In principio era l'art. 18 St. Lav., che dal momento della sua entrata in vigore (maggio 1970) e per oltre quaranta anni ha rappresentato la norma cardine della tutela rispetto al licenziamento illegittimo, tutela basata sul meccanismo della reintegrazione nel posto di lavoro applicabile per qualsiasi vizio, sostanziale o formale, del licenziamento.
Alla c.d. tutela reale introdotta da tale norma si contrapponeva la c.d. tutela obbligatoria, prevista dall'art. 8 della l. n. 604/1966, che prevedeva una alternativa tra riassunzione e tutela indennitaria, e che era applicabile ai dipendenti di datori di lavori che non avessero, in particolare, il requisito dimensionale previsto per l'art. 18 St. Lav. [1].
La regola, introdotta nel 1970 dallo Statuto dei lavoratori, della tutela reintegratoria generalizzata, la cui applicabilità, in presenza di qualsiasi vizio del licenziamento, era sottoposta all'unica condizione della sussistenza del requisito dimensionale, ha trovato ulteriori conferme ed ampliamenti applicativi nei successivi interventi della Corte costituzionale e del legislatore.
Ed infatti nel 1982 una importantissima (per la sua rilevanza sistematica e applicativa) sentenza della Corte costituzionale (C. cost. n. 204/1982), nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dei commi primo, secondo e terzo dell'art. 7 (sanzioni disciplinari) St. Lav., interpretati nel senso che siano inapplicabili ai licenziamenti disciplinari, ha esplicitamente affermato la forza espansiva della disciplina dell'art. 18 St. Lav. (e pertanto della tutela reale ivi prevista). Ed infatti la suddetta declaratoria di incostituzionalità ha avuto l'effetto di estendere ai licenziamenti disciplinari le garanzie di natura procedimentale previste per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari conservative.
La forza espansiva dell'art. 18 è stata successivamente ribadita dalla stessa Corte costituzionale (C. cost. n. 17/1987) la quale, dopo aver enunciato il principio secondo cui la norma suddetta non si poneva, nell'ambito della disciplina del rapporto di lavoro, come norma speciale o eccezionale, ma, grazie alla forza espansiva di cui era dotata, doveva ritenersi applicabile anche a casi diversi da quelli dalla stessa espressamente contemplati, purché assimilabili sotto il profilo dell'identità di ratio, ha esteso la tutela reintegratoria anche ai casi di nullità del licenziamento configurabili ex art. 15 St. Lav. (come sostituito, nell'ultimo comma, dall'art. 13 della l. n. 903/1977) tra cui quello del licenziamento basato su discriminazione di genere [2].
La citata forza espansiva ha trovato, infine, ulteriore conferma nella legge n. 108/1990 che ha ampliato l'area di applicabilità della reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di illegittimità del licenziamento estendendola in primo luogo ai rapporti di lavoro con datori di lavoro non imprenditori, restando escluse solo le organizzazioni di tendenza (art. 4 della l. n. 108/1990) [3] e prevedendone altresì l'applicabilità generalizzata a tutti i datori di lavoro con più di sessanta dipendenti [4].
L'ambito di applicazione della tutela reale fin qui schematizzato non subisce rilevanti modificazioni fino al 2012, a seguito dell'entrata in vigore della legge Fornero (la già citata l. n. 92/2012) la quale interviene profondamente sull'assetto delle conseguenze del licenziamento illegittimo, con il dichiarato proposito di ridistribuire «in modo più equo le tutele dell'impiego» sostituendo al modello originario, incentrato sulla tutela reintegratoria, una articolazione della tutela basata su quattro differenti regimi: a. la tutela reintegratoria «piena»; b. la tutela reintegratoria «attenuata»; c. la tutela indennitaria «forte»; d. la tutela indennitaria «attenuata».
Si tratta, come è evidente, di un sistema di tutele differenziate, nel quale, come rilevato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2017, n. 30985), la reintegrazione ha perduto la sua centralità in favore della tutela indennitaria. Secondo le SSUU, infatti, il nuovo comma 5 dell'art. 18 deve ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale.
Il suddetto sistema è articolato come segue [5]:
a. regime della c.d. tutela reintegratoria «piena» (art. 18, commi 1 e 2), il quale prevede, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, il risarcimento integrale della perdita economica subita dal lavoratore (la relativa indennità non ha un limite massimo); esso si applica ai casi di licenziamento nullo elencati nel primo comma (fra i quali, oltre al licenziamento discriminatorio, il licenziamento per motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. che comprende ovviamente anche il licenziamento per ritorsione) ovvero il recesso dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. È da notare che tale regime si applica «al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore […] quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro», oltre che ai dirigenti, per cui prescinde dai requisiti dimensionali previsti per gli altri regimi di tutela;
b. regime della tutela reintegratoria «attenuata» (art. 18, commi 4 e 7), che prevede la reintegrazione accompagnata da un'indennità che non può superare le 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; esso si applica quando il giudice accerti che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro e ritenga l'insussistenza del fatto contestato, ovvero accerti che il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base della previsione dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili; nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la norma, nella sua formulazione originaria (e quindi prima degli interventi della Corte costituzionale, di cui si dirà successivamente) stabiliva che la reintegrazione “può essere disposta dal giudice nel caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento stesso” (comma settimo) (i neretti indicano le parole espunte dalla Corte costituzionale); altri casi di regime reintegratorio attenuato sono previsti per difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli artt. 4, c. 4, e 10, c. 3, della l. 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore ovvero per licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, c. 2, c.c.;
c. tutela indennitaria «forte» (art. 18, commi 5 e 7) la quale prevede la risoluzione del rapporto di lavoro e la corresponsione della sola indennità compresa tra 12 e 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; si applica tale tutela in tutte le altre ipotesi in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo o oggettivo di licenziamento;
d. tutela indennitaria «attenuata» (art. 18, comma 6) che prevede la corresponsione di una indennità compresa tra 6 e 12 mensilità di retribuzione; essa è prevista per i casi di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, c. 2, della l. n. 604/1966, della procedura di cui all'art. 7 della l. n. 300/1970 o della procedura di cui all'art. 7 della l. n. 604/1966.
La linea di confine tra i vari regimi non è sempre agevole da tracciare, anche in ragione della matrice compromissoria della riforma.
Alla nuova disciplina continua ad affiancarsi la tutela c.d. obbligatoria prevista per le imprese minori (prive cioè del requisito dimensionale al quale si è accennato in precedenza).
Successivamente la legge 10 dicembre 2014, n. 183, al dichiarato «scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione», ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, «in coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni internazionali», nel rispetto dei principi e criteri direttivi della «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
In attuazione della delega è stato emanato il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, contenente «Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti» (cd. Jobs Act) volte a disciplinare le conseguenze derivanti da licenziamenti illegittimi per i lavoratori, con «qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del […] decreto» (art. 1, c. 1, d.lgs. n. 23/2015). Ne deriva che la nuova disciplina si applica ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato instaurati a decorrere dal 7 marzo 2015, mentre per quelli assunti prima di tale data continua ad applicarsi il regime dell'art. 18 della l. n. 300/1970, come modificato dalla l. n. 92/2012.
È da notare che la Corte costituzionale (C. cost. n. 194/2018), con una sentenza molto importante anche sotto altri profili, sui quali si tornerà nei paragrafi che seguono, ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità sollevata in relazione alla sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo (in relazione al diverso regime applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015). In particolare ha affermato, con riferimento al regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23/2015, che, «poiché l'introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare l'applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita».
Il d.lgs. n. 23/2015 conferma, anche per i «nuovi» contratti, l'impianto delle tutele differenziate introdotto dalla legge Fornero: a) un regime di tutela reintegratoria «piena» (art. 2) nei casi di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale [6]; è da notare che tale regime si applica senza distinzioni riferibili alla dimensione aziendale [7]; b) un regime di tutela reintegratoria «attenuata» (art. 3, c. 2) nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore [8]; c) un regime di tutela indennitaria forte (art. 3, c. 1) in tutti i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e negli altri casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa [9]; d) un regime di tutela indennitaria «attenuata» (art. 4) in caso di licenziamento illegittimo per vizi formali e procedurali [10].
La novità, rispetto alla legge Fornero, sta nel fatto che si ridefiniscono i confini di questi quattro regimi di tutela in termini di ulteriore limitazione dell'ambito di applicazione della reintegrazione nel posto di lavoro; inoltre viene previsto uno specifico meccanismo di calcolo dell'indennizzo che deve infatti essere determinato in misura proporzionatamente crescente con l'anzianità di servizio, sia pure entro un limite minimo e massimo.
Limitazioni ulteriori sono previste rispetto alle aziende di piccole dimensioni (art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015). Ad esse, infatti, non si applica il regime della reintegrazione attenuata, ma unicamente la tutela indennitaria; inoltre l'ammontare delle indennità è dimezzato e non può comunque superare le sei mensilità.
È da notare che la disciplina in questione trova integrale applicazione anche alle organizzazioni di tendenza (art. 9, comma 2, del d.lgs. in esame). Ne deriva che, per gli assunti, a partire dal 7 marzo 2015, presso questa tipologia di datori di lavoro, cessa il peculiare regime in precedenza vigente, che rendeva inapplicabile la tutela reintegratoria. In definitiva [11] i dipendenti di tali organizzazioni, affrancati dalla tutela meramente obbligatoria, soggiacciono integralmente al nuovo regime di tutele introdotto dal d.lgs. n. 23/2015, che si differenziano solamente in relazione al numero dei dipendenti del datore di lavoro.
Sul meccanismo previsto dal d.lgs. n. 23/2015 è intervenuto il decreto legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella l. n. 96/2018, il cui art. 3, c. 1, ha elevato le misure minima e massima dell'indennità prevista da tale disposizione, rispettivamente, da quattro a sei e da ventiquattro a trentasei mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
La legge n. 92/2012 ha dettato una nuova disciplina anche con riferimento ai licenziamenti collettivi. In particolare, l'art. 1, c. 46 ha modificato profondamente l'originario testo dell'art. 5, c. 3, della legge n. 223/1991 introducendo nel sistema delle tutele una marcata diversificazione del regime sanzionatorio.
a. in caso di licenziamento intimato senza forma scritta permane la reintegrazione nel posto di lavoro con pagamento di una indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione dal lavoro, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali;
b. nell'ipotesi di violazione delle procedure di cui all'art. 4, comma 12, della l. n. 223/1991 (che si riferisce sia alle comunicazioni di cui al comma 9 dello stesso art. 4 - e cioè a quelle che il datore di lavoro deve inviare dopo aver comunicato il licenziamento ai lavoratori “eccedenti” -, sia a quelle di cui all'art. 4, comma 2, e cioè alle comunicazioni preventive con le quali si inizia la procedura di licenziamento collettivo), nonché di violazione delle procedure di cui all'art. 189, comma 6, del codice della crisi e dell'insolvenza (art. 368, comma 1, d.lgs. n. 14/2019) viene prevista una tutela indennitaria, determinata fra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto;
c. nel caso di violazione dei criteri di scelta è prevista la tutela reintegratoria c.d. “attenuata” (di cui all'art. 18, c. 4, St. Lav.); in sostanza, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, è prevista la condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.
Il d.lgs n. 23/2015 ha profondamente modificato tale disciplina.
Va precisato che anche tale nuova disciplina si applica solo ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 (avvenuta il 7 marzo 2015); per i lavoratori assunti prima della suddetta data si applica la disciplina prevista dalle norme precedenti.
La circostanza che il citato d.lgs. n. 23/2015 si è limitato a disciplinare ex novo, con riferimento ai licenziamenti collettivi, unicamente i profili sanzionatori, implica l'applicabilità, anche ai nuovi assunti, della disciplina procedimentale e dei criteri di scelta prevista dagli artt. 4 e 5 della l. n. 223/1991.
In particolare:
a. nelle ipotesi di licenziamento (collettivo) intimato senza l'osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 (che disciplina le ipotesi di “licenziamento intimato in forma orale” e quelle del licenziamento nullo in quanto discriminatorio) e quindi la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed il pagamento di un risarcimento del danno da liquidarsi nella misura pari a tutte le mensilità che lo stesso avrebbe dovuto percepire dalla data del licenziamento fino a quella dell'effettiva reintegrazione.
b. Ove ricorra l'ipotesi di violazione della procedura richiamata dall'art. 4, c. 12, della l. n. 223/1991 (nonché di violazione delle procedure di cui all'art. 189, comma 6, del codice della crisi e dell'insolvenza (art. 368, comma 2, d.lgs. n. 14/2019), ovvero quella della violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5, c. 1, della stessa legge, trova applicazione il regime sanzionatorio di cui all'art. 3, d.lgs. n. 23/2015, consistente in una indennità risarcitoria (non assoggettata a contribuzione previdenziale) quantificata, nell'ambito di un limite minimo di 4 e massimo di 24 mensilità di retribuzione, in misura pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione per ogni anno di servizio.
È stata sottolineata in dottrina [12] la singolarità della situazione che viene a crearsi con la sovrapposizione delle modifiche apportate alla disciplina prevista dalla legge n. 223/1991 dal citato art. 10, d.lgs. n. 23/2015 a quelle derivanti dall'entrata in vigore della legge Fornero; trattandosi infatti di discipline entrambe in vigore, potrà verificarsi l'ipotesi in cui, nell'ambito di una medesima procedura di licenziamento collettivo, i lavoratori licenziati siano sottoposti a una diversa disciplina concernente il regime di tutela a seconda della data della loro assunzione.