La società di consulenza fiscale risponde dei danni cagionati per imperizia o negligenza del socio

17 Gennaio 2023

In una recente sentenza la Cassazione ha affermato la responsabilità di una società di consulenza fiscale per condotte negligenti poste in essere dal suo socio e amministratore unico, unico soggetto in possesso dei requisiti professionali per lo svolgimento dell'attività di assistenza fiscale e tributaria
Massima

La società che presta assistenza fiscale è tenuta a risarcire il cliente che ha subito l'irrogazione di sanzioni per violazioni tributarie a causa della negligenza con cui uno dei soci ha svolto l'incarico professionale.

Il caso

La vicenda in commento prende le mosse da una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza in capo ad una società, da cui era scaturito un atto di accertamento ed irrogazione di sanzioni tributarie in conseguenza degli errori compiuti nella consulenza fiscale e nell'elaborazione delle dichiarazioni reddituali, effettuate da uno dei soci della società di consulenza (che era anche amministratore della stessa). Conseguentemente la Società cliente proponeva domanda risarcitoria presso il Giudice di Pace nei confronti dello Studio Alfa s.r.l., a titolo di inadempimento contrattuale in ordine agli obblighi di consulenza fiscale e tributaria.

Il Giudice di merito accoglieva le richieste attoree, condannando la società al risarcimento del danno prodotto dalle condotte negligenti e imperite tenute da un singolo socio, condotte dalle quali era scaturito il predetto accertamento. La medesima sentenza veniva confermata in appello, provvedendo unicamente a ridurre l'ammontare del danno, precedentemente quantificato nella misura degli importi che la società cliente era stata costretta a versare in forza dell'avviso di accertamento ricevuto. Il Giudice di secondo grado appurava che lo Studio convenuto aveva erroneamente appostato, nella dichiarazione dei redditi della comunione ereditaria, una somma a titolo di costi, anziché a titolo di rimanenze iniziali derivanti alla continuità fiscale tra le imprese succedutesi nel tempo, errore commesso nell'esercizio di prestazioni professionali non richiedenti la soluzione di problemi di speciale difficoltà. Lo stesso Studio aveva, altresì, commesso errori di fatturazione; e di tali condotte rispondeva in primis il socio e amministratore unico dello Studio Alfa s.r.l., unico soggetto in possesso dei requisiti professionali per lo svolgimento dell'attività. Pertanto, ferma la responsabilità della Società convenuta, il Tribunale riduceva il quantum debeatur alla minor somma di € 1.714,02 e ritenuto irrilevante che la parte attrice non avesse aderito al pagamento in misura ridotta, avendo impugnato l'avviso di accertamento.

Avverso tale decisione la società soccombente proponeva ricorso per Cassazione, affidandolo a cinque motivi di doglianza fra cui, nello specifico la violazione dell'art. 112 c.p.c., per violazione del principio di corrispondenza fra il petitum e il decisum da parte dei Giudici di merito, nella misura in cui gli stessi avevano condannato al risarcimento la società sebbene fosse stato accertato che la responsabilità dipendesse unicamente da condotte addebitabili, per imperizia e negligenza, ad un singolo socio, nonché la violazione o falsa applicazione della legge (art. 360, co. 1 c.p.c.), laddove la sentenza correlava automaticamente la posizione di socio/amministratore alle ipotesi di responsabilità per fatto degli ausiliari in capo alla società;

La Suprema Corte, con l'ordinanza in commento, ha integralmente avallato la decisione del Giudice di merito, disattendendo così il ricorso per cassazione proposto nell'interesse della Società di consulenza fiscale.

La questione giuridica

La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire se la società che presti assistenza fiscale sia tenuta a risarcire il cliente che abbia subito l'irrogazione di sanzioni per violazioni tributarie a causa della negligenza con cui uno dei soci ha svolto l'incarico professionale.

Le soluzioni

Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituiti coinvolti nel caso in disamina.

A norma dell'art. 2236 c.c., (responsabilità del prestatore d'opera), se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.

L'obbligazione del prestatore d'opera intellettuale è sempre un'obbligazione di mezzi che ha per oggetto un comportamento diligente ed esperto, l'impiego di mezzi idonei a realizzare un risultato, ma non ha per oggetto la realizzazione del risultato. Da ciò deriva il diritto al compenso se egli ha agito con la diligenza e la perizia richieste, anche in caso di mancato conseguimento del risultato stesso.

In tal senso, il Giudice di legittimità ha precisato che il parametro della diligenza professionale fissato dall'art. 1176, comma 2, deve essere commisurato alla natura dell'attività esercitata, sicché per «diligenza professionale media» è da considerarsi quella posta nell'esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione media.

Nel caso in cui la prestazione professionale da eseguire in concreto riguardi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, la responsabilità del professionista è attenuata e si configura, ex art. 2236, solo nel caso di dolo o colpa grave (v. Cass. 10431/2000). Per l'attribuzione della responsabilità professionale, pertanto, devono preliminarmente individuarsi gli specifici obblighi che la legge o il contratto pongono a carico del professionista (v. Cass. 9877/2000).

La Cassazione ha chiarito che il professionista, nella prestazione della propria attività professionale, è obbligato ad usare la diligenza del buon padre di famiglia, ai sensi dell'art. 1176; la violazione di tale dovere comporta un inadempimento contrattuale, del quale il professionista risponde anche per colpa lieve (salvo nel caso in cui, a norma dell'art. 2236, la prestazione dedotta in contratto implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà) e, in applicazione del principio di cui all'art. 1460, la perdita del diritto al compenso (v. Cass. 15404/2002).

Il legislatore ha operato, pertanto, una netta distinzione: nella ipotesi di attività professionale ordinaria, la responsabilità del prestatore per inadempimento è sottoposta alla disciplina dettata dall'art. 1176, comma 2, c.c., dovendosi tenere in conto la specifica natura dell'attività dedotta in contratto; quando invece al professionista sia richiesto un impegno intellettuale superiore a quello professionale medio, l'inadempimento rilevante, tale da comportare la responsabilità del professionista, è solo quello qualificabile come risultato di dolo o colpa grave. Tale limitazione di responsabilità trova la sua ratio nell'esigenza di garantire al professionista un margine di libertà e di creatività, a scapito del cliente, il quale potrà trovarsi a pagare un compenso pur non avendo ottenuto il risultato sperato. Con riferimento all'attività forense, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, si presuppone la violazione di un dovere di diligenza, da commisurare, ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c., alla natura dell'attività esercitata (v. Cass. 23740/2018). L'imperizia del difensore è configurabile, allorché egli ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero risolva in modo errato questioni giuridiche prive di margine di opinabilità.

La responsabilità professionale dell'avvocato trova la sua fonte negli artt. 1176, 1218 e 2236 del codice civile.

Per valutare la diligenza dell'avvocato occorre fare riferimento non alla diligenza del buon padre di famiglia, ma al riferito parametro di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., ossia quello della diligenza professionale media esigibile (v. Cass. 7309/2017 e Cass. 2954/2016); la violazione di tale dovere comporta inadempimento contrattuale del quale il professionista è chiamato a rispondere anche per colpa lieve, salvo che nel caso in cui, a norma dell'art. 2236 c.c., la prestazione dedotta in contratto implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà (v. Cass. 21894/2016).

Atteso che il professionista non può garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali omissioni è ravvisabile solo se, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito, secondo un'indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per eventuali vizi di motivazione (v. Cass. 6967/2006). Nel caso specifico dell'avvocato, non basta l'errore o l'omissione ad integrare la responsabilità dell'avvocato, in quanto il cliente deve dare la prova che, in assenza di quella condotta (asseritamente colpevole), si sarebbe probabilmente verificato un esito diverso e più favorevole della lite (v. Cass. 22882/2016). Per poter essere risarcito da un avvocato che ha svolto con poca diligenza il mandato, quindi, il cliente non può limitarsi a dimostrare tale circostanza, ma deve provare che dallo scorretto adempimento dell'attività professionale gli è derivato un danno (v. Cass. 12038/2017).

Osservazioni

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso anche in relazione agli ulteriori motivi di doglianza, ha manifestato una posizione alquanto stringente nell'affermare la diretta responsabilità della società di consulenza fiscale e tributaria per il risarcimento del danno cagionato da imperizia o negligenza di un singolo socio.

Nel dettaglio, la Corte ha infatti sostenuto che – nel caso di specie, essendo il socio in questione unico soggetto in possesso dei requisiti professionali per lo svolgimento delle attività di consulenza fiscale dalle quali era conseguito il danno – le condotte di quest'ultimo non potevano non essere ricondotte alla società medesima, della quale lo stesso soggetto era socio nonché amministratore unico, di tal che le proprie condotte “non potevano di certo considerarsi estranee a quelle della società”.

La Suprema Corte ha ritenuto infondata la prospettazione di pare ricorrente, rilevando che l'incarico di tenuta delle scritture contabili era stato conferito dal cliente alla società: a fronte di tale circostanza, è dunque irrilevante il fatto che alcuni degli addebiti professionali fossero stati contestati al socio, quale soggetto in possesso di requisiti per l'esercizio della prestazione professionale richiesta.

Come sottolinea la pronuncia in commento, l'esercizio dell'attività professionale era nella specie pur sempre imputabile alla società, di cui il professionista era socio ed amministratore unico: la condotta di quest'ultimo doveva quindi ricondursi all'attività svolta nell'ambito della società, non potendo la stessa ritenersi estranea all'operato del professionista.

Si tratta, a ben vedere, di un principio analogo a quello previsto in caso di prestazione svolta da sostituti ed ausiliari del professionista, che avviene sotto la direzione e responsabilità del professionista medesimo: anche in tal caso, infatti, il soggetto cui è affidato l'incarico professionale rimane, nonostante l'altrui collaborazione, l'unico interlocutore del cliente e l'unico soggetto responsabile in caso di non corretto adempimento dell'incarico. Pertanto, la Suprema Corte conclude che “la sentenza impugnata ha, del tutto correttamente, considerato la responsabilità della società per condotte poste in essere dal suo socio e amministratore unico, unico soggetto in possesso dei requisiti professionali per lo svolgimento dell'attività di assistenza fiscale e tributaria”.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.