Preclusioni dinanzi al giudice di pace: nuove problematiche interpretative ed applicative
13 Gennaio 2023
La fase introduttiva
In linea di principio, nei giudizi dinanzi al giudice di pace la costituzione delle parti avviene con la massima libertà di forme e non è individuabile alcun meccanismo preclusivo in riferimento agli atti introduttivi, mentre le preclusioni, come si vedrà in prosieguo, sono essenzialmente collegate allo svolgimento della prima udienza davanti al giudice, ex art. 320 c.p.c.
In particolare, per quanto attiene alla fase introduttiva del giudizio, la domanda si propone con citazione a comparire a udienza fissa (con ricorso nei giudizi ex artt. 6 e 7 d.lgs. n. 150/2011), ma può essere proposta anche oralmente (art. 316 c.p.c.). In quest'ultimo caso, l'attore si presenta al giudice di pace (in giorni prestabiliti), esponendo i fatti: di tale esposizione il giudice fa redigere un verbale, che deve, poi, essere notificato, a cura dell'attore, al convenuto, con l'invito a comparire a udienza fissa (stabilita dal giudice); la pendenza della lite si ha, in tal caso, con la notifica del verbale. La mancata sottoscrizione da parte del cancelliere del processo verbale della domanda proposta oralmente non comporta l'inesistenza o la nullità dell'atto, ma una semplice irregolarità, non vertendosi in un'ipotesi di mancanza di un requisito di forma indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto (vocatio in ius), una volta che questo sia stato conseguito con la notifica del verbale alla controparte (Cass. civ., 21 aprile 1998, n. 4033).
La facoltà dell'attore di proporre domanda davanti al giudice di pace verbalmente (comunque di rarissima applicazione) è prevista in tutte le cause di competenza del giudice stesso, e non solo in quelle di valore non eccedente € 1.100. Nelle cause eccedenti tale valore, tuttavia, la parte non ha la possibilità di stare in giudizio personalmente: pertanto, se il valore della causa è superiore ad € 1.100, sono valide la domanda proposta oralmente e la successiva notifica del verbale al convenuto effettuate dalla parte personalmente, mentre non è valida la costituzione personale dell'attore davanti al giudice di pace, attività da compiersi a mezzo del difensore (Cass. civ., 19 luglio 2001, n. 9844).
Poiché l'opposizione a decreto ingiuntivo è devoluta dall'art. 645 c.p.c., in via funzionale e inderogabile, alla cognizione del giudice che ha adottato il decreto, l'opposizione al decreto ingiuntivo emesso dal giudice di pace, davanti al quale ai sensi dell'art. 316 c.p.c. la domanda si propone con citazione a comparire a udienza fissa, in materia esorbitante dalla sua competenza (ad es. locatizia, per il pagamento degli oneri accessori dell'immobile locato) deve essere proposta, per la dichiarazione della nullità del provvedimento monitorio, innanzi allo stesso giudice di pace con citazione e non mediante ricorso, previsto, in via generale, per la particolare materia trattata (art. 447-bis c.p.c.), la cui eventuale conversione in citazione, peraltro, è ammissibile, purché siano rispettati i termini per la notifica stabiliti dall'art. 641 c.p.c., e quindi con notificazione del ricorso stesso alla controparte nel termine di giorni quaranta (Cass. civ., 16 novembre 2007, n. 23813; Cass. civ., 30 dicembre 2011, n. 30193). Si è, altresì, rilevato che, nel caso di tempestiva opposizione orale in udienza dinanzi al giudice di pace, ai sensi dell'art. 316 c.p.c., l'omesso rispetto, da parte dell'ingiunto - opponente, del termine perentorio di cui all'art. 641 c.p.c. nell'assolvimento dell'obbligo di notifica all'ingiungente del verbale di udienza, dovuto ad ignoranza del relativo onere, non gli consente l'opposizione tardiva, ai sensi dell'art. 650 c.p.c., giacché l'ignoranza non configura né una causa di forza maggiore, da intendere come forza esterna ostativa in assoluto, né un caso fortuito, da intendere come fattore meramente oggettivo, avulso dalla volontà umana, non voluto, né prevedibile o comunque evitabile (Cass. civ., 19 dicembre 2000, n. 15959).
A differenza di quanto avviene per i giudizi dinanzi al tribunale, per i quali la parte che iscrive la causa a ruolo deve contestualmente costituirsi, nei giudizi dinanzi al giudice di pace, caratterizzati da semplificazione di forme, gli artt. 316, 319 c.p.c. e 56 disp. att. c.p.c. delineano un sistema in cui la costituzione in giudizio dell'attore può anche non coincidere con l'iscrizione della causa a ruolo ed essere, invece, formalizzata nella prima udienza di trattazione. Pertanto, il deposito del fascicolo di parte, con l'atto di citazione e gli altri documenti, effettuato in cancelleria contestualmente all'iscrizione a ruolo, deve intendersi finalizzato a tale iscrizione, e la citazione non può ritenersi nulla per carenza di procura, se quest'ultima sia depositata nella prima udienza di trattazione, in tal modo perfezionandosi la costituzione in giudizio (Cass. civ., 24 ottobre 2008, n. 25727; Cass. civ., 9 settembre 2002, n. 13069). Inoltre, potendo l'attore costituirsi direttamente in udienza, non opera il principio secondo cui, nell'opposizione a decreto ingiuntivo, la tardiva costituzione dell'opponente va equiparata alla sua mancata costituzione (Cass. civ., 26 febbraio 2002, n. 2830).
Di recente, le Sezioni Unite (sent. 12 gennaio 2022, n. 758) hanno esaminato due questioni inerenti al procedimento dinanzi al giudice di pace, l'una relativa alla necessità di presentare anche la nota d'iscrizione a ruolo ai fini della valida costituzione in giudizio della parte interessata e l'altra concernente la possibilità, per il convenuto, di costituirsi prima dell'attore e in pendenza del termine concesso a quest'ultimo per provvedere alla propria costituzione. In ordine alla prima questione, si è statuito che, per la costituzione delle parti nel procedimento davanti al giudice di pace, non sia necessaria la presentazione di una nota di iscrizione a ruolo, mancando un riferimento normativo alla stessa e considerato che il procedimento in esame è caratterizzato dal principio della “massima libertà delle forme”, sicché l'imposizione (in via interpretativa) di un adempimento formale, prescritto a pena di inammissibilità della domanda o della costituzione in giudizio o di improcedibilità, determinerebbe un contrasto sistematico; inoltre, proprio dall'art. 319 c.p.c., norma speciale rispetto all'art. 168 c.p.c., oltre che dall'art. 56 disp. att. c.p.c., si desume che la costituzione può essere eseguita anche durante l'udienza e innanzi al giudice stesso, anziché mediante deposito degli atti in cancelleria, il che manifesta la superfluità della nota ai fini della costituzione del fascicolo (attività che l'art. 36 disp. att. c.p.c. demanda, in ogni caso, al cancelliere). Sulla seconda questione, le Sezioni Unite hanno espressamente recepito l'univoco orientamento giurisprudenziale (ex multis, Cass. civ., 26 aprile 2019, n. 11329) secondo cui il convenuto ha la facoltà di costituirsi e di far iscrivere a ruolo la controversia anche in pendenza del termine fissato all'attore per tale adempimento.
Allo stato, nei procedimenti innanzi al giudice di pace non è consentito il deposito degli atti in via telematica, né a mezzo pec, non essendo ancora intervenuta apposita normativa ministeriale (come dispone l'art. 16, comma 6, d.l. n. 179/2012) disciplinante tali profili. Pertanto, il deposito può avvenire esclusivamente in formato cartaceo (Cass. civ., 20 settembre 2020, n. 20575). Tuttavia, la recente riforma del processo civile di cui al d.lgs. n. 149/2022 (art. 35, comma 3) ha previsto che il processo civile telematico faccia il suo esordio avanti al giudice di pace a far data dal 30 giugno 2023, con applicazione anche ai procedimenti pendenti a tale data.
Come già detto, davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio senza il patrocinio di un difensore nelle cause di valore non superiore ad € 1.100 o se sono autorizzate dal giudice di pace (art. 82, comma 1 e 2, c.p.c.). Il diniego dell'autorizzazione alla parte a stare in giudizio di persona, al pari della sua concessione, non necessita di formule particolari ed è desumibile dallo svolgimento dell'attività processuale; l'autorizzazione può essere successiva all'instaurazione del giudizio e risultare anche implicitamente o per facta concludentia con efficacia sanante ex tunc del rapporto processuale, che, altrimenti, non è regolarmente costituito (Cass. civ., 10 marzo 2016, n. 4732). Di recente, si è ribadito che l'autorizzazione non esige il rigore formale della espressa scrittura, potendo risultare implicitamente dai verbali di causa e desumersi, in particolare, dalla circostanza che il giudice abbia provveduto su di una determinata istanza senza rilevarne l'avvenuta proposizione ad opera della parte personalmente (Cass. civ., 2 marzo 2018, n. 5013, secondo cui la violazione di tale ultima disposizione, che si realizza allorché la parte stia in giudizio senza che ne ricorrano i presupposti, genera comunque una nullità relativa, non rilevabile d'ufficio).
Inoltre, in deroga al principio di cui all'art. 77 c.p.c., le parti possono nominare un rappresentante processuale, ossia possono conferire ad un terzo il potere di rappresentarle in giudizio, di transigere e di conciliare la lite (Cass., S.U., 8 febbraio 2001, n. 48). In tal caso, non è richiesto che la scrittura privata di conferimento dell'incarico sia munita di autenticazione (Cass. civ., 21 aprile 2005, n. 8339).
La domanda deve contenere solo l'indicazione del giudice, delle parti e dell'oggetto, oltre all'esposizione dei fatti (art. 318, comma 1, c.p.c.). A differenza della domanda proposta dinanzi al tribunale, quindi, non è necessaria l'esposizione dei motivi di diritto, né l'indicazione delle prove: la Corte costituzionale, tuttavia, con sent. 22 aprile 1997, n. 110, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 318, comma 1, c.p.c. nella parte in cui non prevede che l'atto introduttivo debba contenere l'indicazione della scrittura privata che l'attore offre in comunicazione. Non è necessario predisporre i fascicoli di parte, in quanto gli atti e i documenti delle parti possono essere inseriti anche nel fascicolo d'ufficio (art. 320, comma 5, c.p.c.).
Secondo alcuni, la domanda deve contenere anche l'indicazione dei documenti prodotti, in base a quanto deciso da Corte cost. 214/1991, che ha dichiarato parzialmente illegittimo l'art. 313 c.p.c. originario (Besso, Luiso, Tarzia). Secondo altri, invece, anche se il novellato art. 318 c.p.c. riproduce il contenuto del precedente art. 313 c.p.c., è necessaria una nuova pronuncia di incostituzionalità da parte della Consulta (Dittrich, Garbagnati, Mandrioli).
In ogni caso, in ottemperanza al principio della massima semplificazione delle forme del giudizio dinanzi al giudice di pace, è possibile integrare i fatti già dedotti e allegare fatti nuovi entro i limiti temporali previsti dall'art. 320 c.p.c. Pertanto, l'atto di citazione deve ritenersi nullo solo nel caso in cui, per la mancata o incompleta esposizione dei fatti, non sia possibile l'instaurazione del contraddittorio (Cass. civ., 30 aprile 2005, n. 9025; Cass. civ., 13 aprile 2005, n. 7685).
Come la costante giurisprudenza conferma, non è prescritto in questo tipo di procedimento, tra gli elementi che l'atto introduttivo deve necessariamente contenere, l'avvertimento circa le conseguenze della costituzione tardiva del convenuto (art. 163, n. 7, c.p.c.), non operando le decadenze relative agli atti introduttivi (Cass. civ., 11 luglio 2003, n. 10909; Cass. civ., 2 giugno 1999, n. 5342).
I termini minimi di comparizione delle parti sono ridotti alla metà rispetto a quelli previsti dall'art. 163-bis c.p.c., ossia sono pari a 45 giorni, se la citazione va notificata in Italia, ed a 75 giorni, se va notificata all'estero (art. 318, comma 2, c.p.c.). L'assegnazione alla parte nell'atto di citazione di un termine a comparire inferiore a quello previsto dall'art. 318 produce la nullità della citazione ex art. 164, comma 1, c.p.c., che va rilevata d'ufficio dal giudice, a pena di nullità della sentenza (Cass. civ., 5 maggio 2009, n. 10307; Cass. civ., 12 aprile 2006, n. 8523; Cass. civ., 9 agosto 2005, n. 16752, secondo cui tale nullità non è sanata per effetto dell'integrazione del termine conseguente al rinvio d'ufficio dell'udienza di comparizione per non esservi udienza nel giorno fissato nell'atto di citazione). Nei procedimenti introdotti con ricorso, invece, l'erronea indicazione nell'atto introduttivo dell'ufficio giudiziario adìto non è causa di nullità, poiché il deposito dell'atto nella cancelleria e il decreto di fissazione dell'udienza di discussione escludono che il convenuto, cui ricorso e decreto sono notificati, possa essere incerto circa il giudice davanti al quale deve comparire, che va identificato necessariamente in quello dinanzi a cui la causa è stata così radicata (Cass. civ., 3 ottobre 2019, n. 24666, in relazione al procedimento di opposizione al decreto di espulsione ex artt. 702-bis c.p.c. e 18 d.lgs. n. 150/2011).
Se nel giorno fissato nella citazione il giudice non tiene udienza, la comparizione è rinviata automaticamente alla prima udienza successiva (art. 318, comma 3, c.p.c.), senza alcun obbligo di comunicazione da parte del cancelliere (Cass. civ., 14 novembre 2014, n. 24294).
Si ritiene che il rinvio operato all'art. 163-bis c.p.c. non sia limitato al comma 1, bensì esteso all'intero articolo, con la conseguente ammissibilità di una abbreviazione dei termini a comparire.
Poiché l'art. 319 c.p.c. consente alle parti di costituirsi in cancelleria o in udienza, garantendo loro libertà di forme, ben può il convenuto considerarsi esonerato dall'onere di presentare la comparsa di costituzione (Cass. civ., 29 marzo 2006, n. 7238).
In ogni caso, il convenuto che intenda chiamare in causa un terzo ha l'onere di costituirsi nel termine di rito e, a pena di decadenza, di farne esplicita richiesta nell'atto di costituzione, chiedendo, nel contempo, il differimento della prima udienza, a cui il predetto giudice deve dar luogo anche nel caso in cui lo stesso convenuto si costituisca direttamente alla prima udienzae si renda necessario provvedervi in base all'attività svolta dalle parti in tale udienza. Al di fuori di dette situazioni processuali al convenuto non è consentito di invocare la chiamata in causa di un terzo all'udienza successiva alla prima che eventualmente venga celebrata, ostandovi la struttura concentrata e tendenzialmente completa dell'udienza prevista dall'art. 320 c.p.c., tesa a compendiare le fasi di trattazione preliminare, istruttoria e conclusiva (Cass. civ., 30 marzo 2022, n. 10189; Cass. civ., 10 aprile 2008, n. 9350; Cass. civ., 5 agosto 2005, n. 16578). In senso contrario, Cass. civ., 5 marzo 2002, n. 3156 ha sostenuto che la previsione della decadenza dalla possibilità di chiamare in causa un terzo se il convenuto non ne manifesti l'intenzione nella comparsa di risposta, non si applica nel procedimento davanti al giudice di pace, trattandosi di decadenza ricollegabile in tale procedimento soltanto alla prima udienza e non ad un termine o difesa anteriore (cfr. anche Cass. civ., 7 luglio 2005, n. 14314).
Anche nell'opposizione a decreto ingiuntivo innanzi al giudice di pace, l'opponente che intenda chiamare un terzo in causa, avendo posizione di convenuto, deve farne richiesta nell'atto di opposizione, a pena di decadenza, non potendo formulare l'istanza direttamente in prima udienza (Cass. civ., 14 maggio 2014, n. 10610).
Infine, l'intervento ad adiuvandum è possibile fino all'udienza di precisazione delle conclusioni e subisce limiti e preclusioni fin dalle udienze (la prima ed eventualmente la seconda) previste dall'art. 320, comma 3 e 4, c.p.c., in relazione all'art. 268 comma 2 (Giudice di Pace Casamassima 23-11-2002, A. g. circ. 03, 130). La fase istruttoria
Nella prima udienza effettiva, il giudice di pace deve procedere all'interrogatorio libero delle parti personalmente, se presenti, o dei loro rappresentanti. La mancata comparizione personale delle parti non è sanzionabile in alcun modo, pur potendo il giudice ordinarne la comparizione ex art. 317, comma 1, c.p.c.
Il giudice deve, innanzitutto, tentare la conciliazione delle parti (art. 320, comma 1, c.p.c.). Se la conciliazione riesce, viene predisposto un verbale che, ai sensi dell'art. 185 c.p.c., costituisce titolo esecutivo (art. 320, comma 2, c.p.c.).
Comunque, l'omissione dell'obbligatorio tentativo di conciliazione delle parti non determina la nullità del giudizio, a meno che non abbia comportato, in concreto, un pregiudizio del diritto di difesa (Cass. civ., 11 maggio 2010, n. 11411; Cass. civ., 8 ottobre 2004, n. 20074). Ovviamente tale tentativo di conciliazione non è dovuto quando sia stato precluso dalla ingiustificata assenza di una delle parti a tale udienza (Cass. civ., 19 agosto 2011, n. 17437).
Se la conciliazione non riesce, il giudice di pace prosegue il giudizio, e cioè:
Va precisato, inoltre, che la prima udienza costituisce anche il termine entro il quale può essere proposta una domanda riconvenzionale da parte del convenuto (Cass. civ., 6 settembre 2017, n. 20840; Cass. civ., 17 aprile 2013, n. 9359) e può essere richiesta la chiamata in causa di un terzo da parte dell'attore (argomentando ex art. 183, comma 5, c.p.c.). Ne consegue che al convenuto contumace, che si costituisce in seconda udienza, è preclusa la proposizione della domanda riconvenzionale, anche nel caso in cui il rinvio sia stato effettuato a norma dell'art. 181 c.p.c. (Cass. civ., 18 gennaio 2019, n. 1419; Cass. civ., 5 marzo 2004, n. 4529; Cass. civ., 8 agosto 2003, n. 11946), salvo che non sia stato rimesso in termini ex art. 294 c.p.c. (Cass. civ., 29 gennaio 2003, n. 1287), essendogli consentito svolgere unicamente attività difensive, tendenti alla mera contestazione delle pretese avversarie e delle prove addotte a sostegno delle medesime; l'inammissibilità della domanda riconvenzionale va rilevata d'ufficio, anche in caso di acquiescenza dell'altra parte (Cass. civ., 18 marzo 2008, n. 7270).
In ogni caso, deve essere concesso un rinvio all'attore, ove lo richieda, per poter replicare alla domanda riconvenzionale del convenuto (Cass. civ., 21 aprile 2016, n. 8108; C. cost. 12 novembre 2002, n. 447).
In sostanza, dopo la prima udienza (da intendere come udienza effettiva: Cass. civ., 27 aprile 2007, n. 10032), in cui il giudice invita le parti a “precisare definitivamente i fatti”, non è più possibile proporre nuove domande o eccezioni (come quella di prescrizione: Cass. civ., 4 gennaio 2010, n. 18; Cass. civ., 3 dicembre 2007, n. 25185) e allegare a fondamento di esse nuovi fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi, né tale preclusione è disponibile dal giudice di pace mediante un rinvio della prima udienza, per consentire tali attività oramai precluse, e parimenti l'omissione da parte del giudice del predetto formale invito non impedisce la verificazione della preclusione (Cass. civ., 16 maggio 2008, n. 12454). L'espressione “precisazione dei fatti” è comprensiva della possibilità di allegazione di fatti nuovi o di modificazione delle domande ed eccezioni già formulate (emendatio libelli); fino al momento di tale precisazione, l'attore può proporre nuove domande ed eccezioni solo se queste siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto (reconventio reconventionis), e può altresì chiedere di chiamare in causa un terzo, se il relativo interesse è sorto dalle difese del convenuto.
In ogni caso, la parte decade dalla facoltà di chiedere l'ammissione delle prove se non ne fa richiesta entro l'udienza di comparizione (Cass. civ., 15 dicembre 2003, n. 19186); analogamente, l'assenza della parte interessata alla prima udienza di trattazione si risolve nella decadenza dalla prova medesima (Cass. civ., 22 maggio 2006, n. 11973).
E', inoltre, preclusa alle parti la possibilità di produrre documenti in udienza successiva alla prima, che non sia stata fissata a norma del quarto comma dell'art. 320 c.p.c. (Cass. civ., 18 gennaio 2019, n. 1419; Cass. civ., 21 dicembre 2011, n. 27925; Cass. civ., 25 agosto 2006, n. 18498; Cass. civ., 13 maggio 2003, n. 7291), fattispecie peraltro non configurabile rispetto ad un presupposto di proponibilità della domanda, per il quale la documentazione deve essere prodotta già con l'atto introduttivo (Cass. civ., 3 agosto 2017, n. 19359, la quale ha confermato la sentenza di merito che, in accoglimento dell'eccezione del convenuto, aveva dichiarato improponibile, ai sensi dell'art. 145 d.lgs. n. 209/05, la domanda di risarcimento del danno derivante da un incidente stradale, per difetto di prova della messa in mora della società assicuratrice per la r.c.a., non essendo utilizzabile allo scopo la documentazione prodotta oltre la prima udienza tenuta dal giudice di pace). Infatti, l'art. 320, comma 3, nel prevedere che alla prima udienza le parti precisano definitivamente i fatti posti a base delle domande ed eccezioni, stabilisce un'implicita decadenza, giacché il rinvio ad un'udienza successiva è consentito dal comma quarto soltanto per ulteriori produzioni e richieste di prova (Cass. civ., 10 aprile 2008, n. 2350; Cass. civ., 5 marzo 2004, n. 4529). Ovviamente, il deposito tardivo di un documento non infirma la validità della sentenza, ove di esso il giudicante non abbia tenuto alcun conto (Cass. civ., 2 dicembre 1998, n. 12245).
Tuttavia, poiché tale preclusione concerne la facoltà di prova delle parti, e non si estende ai poteri istruttori che il giudice può esercitare d'ufficio, è liberamente utilizzabile dal giudice di pace il verbale redatto dalle autorità di polizia in occasione di un incidente stradale, richiesto ex art. 213 c.p.c. dal giudice stesso, anche se depositato soltanto nell'ultima udienza (Cass. civ., 13 maggio 2003, n. 7291). Al giudice di pace sono, altresì, ritenute applicabili le disposizioni dell'art. 281-ter c.p.c., sulla formulazione d'ufficio della prova testimoniale, e dell'art. 203 c.p.c., sulla prova delegata.
In applicazione dei predetti principi, secondo la casistica giurisprudenziale, non è, quindi, possibile: 1) indicare il teste da escutere quando siano già maturate le preclusioni istruttorie (Cass. civ., 31 maggio 2010, n. 13250); 2) eccepire o rilevare d'ufficio l'incompetenza per materia, per valore e per territorio inderogabile (ossia nei casi previsti dall'art. 28 c.p.c.) oltre la prima udienza (Cass. civ., 23 aprile 2010, n. 9754; Cass. civ., 4 maggio 2005, n. 9219; Cass. civ., 7 luglio 2004, n. 12476); 3) produrre un documento unitamente alla comparsa conclusionale all'udienza di precisazione delle conclusioni (Cass. civ., 27 maggio 2005, n. 11274).
Inoltre, le parti, qualora siano state invitate, ai sensi dell'art. 320 c.p.c., a precisare le conclusioni di merito, devono formulare anche le richieste di prova testimoniale o di esibizione di documenti, pure se la causa sia stata rimessa in decisione per la definizione di una questione preliminare di merito o di una pregiudiziale, giacché in tali casi, ai sensi dell'art. 187 c.p.c., il giudice è investito del potere di decidere l'intera controversia, eventualmente allo stato delle risultanze esistenti in mancanza di conclusioni istruttorie (Cass. civ., 30 luglio 2004, n. 14596).
Analogamente, qualora le parti, mediante ripetuti rinvii da loro richiesti “per deliberare”, siano state poste in grado di allegare i fatti e svolgere le proprie difese, deve escludersi che sussista violazione dell'art. 320 c.p.c., ancorché sia mancato un invito formale a produrre i documenti e a richiedere i mezzi di prova da assumere. Pertanto, ove il giudice, su richiesta congiunta delle parti, ritenendo la causa matura per la decisione, abbia fissato l'udienza di precisazione delle conclusioni e discussione, risulta tardiva la produzione di documenti in detta udienza (Cass. civ., 17 aprile 2002, n. 5482).
Occorre precisare che, in virtù del rinvio integrativo di cui all'art. 311 c.p.c., l'assunzione di prove, in mancanza di specifiche disposizioni, è regolata dalla disciplina dettata per l'istruzione probatoria nel procedimento innanzi al tribunale in composizione monocratica (v. art. 281-bis c.p.c.).
In virtù del principio di concentrazione, che caratterizza il giudizio in esame, il giudice può assumere le prove in prima udienza ed invitare le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa nella stessa udienza (Cass. civ., 12 aprile 2005, n. 7527). Da ciò deriva che, ove in tale udienza sia stata prodotta una scrittura privata e siano state altresì precisate le conclusioni (senza che nessuna delle parti abbia chiesto un rinvio per esame), il relativo disconoscimento (che deve avvenire nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione ex art. 215 c.p.c.) non può che ritenersi definitivamente precluso, in quanto esso avrebbe potuto trovar luogo soltanto in sede di precisazione delle conclusioni, costituendo tale momento processuale, di necessità (e segnatamente in assenza di un'udienza successiva), la prima risposta successiva alla produzione, utile alla contestazione de qua (Cass. civ., 17 settembre 2004, n. 18748). In ogni caso, sempre in ossequio al principio di concentrazione, è previsto che l'assunzione dei mezzi di prova avvenga non oltre la terza udienza successiva a quella in cui gli stessi sono stati ammessi o alla comunicazione dell'ordinanza di ammissione, se questa non è stata pronunciata in udienza (art. 60 disp. att. c.p.c.).
Le suindicate preclusioni processuali non sono derogabili nemmeno da parte del giudice di pace, che non può rinviare la prima udienza al fine di consentire alle parti l'espletamento di attività precluse, trovando tale sistema fondamento e ragione nell'esigenza di garantire la celerità e la concentrazione dei procedimenti civili, a tutela non solo dell'interesse del singolo ma anche di quello della collettività (Cass. civ., 29 marzo 2006, n. 7238). La maggiore snellezza del rito da osservare, quindi, non comporta deroghe al sistema delle preclusioni delineato dalla disciplina del giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica - cui l'art. 311 c.p.c. rinvia - né in particolare al divieto di proporre domande nuove, né la natura eventualmente equitativa della decisione, ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c., esime il giudice dal rispetto delle norme di carattere processuale, concernendo esclusivamente il diritto sostanziale (Cass. civ., 21 aprile 2008, n. 10331).
Tuttavia, si è ritenuto che non violi i principi informatori del processo il giudice di pace che, all'udienza di rinvio fissata per la comparizione delle parti e l'esperimento del tentativo di conciliazione, disponga, anche in mancanza di istanza di parte al riguardo, un ulteriore rinvio per consentire alle parti l'articolazione di mezzi istruttori (Cass. civ., 8 marzo 2005, n. 5012).
La disciplina di cui all'art. 320 c.p.c. non comporta alcuna deroga al principio della revocabilità di tutte le ordinanze - salvo quelle espressamente dichiarate non revocabili - da parte del giudice che le ha emesse; ne consegue che l'ordinanza istruttoria relativa all'ammissione delle prove non rientra tra le ordinanze non revocabili ai sensi del terzo comma dell'art. 177 c.p.c., anche qualora sia emessa nel corso di un procedimento davanti al giudice di pace, posto che nessuna delle norme che disciplinano tale procedimento è in contrasto con il predetto principio, né quest'ultimo è logicamente o giuridicamente incompatibile con il giudizio che si svolge dinanzi al predetto giudice (Cass. civ., 10 dicembre 2009, n. 25825).
Il Giudice di pace può, altresì, ordinare la chiamata in causa del terzo ex art. 107 c.p.c. in ogni momento del giudizio di primo grado, senza limiti di tempo, e quindi anche dopo l'esaurimento dell'istruttoria orale, non essendo al riguardo vincolato dalle preclusioni in cui siano eventualmente incorse le parti originarie per effetto dell'art. 320 (Cass. civ., 19 gennaio 2004, n. 707).
In definitiva, il legislatore sembra aver previsto un regime preclusivo anche più severo di quello stabilito per il processo innanzi al tribunale, in quanto è imposto l'onere di completare entro la prima udienza la proposizione delle domande, l'allegazione dei fatti, la produzione dei documenti e le richieste istruttorie. La fase decisoria
Quando la causa è matura per la decisione, il giudice di pace deve invitare le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa. Entro 15 giorni (termine ordinatorio) dall'udienza di discussione, la sentenza deve essere depositata in cancelleria (art. 321 c.p.c.). Si è in proposito precisato che la violazione del termine di quindici giorni per il deposito della sentenza non determina nullità della stessa, né è ipotizzabile il potere della Corte di cassazione, investita del ricorso avverso tale pronuncia, di promuovere procedimento disciplinare a carico dell'estensore della decisione stessa (Cass. civ., 14 dicembre 2004, n. 23240).
La fase decisoria innanzi al giudice di pace, dunque, prevede, da un lato, l'oralità della discussione, dall'altro la non immediatezza della pronuncia (come nel processo innanzi al tribunale).
Nel silenzio del legislatore, nulla vieta al giudice di pace di differire la discussione ad altra udienza (successiva a quella di precisazione delle conclusioni) e di autorizzare le parti a discutere la causa sulla base di difese scritte, quando ne ravvisi l'opportunità.
In ogni caso, non trova applicazione la procedura dello scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica di cui all'art. 190 c.p.c., in attuazione del suddetto principio dell'oralità e della concentrazione, sebbene il giudice possa autorizzare le parti al deposito di memorie conclusionali (Cass. civ., 31 luglio 2006, n. 17444, in ordine alle conseguenze della mancata concessione del termine per il deposito di tali memorie). La concessione a entrambe le parti, da parte del giudice di pace, di un termine di dieci giorni, a decorrere da quello di precisazione delle conclusioni, per il deposito di note illustrative, non determina, di per sé, alcuna violazione del contraddittorio sanzionata da nullità (Cass. civ., 1° agosto 2006, n. 17482).
Il giudice di pace, pur non essendo obbligato a fissare una particolare udienza per la precisazione delle conclusioni, deve, però, pur sempre consentire alle parti tale imprescindibile attività processuale, e non può, a pena di nullità per violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., pronunciare sentenza subito dopo essersi riservato di provvedere sulle deduzioni delle medesime, senza averle previamente invitate a precisare, nella stessa o in una successiva udienza, le rispettive conclusioni (Cass. civ., 23 luglio 2002, n. 10753).
Invero, la decisione della causa che non sia stata preceduta dalla precisazione delle conclusioni definitive, istruttorie e di merito, né dal semplice invito a provvedervi rivolto dal giudice alle parti, comporta la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa; tale nullità, peraltro, non rientrando tra quelle tassativamente previste dall'art. 354 c.p.c. che impongono la rimessione della causa al giudice di primo grado, comporta che, in caso di omessa pronuncia del giudice di appello sulla relativa questione, ritualmente sollevata con l'atto d'impugnazione, la causa debba essere rimessa al giudice di secondo grado, il quale deve decidere nel merito previa rinnovazione degli atti nulli, cioè ammettendo le parti a svolgere tutte quelle attività che, in conseguenza della nullità, sono state loro precluse (Cass. civ., 23 dicembre 2011, n. 28681; Cass. civ., 10 marzo 2006, n. 5225). È sufficiente, però, che nel verbale d'udienza siano effettivamente riportate le conclusioni, a nulla rilevando l'omessa trascrizione a verbale dell'invito del giudice a precisarle (Cass. civ., 2 febbraio 2004, n. 1812).
Al termine eventualmente concesso per il deposito di note conclusive e del fascicolo di parte si applica la sospensione feriale dei termini processuali (Cass. civ., 1° dicembre 2003, n. 18303).
Se è proposta querela di falso, il giudice di pace, quando ritiene il documento impugnato rilevante per la decisione, sospende il giudizio e rimette le parti davanti al tribunale per il relativo procedimento, attesa la competenza funzionale di quest'ultimo in composizione collegiale. Può anche disporre a norma dell'art. 225, comma 2, c.p.c. (art. 313 c.p.c.). Spetta, comunque, al giudice di pace, dinanzi al quale la querela sia proposta, anche se privo della competenza a conoscerne, autorizzare o meno la presentazione della querela sulla base del motivato esame delle condizioni di ammissibilità della stessa, alla stregua del disposto degli artt. 221 e 222 c.p.c. (Cass. civ., 28 settembre 2006, n. 21062; Cass. civ., 8 marzo 2005, n. 5040). Il provvedimento di rimessione stabilirà il termine di riassunzione della causa davanti al tribunale (art. 65 disp. att. c.p.c.). Ovviamente, il procedimento dinanzi al giudice di pace, pur a seguito della rimessione della querela al tribunale, potrà proseguire qualora vi siano altre domande che possono essere decise indipendentemente dal documento impugnato.
Va precisato che il giudice di pace decide secondo equità le cause di valore non superiore ad € 1.100, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi ai sensi dell'art. 1342 c.c. (art. 113, comma 2, c.p.c.). I contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 c.c. sono i cosiddetti contratti di massa, ossia quelli conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari. La ragione della loro esclusione dal giudizio d'equità discende dall'esigenza di assicurare uniformità nelle pronunce relative a identiche fattispecie contrattuali, uniformità che potrebbe essere compromessa dalla discrezionalità connaturata al tipo di giudizio. Dunque, onde evitare pericolose disparità di trattamento, le controversie derivanti dai contratti di massa devono essere decise secondo diritto, anche se di valore non superiore a 1.100 euro.
Inoltre, nel caso in cui siano proposte al giudice di pace domanda principale di valore non eccedente i limiti previsti per la decisione secondo equità e domanda riconvenzionale, connessa con quella principale a norma dell'art. 36 c.p.c., la quale, pur rientrando nella competenza del giudice di pace, superi il limite di valore fissato dalla legge per le pronunce di equità, l'intero giudizio deve essere deciso secondo diritto, con la conseguenza che il mezzo di impugnazione della sentenza è, non già il ricorso per cassazione, ma l'appello (Cass. civ., 17 gennaio 2007, n. 967).
La riforma del processo civile
In attuazione dei principi contenuti nella delega di cui alla l. n. 206/2021, il d.lgs. n. 149/2022 ha riscritto il giudizio dinanzi al giudice di pace, intervenendo sugli artt. 316, 317, 318, 319, 320 e 321 c.p.c.
La novità più significativa è che, per tale giudizio, verranno applicate, nei limiti della compatibilità, le forme del procedimento semplificato di cognizione di cui agli artt. 281-decies e ss c.p.c., sicché la domanda deve essere proposta con ricorso, e non più con atto di citazione. Alla prima udienza, fermo restando l'obbligo di procedere al tentativo di conciliazione, il giudice di pace deve osservare il disposto dell'art. 281-duodecies c.p.c., che prevede che si proceda all'istruttoria necessaria o si mandi la causa in decisione. Il modello decisorio è identico a quello previsto per la decisione a seguito di discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c. dinanzi al tribunale in composizione monocratica. Inoltre, anche per il giudice di pace troveranno applicazione le disposizioni sul processo civile telematico, sicché, in previsione di ciò, sono stati apportati i relativi adattamenti alle norme del codice di rito. L'estensione del nuovo “procedimento semplificato di cognizione” al giudizio dinanzi al giudice di pace trova probabilmente giustificazione nella tendenziale natura non particolarmente complessa sia del contenzioso, che della relativa istruttoria. Tuttavia, il contestuale ampliamento, operato dalla riforma, della competenza per valore del giudice di pace, unito al futuro ampliamento anche della sua competenza per materia (con l'assegnazione allo stesso, ad es., anche del contenzioso condominiale), potrebbe non contemperarsi con le esigenze di semplificazione e deformalizzazione che hanno da sempre caratterizzato il procedimento dinanzi al giudice di pace, con un concreto rischio di ingolfamento di quest'ufficio giudiziario.
In conclusione
L'ufficio del giudice di pace è prossimo ad una svolta epocale. Il regime delle preclusioni che attualmente lo caratterizza subirà uno stravolgimento dovuto all'introduzione del nuovo “procedimento semplificato di cognizione”, anche nelle cause dinanzi alla magistratura onoraria, senza che quest'ultima abbia il tempo di beneficiare di un periodo di rodaggio del nuovo rito presso il tribunale.
Occorrerà, quindi, confrontarsi, nei giudizi dinanzi al giudice di pace, con le nuove problematiche interpretative ed applicative (a cominciare dalla diversa forma di introduzione della causa con ricorso, anziché con citazione) che pone il nuovo rito semplificato, il quale, a sua volta, ricalcando solo in parte l'attuale rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis e ss c.p.c., non consente di giovarsi appieno degli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza in ordine a quest'ultimo.
A ciò si aggiungeranno le problematiche poste dall'introduzione anche del processo civile telematico e della giustizia digitale, con possibilità di applicazione dei riti alternativi di trattazione delle udienze, ossia in forma scritta telematica e con collegamenti da remoto. Il tutto comporterà non solo un radicale mutamento delle regole procedurali e dei ritmi del processo, ma anche, inevitabilmente, un cambiamento di mentalità da parte del giudice di pace, chiamato ad adeguarsi al mutato modo di intendere la sua giurisdizione. |