dei postumi; né a quelle in cui vi siano incertezze sull'an debeatur, tali da giustificare il rigetto della richiesta risarcitoria e la resistenza in giudizio; tantomeno nell'eventualità di lesioni di modesta entità.

Ci riferiamo, bensì, ai casi di soggetti macrolesi che sopravvivano anni all'evento, coinvolti in procedimenti giudiziari vertenti esclusivamente sulla quantificazione del danno, che si concludono con decisioni (è il caso della citata sentenza del Tribunale di Milano), in cui la responsabilità viene definita di “solare evidenza”.

Senza considerare che, in situazioni come quelle appena descritte, ove l'ingiustificato ritardo nella liquidazione privi il macroleso di risorse economiche necessarie alle cure, esso stesso parrebbe ritenersi concorrere al determinarsi di un exitus anticipato:

  • in primis, infatti, la carenza di disponibilità economiche priva i danneggiati (cui assai spesso è venuta a mancare anche ogni fonte reddituale) dei mezzi necessari ad assicurarsi un'assistenza terapeutica adeguata alle proprie necessità, così che il quadro clinico continua irreparabilmente ad aggravarsi. Se è vero che il danneggiato ha facoltà di richiedere ordinanze anticipatorie, certamente ciò presuppone - quantomeno - la conclusione della CTU, alla quale si perviene comunque a notevole distanza dall'introduzione del giudizio.
  • secondariamente, ed anche in questo caso si tratta di esperienza frutto di osservazione, la condotta dilatoria dei responsabili determina anche gravi ripercussioni piscologiche nella vittima; se, inizialmente, è possibile che i danneggiati reagiscano in modo combattivo a tali speculazioni, col passare degli anni tutti finiscono puntualmente per abbattersi, prendendo coscienza che - con tutta probabilità - non sopravviveranno a sufficienza per vedersi riparati del torto subito: per questi soggetti la morte finisce per essere percepita ed attesa come una liberazione dal calvario della vita.

D'altro canto, a conferma del valore anche simbolico ed in certo senso “terapeutico” della liquidazione del danno, proprio la Suprema Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 15350/2015, a conferma di Cass. Civ. n. 6754/2011) ha più volte sottolineato la natura (anche) “consolatoria” del risarcimento, idoneo e finalizzato ad alleviare il patimento fisico ed emotivo del danneggiato.

Conclusioni

Certamente, se il Giudice - riconoscendone ingiusta e speculativa la morosità - potesse condannare il responsabile ad un “danno da ritardato pagamento”, di entità tale da riequilibrare economicamente i valori monetari in gioco, rendendo così non più conveniente la strategia dilatoria, il problema sarebbe risolto, quantomeno sotto il profilo patrimoniale.

Ma in un ordinamento che ancora ripudia l'idea del danno punitivo, la soluzione che si fa preferire è quella del criterio del Consigliere Rossetti cui si è fatto cenno, col limite (che non ci pare effettivamente tale) di essere stato pensato per una sola delle due differenti fattispecie esaminate (morte non correlata); salvo, naturalmente, che in sede di legittimità non venga confermato il ritorno alle origini sancito dalla sentenza n. 32916/2022, secondo la quale la premorienza correlata all'evento primario debba liquidarsi comunque secondo gli usuali parametri tabellari.

Ciò che è certo, avvalorando il sistema risarcitorio milanese della premorienza, è che continueremo a non ricevere il plauso di coloro che dovrebbero essere i soggetti primari del nostro agire, i danneggiati, esposti a sperequazioni ed ulteriori sofferenze.