Azione sociale di responsabilità

Fabio Signorelli
10 Aprile 2017

L'azione sociale di responsabilità consente alla società di agire contro gli amministratori per ottenere il risarcimento dei danni che essa ha subito a causa dell'inadempimento, da parte degli amministratori, di obblighi loro imposti dalla legge o dall'atto costitutivo. Gli amministratori possono essere ritenuti responsabili e chiamati a rispondere nei confronti della società: tale responsabilità è sempre stata, pacificamente, una responsabilità contrattuale.
Inquadramento

Come scriveva un indimenticabile Autore “questa azione consente alla società di agire contro gli amministratori per ottenere il risarcimento dei danni che essa ha subito a causa dell'inadempimento, da parte degli amministratori, di obblighi loro imposti dalla legge o dall'atto costitutivo” (Bonelli, L'esercizio delle azioni di responsabilità, in Colombo-Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni, IV, Torino, 1991, 423). La responsabilità degli amministratori verso la società è sempre stata, pacificamente, una responsabilità contrattuale (Cass., S.U., 6 ottobre 1981, n. 5241, in Giur. comm., 1982, II, 770), precisandosi che la proposta contrattuale sarebbe rappresentata dalla comunicazione all'amministratore della delibera assembleare di nomina, mentre l'accettazione si concreterebbe nel deposito della firma presso il registro delle imprese (Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, 3). Gli amministratori hanno con la società un rapporto di immedesimazione organica, che non può essere qualificato né rapporto di lavoro subordinato né un rapporto di collaborazione continuata e coordinata (Cass., 12 settembre 2008, n. 23557). Per molto tempo il rapporto tra amministratori e società è stato individuato nel contratto di mandato (Cass., 23 febbraio 2005, n. 3774, in Giur. it., 2005, 1637, con nota di Iozzo) mentre, forse più correttamente, da ultimo, si ritiene più aderente alla fattispecie tipica il contratto di amministrazione, e cioè un rapporto dal quale scaturisce, per l'amministratore, il dovere di gestire la società come prescritto dalla legge e dallo statuto, e per la società l'obbligo di remunerare l'amministratore per l'opera svolta (Rordorf, La responsabilità civile degli amministratori di spa sotto la lente della giurisprudenza, in Soc., 2008, 1193; vedi anche: Vassalli, sub artt. 2392-2393, in Comm. Niccolini, Stagno d'Alcontres, Napoli, 2004, 676).

Gli amministratori possono essere ritenuti responsabili e chiamati a rispondere nei confronti

a) della società (artt. 2392, 2393, 2393-bis c.c.),

b) dei creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione del patrimonio sociale (art. 2394 c.c.) e

c) del singolo socio o del terzo, che siano stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori stessi (art. 2395 c.c.).

In questa sede verrà illustrata solo la prima delle tre azioni di responsabilità.

La responsabilità degli amministratori

Le modifiche introdotte dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, agli artt. 2392 e ss. c.c. si possono cogliere con relativa facilità ad una semplice ma attenta lettura delle nuove norme: la diligenza richiesta agli amministratori nello svolgimento del loro incarico non è (più) quella del mandatario ma quella richiesta dalla natura dell'incarico e dalle specifiche competenze degli amministratori; la responsabilità per culpa in vigilando è circoscritta al dovere di valutare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società nonché di valutare , sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione, e di agire in modo informato (art. 2381 c.c.); gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza dei loro doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori (2392, comma 1, c.c.). Tali responsabilità trovano la loro giustificazione nella scissione fra proprietà e gestione e, tenuto conto del fatto che, normalmente, non sono i soci ad amministrare la società, risulta sicuramente quanto mai opportuno e doveroso che coloro che agiscono in nome, per conto e nell'interesse della società debbano rispondere delle loro azioni dolose o colpose al fine di evitare, in assenza di qualsivoglia responsabilità, un ingiustificabile far west (Cass., 19 novembre 1981, n. 6151, in Dir. fall., 1982, II, 302, con nota di Ragusa Maggiore). E' stato icasticamente scritto che la responsabilità degli amministratori è il complemento necessario dei loro poteri. Essa costituisce la più salda garanzia del loro corretto esercizio e consente di conseguenza di guardare con tranquillità al loro rafforzamento. La minaccia del risarcimento del danno è il peso che la legge colloca sull'altro piatto della bilancia, a fronte del potere, per assicurare un perfetto equilibrio nella conduzione efficiente della società (Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974, 102). Gli amministratori sono responsabili, dunque, in una duplice direzione: interna, verso la società, per violazione di obblighi imposti dalla legge e dallo statuto; esterna, verso i creditori sociali, per violazione dell'obbligo di conservazione dell'integrità del patrimonio sociale. Agendo in responsabilità, la società dovrà dimostrare, in applicazione dei principi generali delle obbligazioni, l'inadempimento degli amministratori che non abbiano rispettato gli obblighi loro imposti dalla legge e dallo statuto, il danno causato alla società dall'inadempimento degli amministratori ed, ovviamente, il nesso causale tra inadempimento e danno. La società dovrà solo provare l'inadempimento, senza alcun obbligo di dare dimostrazione della colpa degli amministratori, spettando, infatti, a questi ultimi l'onere della prova dei fatti che potrebbero escludere od attenuare la loro responsabilità (Trib. Milano, 29 maggio 2004, in Giur. it., 2004, 2333, con nota di Cottino; Trib. S.M. Capua Vetere, 23 maggio 2000, in Riv. not., 2003, 458, con nota di Pastore; Cass., 9 luglio 1979, n. 3925, in Dir. fall, 1979, II, 453). Gli amministratori, invece, non potranno essere ritenuti responsabili per i rischi che l'impresa normalmente corre durante tutta la sua vita, nel senso che ad essi non potrà essere addossato il risultato negativo dell'attività sociale o di singoli atti ad essa correlati, con conseguente insindacabilità delle scelte gestionali (Business Judgement Rule). I soci possono sperare che gli amministratori riescano nel loro compito, ma non possono imputare ad essi di non aver avuto fortuna (Frè, Società per azioni, in Scialoja-Branca(a cura di), Comm. del cod. civ., Bologna, 1982, 502). In nessun caso il giudice potrà sindacare il merito delle scelte imprenditoriali a meno che, se valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti (Cass., 31 agosto 2016, n. 17441, in questo portale, con nota di Cengia-Mascia, La responsabilità degli amministratori non esecutivi di s.p.a. tra potere e dovere di informazione).

L'art. 2392 c.c. prevede alcuni (ovvi) temperamenti quali diretta conseguenza del fatto che la responsabilità degli amministratori non è oggettiva ma deriva da colpa. Ed, infatti, non è responsabile (solidalmente) l'amministratore che, essendo venuto a conoscenza di fatti pregiudizievoli, abbia fatto tutto quanto poteva per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (art. 2392, comma 2, c.c.); parimenti, la responsabilità non si estende all'amministratore che, essendo immune da colpa (non si tratta di una tautologia), abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione, dandone immediata notizia per scritto al presidente del collegio sindacale (art. 2392, ultimo comma, c.c.).

L'art. 1176, comma 2, c.c. e il ruolo del parametro della diligenza e della perizia

L'adempimento è regolato dall'art. 1176 c.c. con riferimento alle obbligazioni in generale: da contratto (ed è il caso in esame), da fatto illecito o da qualsiasi altro fatto o atto idoneo a produrle.

In evidenza: criteri per valutare l'esattezza della prestazione (Galgano, Trattato di diritto civile, Padova, 2015, II, 37 e ss.)

le modalità dell'esecuzione

il tempo dell'esecuzione

il luogo dell'esecuzione

la persona che esegue la prestazione

la persona destinataria della prestazione

l'identità della prestazione

Il debitore, secondo l'art. 1176, comma 1, c.c., deve adempiere le obbligazioni usando la diligenza del buon padre di famiglia, vale a dire, secondo un parametro universalmente accettato, la diligenza dell'uomo medio. Non si richiede una diligenza eccezionale ma quella che è solitamente prestata nell'assolvimento delle normali attività della vita e degli impegni: dunque, secondo l'id quod plerumque accidit.

La riforma del diritto societario, modificando, nello specifico, l'art. 2392 c.c., ha stabilito che gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze, venendo così meno ogni riferimento alla figura del mandatario e con essa la diligenza del buon padre di famiglia, dovendo, pertanto, applicarsi il secondo comma dell'art. 1176 c.c. che prevede, invece, una diligenza professionale. Le obbligazioni degli amministratori continuano ad essere considerate obbligazioni di mezzi e non di risultato, con la precisazione che tali obbligazioni devono essere adempiute con la diligenza esigibile da parte di chi ha assunto il compito di gestire un'impresa. Tuttavia, ciò non significa che gli amministratori debbano necessariamente essere periti in contabilità, in materia finanziaria, e in ogni settore della gestione e dell'amministrazione dell'impresa sociale, ma significa che le loro scelte devono essere informate e meditate, basate sulle rispettive conoscenze e frutto di un rischio calcolato, e non di irresponsabile o negligente improvvisazione (Relazione alla riforma del diritto societario, § 6, III, 4).

Alla diligenza così intesa, devono essere associate la prudenza e la perizia. La prima comporta il dovere di non compiere operazione avventate che nessun imprenditore avveduto porrebbe in essere, mentre la seconda si riferisce alla capacità di gestire un'impresa, tenuto conto delle sue dimensioni e della sua attività specifica. Infine, l'art. 2392 c.c. esige che gli amministratori agiscano, oltre che con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico, anche con quella propria delle loro specifiche competenze, così riferendosi alle cognizioni tecnico-professionali delle quali gli amministratori eventualmente siano portatori ed in virtù delle quali questi ultimi siano stati appositamente scelti, così come previsto, specificatamente, dall'art. 2387 c.c., in relazione al requisito della professionalità. Pertanto, se gli amministratori fossero scelti per le loro specifiche competenze professionali (avvocati, ingegneri, architetti, dottori commercialisti, ecc.) o tecniche (chimici, biologi, fisici, matematici, ecc.), il grado di diligenza, prudenza e perizia andrà valutato in misura direttamente proporzionale alla loro competenza professionale o tecnica. Come è stato molto acutamente osservato, l'amministratore deve dotarsi della preparazione tecnica adeguata alla carica, o, altrimenti, rinunciarvi, anche se è il maggiore azionista della società, giacché non sono soltanto suoi, ma anche dei creditori e dei terzi in genere, gli interessi in gioco (Galgano – Genghini, Gli amministratori, in Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, Il nuovo diritto societario, XXIX, 1, Padova, 2004, 285).

Accertata, secondo i parametri che precedono, la responsabilità degli amministratori, essi saranno solidalmente responsabili anche se la società potrà agire soltanto nei confronti di alcuni di essi senza che ciò comporti un'ipotesi di litisconsorzio necessario. Così, da ultimo, è stato ribadito che la responsabilità (dei sindaci) per omessa vigilanza sull'operato degli amministratori, ha carattere solidale tanto nei rapporti con questo ultimi, quanto in quelli fra i primi, sicché l'azione rivolta a farla valere non va proposta necessariamente contro tutti i sindaci e gli amministratori, ma può essere intrapresa contro uno solo od alcuni di essi, senza che insorga l'esigenza di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, in considerazione dell'autonomia e scindibilità dei rapporti con ciascuno dei coobbligati in solido (Cass., 14 dicembre 2015, n. 25178, in questo portale, con nota di Paganini, Azione ex art. 2394 c.c.: caratteri generali e termini di prescrizione; Cass., 29 ottobre 2013, n. 24362, in Giur. comm., 2016, II, 19, con nota di Michieli).

L'(in)adempimento dei doveri imposti dalla legge e dallo statuto

Gli amministratori sono tenuti, oltre, come visto, ad agire con diligenza, ad osservare tutti i precetti contenuti nella legge e nell'atto costitutivo. Impossibile (e del resto sostanzialmente inutile) tentare di stilare un elenco di tutte le incombenze che spettano agli amministratori nello svolgimento del loro incarico. Da un punto di vista sistematico, la dottrina (Salafia, La responsabilità civile degli amministratori, in Gilardi (a cura di), La responsabilità civile degli amministratori e dei sindaci nelle società di capitale, Milano, 1995, 17), ha tentato di fornire qualche valido contributo classificatorio, così distinguendo:

a) obbligazioni inerenti l'organizzazione dell'azienda (istituzione e coordinamento degli uffici amministrativi, istituzione e coordinamento delle unità produttive sia nel commercio sia nell'industria; assunzione del personale e assegnazione ai vari uffici e reparti; finanziamento dell'impresa; acquisizioni di beni e capitali);

b) vigilanza sull'efficienza dell'organizzazione e sull'efficacia delle attività aziendali;

c) direzione dell'impresa verso la realizzazione dell'oggetto sociale;

d) adempimento delle obbligazioni tributarie e previdenziali;

e) osservanza delle norme che prescrivono comportamenti particolari (contabilità e bilancio).

Vale la pena di accennare, anche se appare ovvio, ai comportamenti che integrano fattispecie penali, quali, per citare solo i più gravi, i reati di bancarotta, fraudolenta (art. 216 l. fall.) e semplice (art. 217 l. fall.); ricorso abusivo al credito (art. 218 l. fall.), false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.), oltre, naturalmente, a tutti i reati di natura tributaria così d'attualità in tempi recenti. Dal punto di vista squisitamente societario, si deve accennare ai divieti per gli amministratori, di agire in conflitto d'interessi (art. 2391 c.c.); di esercitare un'attività in concorrenza con quella della società in assenza di specifica autorizzazione da parte dell'assemblea (art. 2390 c.c.). Di particolare interesse sono le norme che impongono agli amministratori di convocare l'assemblea su richiesta della minoranza (art. 2376 c.c.); le norme poste a presidio del regime delle azioni proprie (artt. 2357 e ss. c.c.); l'obbligo di procedere alla verifica della congruità della stima dei conferimenti in natura (artt. 2343 e ss. c.c.). Meritevoli di particolare attenzione (soprattutto perché quasi sempre contestati in caso di procedure concorsuali) sono gli obblighi posti a carico degli amministratori qualora si verifichino casi di scioglimento della società (art. 2485 c.c.), tenuto conto che al verificarsi di una causa di scioglimento gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale (art. 2486 c.c.). Da ultimo, va ricordato che le violazioni relative alla tenuta delle scritture contabili se, da una parte, costituiscono gravi irregolarità da valutarsi in relazione all'applicazione dell'art. 2409 c.c., e, in genere, di per sé, non causano danni alla società e non determinano responsabilità degli amministratori, tuttavia, dall'altra parte, la creazione dei cosiddetti fondi neri, è prodromica alla realizzazione di altri comportamenti (conflitti d'interesse, indebiti prelevamenti personali, costituzione di provvista per atti di corruzione, ecc.) che costituiscono diretta fonte di responsabilità per gli amministratori (Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Colombo-Portale, Trattato delle società per azioni, IV, Torino, 1991, 343 e ss.).

Azione sociale di responsabilità

L'azione sociale di responsabilità è deliberata sia dall'assemblea, con i normali quorum costitutivi e deliberativi, anche se la società è in liquidazione (art. 2393 comma 1, c.c.), sia dal collegio sindacale con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti (art. 2393, comma 3, c.c.). Sono naturalmente esclusi dal voto gli amministratori della cui responsabilità si tratta (art. 2373, comma 2, c.c.). L'azione di responsabilità può essere deliberata anche se non prevista all'ordine del giorno, se l'assemblea è stata convocata per la discussione del bilancio, purché si tratti di fatti di competenza dell'esercizio cui si riferisce il bilancio stesso (art. 2393, comma 2, c.c.). La deliberazione dell'azione di responsabilità importa la revoca dall'ufficio degli amministratori contro cui è proposta, purché sia presa con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale. In questo caso, l'assemblea provvede alla sostituzione degli amministratori (art. 2393, comma 4, c.c.). Tuttavia, la deliberazione con la quale l'assemblea autorizzi l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità contro i sindaci, anche se adottata con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale, non determina la revoca automatica dei sindaci e non ne implica l'immediata sostituzione (Cass., 7 ottobre 2010, n. 20826, in Soc., 2011, 129, con nota di Salafia). L'azione è esercitata in giudizio dai nuovi amministratori o, se quelli contro cui si agisce non sono stati revocati, da un curatore speciale nominato dal tribunale ai sensi dell'art. 78 c.p.c.. Anche se la deliberazione assembleare costituisce condizione dell'azione di responsabilità, tale deliberazione non deve necessariamente precedere la proposizione dell'azione ma deve essere adottata prima della sua pronuncia, con effetti ex tunc (App. Milano, 12 febbraio 2015, n. 695, in Ridare.it, con nota di Tatozzi-Cugini, Inammissibilità dell'azione di responsabilità promossa nei confronti dell'amministratore in assenza di autorizzazione assembleare; Trib. Milano, 20 ottobre 1994, in Foro pad. 1996, I, 65). L'atto di citazione non deve necessariamente riflettere il contenuto della deliberazione che autorizza l'azione di responsabilità, posto che il primo può avere contenuto diverso e più ampio rispetto alla deliberazione medesima (Trib. Milano, 17 ottobre 1988, in Giur. it., 1990, I, 248; Trib. Milano, 9 novembre 1987, in Giur. comm., 1988, II, 967). La società può rinunciare all'azione e può transigerla, purché la rinuncia e la transazione siano approvate con espressa deliberazione dell'assemblea e purché non vi sia il voto contrario di una minoranza di soci che rappresenti almeno il quinto del capitale socialeo la diversa misura prevista dallo statuto, comunque non superiore al terzo o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, almeno un ventesimo del capitale sociale, ovvero a un quarantesimo per l'esercizio dell'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 2393-bis c.c.. Poiché il legislatore ha previsto che l'azione di responsabilità può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell'amministrazione dalla carica (art. 2393, comma 4, c.c.), è sorto il dubbio se si tratti di un termine di prescrizione o di decadenza (si ricorda che la decadenza non soffre i limiti della sospensione e dell'interruzione, propri della prescrizione). Dottrina e giurisprudenza sono orientati nel ritenere che il termine sia prescrizionale perché, nella specie, non vi sono ragioni di tutela della stabilità dei rapporti giuridici (come, ad esempio, il termine imposto per impugnare le deliberazioni assembleari oppure il termine per l'esercizio del diritto di recesso) ma solo ragioni d'opportunità per rimediare ad esigenze d'inerzia nell'esercizio del diritto al risarcimento dei danni, così confermandosi che l'azione di responsabilità contro amministratori e sindaci si prescrive nel termine di cinque anni dalla cessazione dalla carica ovvero dal successivo momento in cui il danno si è prodotto ed esteriorizzato (si pensi a violazioni di natura tributaria e previdenziale che, spessissimo, vengono accertate parecchi anni dopo la commissione dell'illecito) e sempre che i soggetti in questione non abbiano intenzionalmente celato il pregiudizio, perché, in tale ipotesi, non sarebbe da escludere l'applicazione dell'art. 2941, n. 8, c.c., ai sensi del quale la prescrizione rimane sospesa tra il debitore che ha dolosamente occultato l'esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia stato scoperto (Ambrosini, La responsabilità degli amministratori, in Cottino (a cura di), Trattato di diritto commerciale, IV,1, Padova, 2010, 687 e ss.).

Azione sociale di responsabilità esercitata dai soci

L'azione di minoranza è la stessa azione che potrebbe essere promossa dall'assemblea per ottenere il risarcimento dei danni per mala gestio arrecato dagli amministratori alla società, il cui risultato finale, cioè il risarcimento dei danni, andrà ad esclusivo beneficio della società. Con questa azione la legge attribuisce la legittimazione ad agire ai soci di minoranza, rappresentando un caso di legittimazione straordinaria ai sensi dell'art. 81 c.p.c., con il quale la legge attribuisce ad un soggetto la legittimazione ad agire in giudizio per far valere un diritto altrui (Enriques-Mucciarelli, L'azione sociale di responsabilità da parte delle minoranze, in Abbadessa-Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 2 , Torino, 2006, 869). Trattandosi di un'ipotesi di sostituzione processuale, la società deve essere considerata un litisconsorte necessario, tanto che la legge prevede espressamente che la società deve essere chiamata in giudizio e l'atto di citazione è ad essa notificato anche in persona del presidente del collegio sindacale (art. 2393-bis, comma 3, c.c.). I soci che intendono promuovere l'azione devono nominare, a maggioranza del capitale posseduto, uno o più rappresentanti comuni per l'esercizio dell'azione e per il compimento degli atti conseguenti (art.-2393 bis, comma 4, c.c.). Al fine di evitare azioni meramente strumentali, la legge richiede che i soci rappresentino congiuntamente almeno un quinto del capitale sociale o la diversa percentuale prevista dallo statuto, ma comunque non superiore al terzo nelle società c.d. “chiuse” e il quarantesimo (2,5%) del capitale sociale nelle società c.d. “aperte”. Bisogna segnalare che la dottrina non è concorde nel ritenere se i soci che agiscono in responsabilità debbano essere titolari delle azioni solo al momento della proposizione dell'azione (trattandosi, in questo caso, di un presupposto processuale) o, piuttosto, se debbano mantenere tale titolarità fino alla fine del processo (trattandosi, in questo secondo caso, di una condizione dell'azione). A seconda di quale prospettazione si voglia condividere, diverse saranno le conseguenze perché, come è stato giustamente osservato, il mantenimento della titolarità delle azioni fino alla fine del processo che potrebbe anche durare anni, sarebbe un forte disincentivo sia in termini di rischi che di onere economico per qualunque investitore. L'obiezione secondo la quale l'azione continuerebbe comunque, anche in caso di estromissione dei soci di minoranza, non appare del tutto esaustiva perché una volta che siano stati estromessi i soci di minoranza a seguito della cessione delle loro azioni, si consegnerebbe alla maggioranza ogni effettiva decisione circa le sorti della radicata azione di responsabilità, quantomeno attraverso il meccanismo della transazione. Astrattamente, dunque, anche in considerazione del fatto che un'interpretazione analogica dell'art. 2378, comma 2, c.c. difetterebbe del requisito dell'eadem ratio ((Ambrosini, La responsabilità degli amministratori, in Cottino (a cura di), Trattato di diritto commerciale, IV,1, Padova, 2010, 674), parrebbe più aderente alle finalità di detta azione ritenere che la detenzione delle azioni da parte dei soci di minoranza debba essere considerato, seppur con molte riserve, un semplice presupposto processuale, che meglio garantirebbe una tutela vera, concreata e reale delle minoranze. Al fine di garantire effettività all'azione, l'eventuale rinuncia o transazione deve essere approvata da tanti soci che rappresentino almeno il quinto del capitale sociale, oppure la misura prevista dallo statuto per l'esercizio dell'azione in parola (art. 2393-bis, comma 6,c.c.), dovendosi, tuttavia, dare atto del disallineamento contenuto in quest'ultima norma, con riferimento alle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio dove è prevista la minor misura del quarantesimo del capitale sociale.

Riferimenti

Normativi

  • Artt. 2392, 2393, 2393-bis, 2394, 2395, 2409, 2485, 2486 c.c.;
  • Art. 78 c.p.c.;
  • Artt. 216, 217, 218 l. fall;
  • D. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6.
Sommario