Il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo dopo i recenti interventi della Corte costituzionale

Vincenzo Di Cerbo
25 Gennaio 2023

A partire dalla cd. legge «Fornero», la disciplina delle conseguenze giuridiche previste per il licenziamento illegittimo è stata oggetto di importanti interventi del legislatore che hanno modificato profondamente il precedente assetto normativo.
Premessa

A partire dal 2012, e più precisamente dalla data di entrata in vigore della legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge «Fornero»), la disciplina delle conseguenze giuridiche previste per il licenziamento illegittimo è stata oggetto di importanti interventi del legislatore che hanno modificato profondamente il precedente assetto normativo fissato dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970, di seguito, St. Lav.) e dall'art. 8, legge n. 604/1966. La nuova disciplina è stata a sua volta oggetto di rilevanti interventi della Corte costituzionale che hanno introdotto significative modifiche all'assetto previsto dal legislatore.

Scopo di questo scritto è quello di ricostruire il quadro normativo risultante dai suddetti molteplici interventi, e di fornire quindi al lettore una bussola aggiornata per orientarsi nella complessa materia.

Cenni sulla evoluzione normativa in tema di disciplina del regime sanzionatorio concernente i licenziamenti illegittimi

In principio era l'art. 18 St. Lav., che dal momento della sua entrata in vigore (maggio 1970) e per oltre quaranta anni ha rappresentato la norma cardine della tutela rispetto al licenziamento illegittimo, tutela basata sul meccanismo della reintegrazione nel posto di lavoro applicabile per qualsiasi vizio, sostanziale o formale, del licenziamento.

Alla c.d. tutela reale introdotta da tale norma si contrapponeva la c.d. tutela obbligatoria, prevista dall'art. 8 della l. n. 604/1966, che prevedeva una alternativa tra riassunzione e tutela indennitaria, e che era applicabile ai dipendenti di datori di lavori che non avessero, in particolare, il requisito dimensionale previsto per l'art. 18 St. Lav. [1].

La regola, introdotta nel 1970 dallo Statuto dei lavoratori, della tutela reintegratoria generalizzata, la cui applicabilità, in presenza di qualsiasi vizio del licenziamento, era sottoposta all'unica condizione della sussistenza del requisito dimensionale, ha trovato ulteriori conferme ed ampliamenti applicativi nei successivi interventi della Corte costituzionale e del legislatore.

Ed infatti nel 1982 una importantissima (per la sua rilevanza sistematica e applicativa) sentenza della Corte costituzionale (C. cost. n. 204/1982), nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dei commi primo, secondo e terzo dell'art. 7 (sanzioni disciplinari) St. Lav., interpretati nel senso che siano inapplicabili ai licenziamenti disciplinari, ha esplicitamente affermato la forza espansiva della disciplina dell'art. 18 St. Lav. (e pertanto della tutela reale ivi prevista). Ed infatti la suddetta declaratoria di incostituzionalità ha avuto l'effetto di estendere ai licenziamenti disciplinari le garanzie di natura procedimentale previste per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari conservative.

La forza espansiva dell'art. 18 è stata successivamente ribadita dalla stessa Corte costituzionale (C. cost. n. 17/1987) la quale, dopo aver enunciato il principio secondo cui la norma suddetta non si poneva, nell'ambito della disciplina del rapporto di lavoro, come norma speciale o eccezionale, ma, grazie alla forza espansiva di cui era dotata, doveva ritenersi applicabile anche a casi diversi da quelli dalla stessa espressamente contemplati, purché assimilabili sotto il profilo dell'identità di ratio, ha esteso la tutela reintegratoria anche ai casi di nullità del licenziamento configurabili ex art. 15 St. Lav. (come sostituito, nell'ultimo comma, dall'art. 13 della l. n. 903/1977) tra cui quello del licenziamento basato su discriminazione di genere [2].

La citata forza espansiva ha trovato, infine, ulteriore conferma nella legge n. 108/1990 che ha ampliato l'area di applicabilità della reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di illegittimità del licenziamento estendendola in primo luogo ai rapporti di lavoro con datori di lavoro non imprenditori, restando escluse solo le organizzazioni di tendenza (art. 4 della l. n. 108/1990) [3] e prevedendone altresì l'applicabilità generalizzata a tutti i datori di lavoro con più di sessanta dipendenti [4].

L'ambito di applicazione della tutela reale fin qui schematizzato non subisce rilevanti modificazioni fino al 2012, a seguito dell'entrata in vigore della legge Fornero (la già citata l. n. 92/2012) la quale interviene profondamente sull'assetto delle conseguenze del licenziamento illegittimo, con il dichiarato proposito di ridistribuire «in modo più equo le tutele dell'impiego» sostituendo al modello originario, incentrato sulla tutela reintegratoria, una articolazione della tutela basata su quattro differenti regimi: a. la tutela reintegratoria «piena»; b. la tutela reintegratoria «attenuata»; c. la tutela indennitaria «forte»; d. la tutela indennitaria «attenuata».

Si tratta, come è evidente, di un sistema di tutele differenziate, nel quale, come rilevato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2017, n. 30985), la reintegrazione ha perduto la sua centralità in favore della tutela indennitaria. Secondo le SSUU, infatti, il nuovo comma 5 dell'art. 18 deve ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale.

Il suddetto sistema è articolato come segue [5]:

a. regime della c.d. tutela reintegratoria «piena» (art. 18, commi 1 e 2), il quale prevede, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, il risarcimento integrale della perdita economica subita dal lavoratore (la relativa indennità non ha un limite massimo); esso si applica ai casi di licenziamento nullo elencati nel primo comma (fra i quali, oltre al licenziamento discriminatorio, il licenziamento per motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. che comprende ovviamente anche il licenziamento per ritorsione) ovvero il recesso dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. È da notare che tale regime si applica «al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore […] quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro», oltre che ai dirigenti, per cui prescinde dai requisiti dimensionali previsti per gli altri regimi di tutela;

b. regime della tutela reintegratoria «attenuata» (art. 18, commi 4 e 7), che prevede la reintegrazione accompagnata da un'indennità che non può superare le 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; esso si applica quando il giudice accerti che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro e ritenga l'insussistenza del fatto contestato, ovvero accerti che il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base della previsione dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili; nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la norma, nella sua formulazione originaria (e quindi prima degli interventi della Corte costituzionale, di cui si dirà successivamente) stabiliva che la reintegrazione “può essere disposta dal giudice nel caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento stesso” (comma settimo) (i neretti indicano le parole espunte dalla Corte costituzionale); altri casi di regime reintegratorio attenuato sono previsti per difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli artt. 4, c. 4, e 10, c. 3, della l. 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore ovvero per licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, c. 2, c.c.;

c. tutela indennitaria «forte» (art. 18, commi 5 e 7) la quale prevede la risoluzione del rapporto di lavoro e la corresponsione della sola indennità compresa tra 12 e 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; si applica tale tutela in tutte le altre ipotesi in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo o oggettivo di licenziamento;

d. tutela indennitaria «attenuata» (art. 18, comma 6) che prevede la corresponsione di una indennità compresa tra 6 e 12 mensilità di retribuzione; essa è prevista per i casi di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, c. 2, della l. n. 604/1966, della procedura di cui all'art. 7 della l. n. 300/1970 o della procedura di cui all'art. 7 della l. n. 604/1966.

La linea di confine tra i vari regimi non è sempre agevole da tracciare, anche in ragione della matrice compromissoria della riforma.

Alla nuova disciplina continua ad affiancarsi la tutela c.d. obbligatoria prevista per le imprese minori (prive cioè del requisito dimensionale al quale si è accennato in precedenza).

Successivamente la legge 10 dicembre 2014, n. 183, al dichiarato «scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione», ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, «in coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni internazionali», nel rispetto dei principi e criteri direttivi della «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.

In attuazione della delega è stato emanato il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, contenente «Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti» (cd. Jobs Act) volte a disciplinare le conseguenze derivanti da licenziamenti illegittimi per i lavoratori, con «qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del […] decreto» (art. 1, c. 1, d.lgs. n. 23/2015). Ne deriva che la nuova disciplina si applica ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato instaurati a decorrere dal 7 marzo 2015, mentre per quelli assunti prima di tale data continua ad applicarsi il regime dell'art. 18 della l. n. 300/1970, come modificato dalla l. n. 92/2012.

È da notare che la Corte costituzionale (C. cost. n. 194/2018), con una sentenza molto importante anche sotto altri profili, sui quali si tornerà nei paragrafi che seguono, ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità sollevata in relazione alla sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo (in relazione al diverso regime applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015). In particolare ha affermato, con riferimento al regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23/2015, che, «poiché l'introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare l'applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita».

Il d.lgs. n. 23/2015 conferma, anche per i «nuovi» contratti, l'impianto delle tutele differenziate introdotto dalla legge Fornero: a) un regime di tutela reintegratoria «piena» (art. 2) nei casi di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale [6]; è da notare che tale regime si applica senza distinzioni riferibili alla dimensione aziendale [7]; b) un regime di tutela reintegratoria «attenuata» (art. 3, c. 2) nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore [8]; c) un regime di tutela indennitaria forte (art. 3, c. 1) in tutti i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e negli altri casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa [9]; d) un regime di tutela indennitaria «attenuata» (art. 4) in caso di licenziamento illegittimo per vizi formali e procedurali [10].

La novità, rispetto alla legge Fornero, sta nel fatto che si ridefiniscono i confini di questi quattro regimi di tutela in termini di ulteriore limitazione dell'ambito di applicazione della reintegrazione nel posto di lavoro; inoltre viene previsto uno specifico meccanismo di calcolo dell'indennizzo che deve infatti essere determinato in misura proporzionatamente crescente con l'anzianità di servizio, sia pure entro un limite minimo e massimo.

Limitazioni ulteriori sono previste rispetto alle aziende di piccole dimensioni (art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015). Ad esse, infatti, non si applica il regime della reintegrazione attenuata, ma unicamente la tutela indennitaria; inoltre l'ammontare delle indennità è dimezzato e non può comunque superare le sei mensilità.

È da notare che la disciplina in questione trova integrale applicazione anche alle organizzazioni di tendenza (art. 9, comma 2, del d.lgs. in esame). Ne deriva che, per gli assunti, a partire dal 7 marzo 2015, presso questa tipologia di datori di lavoro, cessa il peculiare regime in precedenza vigente, che rendeva inapplicabile la tutela reintegratoria. In definitiva [11] i dipendenti di tali organizzazioni, affrancati dalla tutela meramente obbligatoria, soggiacciono integralmente al nuovo regime di tutele introdotto dal d.lgs. n. 23/2015, che si differenziano solamente in relazione al numero dei dipendenti del datore di lavoro.

Sul meccanismo previsto dal d.lgs. n. 23/2015 è intervenuto il decreto legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella l. n. 96/2018, il cui art. 3, c. 1, ha elevato le misure minima e massima dell'indennità prevista da tale disposizione, rispettivamente, da quattro a sei e da ventiquattro a trentasei mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

La legge n. 92/2012 ha dettato una nuova disciplina anche con riferimento ai licenziamenti collettivi. In particolare, l'art. 1, c. 46 ha modificato profondamente l'originario testo dell'art. 5, c. 3, della legge n. 223/1991 introducendo nel sistema delle tutele una marcata diversificazione del regime sanzionatorio.

a. in caso di licenziamento intimato senza forma scritta permane la reintegrazione nel posto di lavoro con pagamento di una indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione dal lavoro, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali;

b. nell'ipotesi di violazione delle procedure di cui all'art. 4, comma 12, della l. n. 223/1991 (che si riferisce sia alle comunicazioni di cui al comma 9 dello stesso art. 4 - e cioè a quelle che il datore di lavoro deve inviare dopo aver comunicato il licenziamento ai lavoratori “eccedenti” -, sia a quelle di cui all'art. 4, comma 2, e cioè alle comunicazioni preventive con le quali si inizia la procedura di licenziamento collettivo), nonché di violazione delle procedure di cui all'art. 189, comma 6, del codice della crisi e dell'insolvenza (art. 368, comma 1, d.lgs. n. 14/2019) viene prevista una tutela indennitaria, determinata fra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto;

c. nel caso di violazione dei criteri di scelta è prevista la tutela reintegratoria c.d. “attenuata” (di cui all'art. 18, c. 4, St. Lav.); in sostanza, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, è prevista la condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.

Il d.lgs n. 23/2015 ha profondamente modificato tale disciplina.

Va precisato che anche tale nuova disciplina si applica solo ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 (avvenuta il 7 marzo 2015); per i lavoratori assunti prima della suddetta data si applica la disciplina prevista dalle norme precedenti.

La circostanza che il citato d.lgs. n. 23/2015 si è limitato a disciplinare ex novo, con riferimento ai licenziamenti collettivi, unicamente i profili sanzionatori, implica l'applicabilità, anche ai nuovi assunti, della disciplina procedimentale e dei criteri di scelta prevista dagli artt. 4 e 5 della l. n. 223/1991.

In particolare:

a. nelle ipotesi di licenziamento (collettivo) intimato senza l'osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 (che disciplina le ipotesi di “licenziamento intimato in forma orale” e quelle del licenziamento nullo in quanto discriminatorio) e quindi la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed il pagamento di un risarcimento del danno da liquidarsi nella misura pari a tutte le mensilità che lo stesso avrebbe dovuto percepire dalla data del licenziamento fino a quella dell'effettiva reintegrazione.

b. Ove ricorra l'ipotesi di violazione della procedura richiamata dall'art. 4, c. 12, della l. n. 223/1991 (nonché di violazione delle procedure di cui all'art. 189, comma 6, del codice della crisi e dell'insolvenza (art. 368, comma 2, d.lgs. n. 14/2019), ovvero quella della violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5, c. 1, della stessa legge, trova applicazione il regime sanzionatorio di cui all'art. 3, d.lgs. n. 23/2015, consistente in una indennità risarcitoria (non assoggettata a contribuzione previdenziale) quantificata, nell'ambito di un limite minimo di 4 e massimo di 24 mensilità di retribuzione, in misura pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione per ogni anno di servizio.

È stata sottolineata in dottrina [12] la singolarità della situazione che viene a crearsi con la sovrapposizione delle modifiche apportate alla disciplina prevista dalla legge n. 223/1991 dal citato art. 10, d.lgs. n. 23/2015 a quelle derivanti dall'entrata in vigore della legge Fornero; trattandosi infatti di discipline entrambe in vigore, potrà verificarsi l'ipotesi in cui, nell'ambito di una medesima procedura di licenziamento collettivo, i lavoratori licenziati siano sottoposti a una diversa disciplina concernente il regime di tutela a seconda della data della loro assunzione.

Caratteristiche generali del nuovo assetto normativo

a. Non mutano le fattispecie sostanziali che circoscrivono il potere del datore di lavoro di licenziare, sia quanto ai limiti legati alle nozioni di giusta causa e di giustificato motivo, sia in ordine alle prescrizioni formali e procedurali.

b. Si è conseguentemente ritenuto che il giudizio avente ad oggetto l'impugnazione di un licenziamento assume una struttura «bifasica». Ed infatti la Corte di legittimità ha più volte affermato che, a seguito della riforma Fornero sul regime sanzionatorio dei licenziamenti, il giudice deve procedere ad una valutazione complessa: in primo luogo deve accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo la ordinaria e consolidata disciplina dettata dalla legge n. 604/1966; in secondo luogo, ove, all'esito del suddetto accertamento, escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, deve svolgere, al solo fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore valutazione finalizzata a verificare la sussistenza, o meno, dei presupposti per accedere alla tutela reintegratoria (Cass. n. 12365/2019; Cass. n. 3076/2020).

c. È di tutta evidenza che dalle riforme sopra menzionate emerge un quadro delle tutele molto articolato, e sostanzialmente privo di un disegno unitario.

Ciò è stato sottolineato anche dalla Corte costituzionale (C. cost. n. 150/2020) che ha invitato il legislatore a “ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell'avvicendarsi di interventi frammentari”.

Gli interventi della Corte costituzionale e i loro effetti sul regime delle tutele

I primi due interventi (

C. cost. n. 194/2018

e

C. cost. n. 150/2020

) hanno riguardato il jobs act.

Con le due sentenze sopra citatela Corte ha cancellato uno dei tratti qualificanti del nuovo sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo costituito dalla predeterminazione, crescente in base all'anzianità - e quindi basata su elementi certi ed incontrovertibili - dell'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato. Indennità destinata a costituire, secondo l'espressione usata dal legislatore delegante (art. 1, comma 7, lett. c), l. n. 183/2014) “un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio”.

La Corte costituzionale ha, in buona sostanza, eliminato il meccanismo di predeterminazione automatica dell'indennità previsto dal d.lgs n. 23/2015 dichiarando l'illegittimità costituzionale sia dell'art. 3, c. 1, d.lgs. n. 23/2015, anche nel testo modificato dal c.d. decreto «Dignità» (d.l. n. 87/2018 sopra citato), limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» (C. cost. 8 novembre 2018, n. 194), sia dell'art. 4 dello stesso d.lgs. n. 23/2015 riguardo alle parole «di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» (C. cost. 16 luglio 2020, n. 150). Le due sentenze hanno di fatto restituito al giudice un potere discrezionale nel fissare l'importo dell'indennità, sia pure entro i limiti minimi e massimi previsti dalla legge (che vengono conservati) ed hanno indicato allo stesso i parametri da utilizzare nell'esercizio del suddetto potere. Essi sono, oltre all'anzianità di servizio, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica il comportamento e le condizioni delle parti.

In particolare, la sentenza n. 194/2018 ha affermato che la predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo (attualmente la misura minima dell'indennità è pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, laddove la misura massima è stata fissata in trentasei mensilità) contrasta, in primo luogo, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse. Ciò in quanto - afferma la Corte - nel predeterminare interamente il quantum in relazione all'unico parametro dell'anzianità di servizio, il comma 1 dell'art. 3 connota l'indennità, oltre che come rigida, come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità laddove, secondo un dato di comune esperienza, il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L'anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno di essi. Inoltre, secondo la Corte, il suddetto meccanismo di quantificazione contrasta con il principio di ragionevolezza, atteso che “l'indennità forfettizzata, tradendo la finalità primaria della tutela risarcitoria, può non costituire un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento illegittimo, né un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente. La misura risarcitoria uniforme non realizza dunque un adeguato componimento degli interessi in gioco (libertà di organizzazione dell'impresa e tutela del lavoratore ingiustamente licenziato), bensì comprime in misura eccessiva l'interesse del lavoratore alla stabilità dell'occupazione”.

Il terzo (C. cost. n. 59/2021) e il quarto (C. cost. n. 125/2022) intervento si sono concentrati sull'art. 18, comma 7, dello St. Lav. come modificato dalla legge Fornero con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Con la prima delle due decisioni la Corte ha eliminato l'alternativa fra tutela reintegratoria e tutela risarcitoria, prevista dall'art. 18, comma 7, per l'ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.

Come si è in precedenza ricordato, ai sensi del secondo periodo del citato comma 7, nella formulazione adottata dalla legge Fornero, il giudice, “nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” … “può altresì applicare” la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma (e cioè la tutela reintegratoria). Il potere discrezionale del giudice nella scelta della tutela applicabile, previsto dalla norma citata è stato eliminato dalla Corte con la conseguenza, pure esplicitata dalla Corte, che, nella suddetta ipotesi, la tutela applicabile è unicamente quella reintegratoria.

Ad avviso della Corte la discrezionalità attribuita al giudice dal legislatore costituisce una ragione sufficiente per dichiarare l'incostituzionalità della norma così come formulata. Si legge infatti nella sentenza che la suddetta disposizione, nel sancire una facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione del lavoratore, pur nell'ampio margine di apprezzamento che compete al legislatore, viola i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza, atteso che il carattere meramente facoltativo della reintegrazione nel caso dei licenziamenti economici rivela una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92/2012. Ed infatti le peculiarità delle fattispecie di licenziamento non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi meritevole del rimedio della reintegrazione l'insussistenza del fatto, considerato altresì che, per il licenziamento economico, si richiede finanche il più pregnante presupposto dell'insussistenza manifesta. Inoltre, la scelta tra due forme di tutela profondamente diverse - quella reintegratoria e quella meramente indennitaria - è rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento.

Il secondo degli interventi da ultimo citati (C. cost. n. 125/2022) è complementare al primo. Con tale decisione la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, dell'art. 18 (e quindi la stessa norma già scrutinata con la sentenza precedente), questa volta con riferimento all'aggettivo “manifesta” attribuito all'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, aggettivo che viene pertanto espunto.

La Corte, premesso che il legislatore è comunque vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza - con la conseguenza che la diversità dei rimedi previsti dalla legge deve sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l'adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso - osserva che la norma in esame si pone in contrasto con i principi richiamati.

Nel sistema delineato dalla legge n. 92/2012, la reintegrazione, sia per i licenziamenti disciplinari sia per quelli economici, si incardina sulla nozione di insussistenza del fatto che, nell'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l'impossibilità di collocare altrove il lavoratore.

Al fatto si devono dunque ricondurre l'effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale. Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità, che non può «sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità» (C. cost. n. 59/2021). La preclusione di un più penetrante sindacato di merito emerge, tra l'altro, dall'art. 30, comma 1, primo periodo, della legge 4 novembre 2010, n. 183, che oggi consente di impugnare per violazione di norme di diritto la sentenza che travalichi i limiti posti dalla legge alla valutazione del giudice (secondo periodo, aggiunto dall'art. 1, comma 43, della l. n. 92/2012).

La previsione del carattere manifesto di una insussistenza del fatto, già delimitata e coerente con un sistema che preclude il sindacato delle scelte imprenditoriali, presenta i profili di irragionevolezza intrinseca già posti in risalto nella sentenza n. 59/2021, che ha preso in esame il carattere meramente facoltativo della reintegrazione.

In particolare, il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è sostanzialmente indeterminato in quanto richiede un apprezzamento imprevedibile e mutevole, privo di precisi punti di riferimento. È infatti problematico, nella prassi, il discrimine tra l'evidenza conclamata del vizio e l'insussistenza pura e semplice del fatto. Il criterio prescelto dal legislatore si presta, infatti, a incertezze applicative (Cass. n. 14021/2016) e può condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento.

Ad avviso della Corte l'elemento distintivo dell'insussistenza manifesta neppure si connette razionalmente alla peculiarità delle diverse fattispecie di licenziamento, e più specificamente al fatto che i licenziamenti disciplinari derivano dalla violazione di obblighi contrattuali, mentre i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sono dovuti a scelte tecniche e organizzative.

L'irragionevolezza del criterio enucleato dal legislatore si coglie anche da un'altra angolazione. Il presupposto in esame non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave, solo perché l'insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio.

Infine, la Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 183/2022, si è occupata delle piccole imprese.

Con tale decisione la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, a norma del quale, ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, commi 8 e 9 della legge n. 300/1970, non si applica l'art. 3, comma 2 (che prevede la reintegrazione) e l'ammontare dell'indennità e dell'importo previsti dall'art. 3, comma 1 (da sei a 36 mensilità), dall'art. 4 comma 1 (da 2 a 12 mensilità) e dall'art. 6, comma 1, (da 3 a 27 mensilità) è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.

La disposizione non era stata censurata con riferimento alla non applicabilità della reintegrazione bensì limitatamente alla parte in cui, da un lato, stabilisce che l'ammontare delle somme previste dalle disposizioni sopra ricordate deve essere dimezzato e, dall'altro, che tale ammontare è sottoposto all'ulteriore limite delle sei mensilità.

La Corte ha osservato che nell'assetto delineato dal d.lgs. n. 23/2015, nel quale la reintegrazione è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro, le dimensioni dell'impresa non assurgono a criterio discretivo tra l'applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario. Ne consegue che, in un sistema imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria, la specificità delle piccole realtà organizzative, che pure permane nell'attuale sistema economico, non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto.

Sussistono infatti disarmonie che traggono origine, per un verso, dall'esiguità dell'intervallo tra l'importo minimo e quello massimo dell'indennità e, per altro verso, dal criterio distintivo individuato dal legislatore, che si incardina sul numero degli occupati.

Quanto al primo profilo, un'indennità costretta entro l'esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l'esigenza di adeguarne l'importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un'efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio.

Quanto al secondo profilo, la Corte sottolinea che il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante al numero dei dipendenti, che non rispecchia di per sé l'effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete. Ed infatti, in un quadro dominato dall'evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all'esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. Il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza.

In conclusione, un sistema siffatto non attua quell'equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un'efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi. Si deve riconoscere, pertanto, l'effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente e si deve affermare la necessità che l'ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti.

Nonostante la ritenuta sussistenza di tale vulnus, la Corte ritiene tuttavia di non poter intervenire non ravvisando, infatti, una soluzione costituzionalmente adeguata, idonea ad orientare l'intervento correttivo e collocarlo entro un perimetro definito, segnato da grandezze già presenti nel sistema normativo e da punti di riferimento univoci. Ed infatti, osserva la Corte, a ognuna delle scelte ipotizzabili corrispondono differenti opzioni di politica legislativa. Si profilano, dunque, ineludibili valutazioni discrezionali, che, proprio perché investono il rapporto tra mezzi e fine, non competono alla Corte ma rientrano nella prioritaria competenza del legislatore. La materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie.

Tuttavia, nel dichiarare, coerentemente con le suddette considerazioni, l'inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice a quo, la Corte, ritiene di dover formulare un “monito pressante” [13] affermando che “un ulteriore protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le descritte difficoltà”.

Osservazioni minime sul nuovo assetto delle tutele

Come si è in precedenza evidenziato, con i primi due interventi (C. cost. n. 194/2018 e C. cost. n. 150/2020) - che hanno riguardato esclusivamente la disciplina introdotta con il jobs act - la Corte ha cancellato uno dei tratti qualificanti del nuovo sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo costituito dalla predeterminazione, crescente in base all'anzianità - e quindi basata su elementi certi ed incontrovertibili - dell'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato.

È evidente la ratio della disposizione ritenuta costituzionalmente illegittima: garantire al datore di lavoro la prevedibilità del costo economico del licenziamento illegittimo.

All'esito delle due citate decisioni il suddetto costo economico, pur nell'ambito dei limiti minimo e massimo fissati dal legislatore che non sono stati toccati dalle decisioni della Corte, non è più predeterminabile ex ante, essendo la sua determinazione rimessa alla discrezionalità del giudice il quale dovrà applicare una serie di parametri (fra i quali anche l'anzianità di servizio della quale viene ribadita la rilevanza) che la Corte ha indicato. Occorre rilevare che, data la notevole distanza quantitativa tra il minimo (sei mensilità di retribuzione) ed il massimo (trentasei mensilità) ammontare dell'indennità fissati dalla legge, l'abbandono di un parametro certo quale l'anzianità di servizio e la conseguente discrezionalità attribuita al giudice, da esercitarsi sulla base di parametri (oltre all'anzianità di servizio, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica il comportamento e le condizioni delle parti) alcuni dei quali piuttosto vaghi e opinabili, rende poco prevedibile il costo economico del licenziamento illegittimo, in palese contrasto con il dichiarato intento del legislatore enunciato nella legge delega sopra citata.

È interessante notare il diverso orientamento recentemente affermato dalla Corte di cassazione francese in tema di discrezionalità dei giudici proprio con riferimento alla norma che prevede una consistente limitazione dell'indennità risarcitoria applicabile in caso di licenziamento illegittimo [14]. La Corte, dopo aver richiamato una decisione del Conseil Constitutionnel francese (Cour de cassation, décision n° 2018-761 DC 21 mars 2018) secondo cui la fissazione, da parte del legislatore, di un plafond massimo di indennizzo, finalizzata a rafforzare la prevedibilità delle conseguenze connesse alla risoluzione del rapporto di lavoro, persegue un interesse generale, ha sottolineato il rischio che una varietà incontrollata di decisioni dei giudici di merito in materia di determinazione dell'indennità di licenziamento si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge sancito dall'art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e dei cittadini del 1789 e comprometterebbe non solo il principio di sicurezza giuridica ma anche la volontà legislativa che ha ritenuto di offrire alle parti un meccanismo di agevole prevedibilità delle decisioni.

Ma l'impatto più rilevante sulla disciplina del regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo è stato sicuramente quello derivante dalle due sentenze, sopra ricordate (C. cost. n. 59/2021 e C. cost. n. 125/2022) concernenti le disposizioni previste dal comma settimo dell'art. 18 (nella versione introdotta dalla legge Fornero) per il caso di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ed infatti, a seguito, da un lato, dell'eliminazione della discrezionalità del giudice nel disporre, o meno, la reintegrazione (C. cost. n. 59/2021) e, dall'altro, della soppressione del requisito “manifesta” riferito all'insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento (C. cost. n. 125/2022), la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato per giustificato motivo oggettivo è diventata la sostanzialmente l'unica sanzione applicabile. Ciò in quanto, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, di cui la Corte costituzionale da conto nella sentenza da ultimo citata, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, oltre all'esigenza di sopprimere un posto di lavoro, anche l'impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore destinatario del provvedimento espulsivo (c.d. repêchage), con conseguente onere, a carico del datore di lavoro, di provare l'impossibilità di reperire altra collocazione del prestatore di lavoro nell'ambito del contesto aziendale. In particolare, la Corte di cassazione (cfr. Cass. n. 10435/2018) aveva precisato che la (manifesta) insussistenza del fatto posto a base del licenziamento ricomprende entrambi i presupposti di legittimità del recesso e quindi anche l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.

La situazione che si è venuta a determinare a seguito degli ultimi due interventi della Corte costituzionale evidenzia alcune criticità, ove si consideri, da un lato, che, nel disegno del legislatore del 2012, lo spazio riservato alla tutela reintegratoria nel caso di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo doveva essere minimo [15], e, dall'altro, che la stessa Corte costituzionale aveva affermato la piena conformità alla Costituzione di una tutela meramente indennitaria. Ed infatti con la sentenza n. 194/2018 sopra citata la Corte ha dichiarato che il legislatore può legittimamente prevedere un meccanismo di tutela solo indennitario e non già anche reintegratorio ed ha coerentemente stabilito che l'esclusione della reintegrazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sancita dal jobs act non pone un tema di incostituzionalità della norma.

Ulteriori perplessità emergono sotto il profilo sistematico.

In primo luogo, nell'ambito dei licenziamenti disciplinati dalla legge Fornero, viene stravolto il meccanismo sanzionatorio previsto dal legislatore, atteso che quello applicabile al giustificato motivo (applicazione generalizzata della tutela reintegratoria) diventa molto più severo di quello previsto per la giusta causa e/o per il giustificato motivo soggettivo (tutela reintegratoria applicabile solo nelle ipotesi specificamente previste dalla legge, in assenza delle quali si applica la tutela indennitaria). Il che appare discutibile sia sotto il profilo etico (appare opportuno sanzionare più gravemente il datore di lavoro che abbia ingiustamente accusato il lavoratore di condotte illecite), sia sotto il profilo della contrarietà rispetto a esplicite scelte del legislatore, scelte che si sono manifestate apertis verbis nella legge delega del jobs act. A questo proposito deve sottolinearsi che il d.lgs. n. 23/2015 ha mantenuto la reintegrazione per il caso di licenziamento disciplinare viziato per “insussistenza” del fatto oggetto di contestazione avendola invece abolita del tutto nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Non può sfuggire, inoltre, che il comma settimo dell'art. 18 presenta, all'esito delle modifiche derivanti dagli interventi della Corte costituzionale sopra citati, un profilo di evidente illogicità. Ed infatti, posto che, come si è visto, dopo i suddetti interventi la reintegrazione appare essere l'unica sanzione possibile in caso di insussistenza del giustificato motivo oggettivo, appare privo di significato l'ulteriore passaggio della norma laddove afferma che “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma” e cioè la disciplina indennitaria. Passaggio che si arricchisce di una specifica previsione finalizzata a disciplinare i criteri che il giudice deve seguire nel liquidare in concreto l'indennità.

La coerenza del sistema mostra ulteriori criticità con riferimento al regime delle sanzioni da licenziamento illegittimo introdotta dal jobs act. L'applicazione generalizzata del regime della reintegrazione nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel vigore della legge Fornero accentua in modo privo di una logica sistematica la disparità di trattamento rispetto ai lavoratori che, per essere stati assunti dopo il 7 marzo 2015, sono sottoposti al regime previsto dal d.lgs. n. 23/2015 che prevede per tale tipo di licenziamento, nel caso di sua illegittimità, sempre e comunque la tutela indennitaria.

Incongruenze sistematiche si riscontrano inoltre anche con riferimento alla disciplina dei licenziamenti collettivi, sulla quale la Corte non è intervenuta. Ed infatti, all'interno della disciplina Fornero, l'ampliamento, generato dalle sentenze citate, della tutela reintegratoria nel giustificato motivo oggettivo si pone in contrasto, dal punto di vista logico - sistematico, con la scelta del legislatore di limitare, in caso di licenziamento collettivo, la tutela reintegratoria alla sola ipotesi di violazione dei criteri di scelta laddove per tutti gli altri vizi procedurali è prevista la tutela indennitaria. Aporia che diventa ancora più evidente con il d.lgs. n. 23/2015 che prevede, per il licenziamento collettivo, l'applicazione generalizzata della tutela indennitaria (con l'unica esclusione, poco realistica, del licenziamento collettivo intimato in forma orale).

Infine, con riguardo alle piccole imprese, il quadro sanzionatorio dell'illegittimità del licenziamento previsto dal legislatore non cambia, atteso che l'articolato intervento della Corte costituzionale (C. cost. n. 183/2022) si risolve con una decisione di inammissibilità delle censure proposte. Peraltro, pur nel riconoscimento dell'impossibilità di intervenire, trattandosi di materia di competenza del legislatore, la Corte, come si è visto, da un lato non si sottrae alla sollecitazione del giudice rimettente e dichiara fondate le censure prospettate, dall'altro, ammonisce il legislatore prospettando la possibilità di un suo diretto intervento in caso di protrazione dell'inerzia legislativa. Una prospettazione che non pare del tutto coerente con le lucide argomentazioni a sostegno della declaratoria di inammissibilità.

Note

[1] Il suddetto requisito dimensionale, fissato inizialmente dall'art. 35 St. Lav., era stato poi modificato dalla legge n. 108/1990.

[2] Cfr. AMOROSO, Articolo 18 Statuto dei Lavoratori - Una storia lunga oltre cinquant'anni, Bari, 2022, 54.

[3] Datori di lavoro che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.

[4] Cfr. AMORSO. op. cit., 94 ss.

[5] Per un esame analitico della disciplina si rinvia a AMENDOLA, Il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo, in AMOROSO, DI CERBO, MARESCA (a cura di), Il lavoro privato, Milano, 2022, pagg. 2505 ss.

[6] L'art. 2, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, prevede, per questa ipotesi, che il giudice, oltre alla reintegrazione, condanna “il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento …., stabilendo a tal fine un´indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell´effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”. Per lo stesso periodo sono dovuti altresì, da parte del datore di lavoro, i contributi previdenziali e assistenziali.

[7] Cfr. AMOROSO, op. cit., pag. 202.

[8] In tal caso, ai sensi dell'art. 3, comma 2, dello stesso d.lgs. il giudice condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nonché al pagamento di una indennità risarcitoria calcolata con le stesse modalità previste dall'art. 2, comma 2, ma con tre rilevanti differenze: a) dall'indennità deve essere dedotto non solo quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, ma anche quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 1, lettera c) d.lgs. n. 181/2000; b) la misura dell'indennità risarcitoria non può eccedere le dodici mensilità; c) il datore di lavoro, in sede di regolarizzazione contributiva, non è tenuto a pagare le sanzioni da omissione contributiva.

[9] In questo caso (art. 3, comma 1) il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità no assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

[10] Anche in quest'ultima ipotesi il giudice dichiara estinto il rapporto ma l'indennità è calcolata in misura pari a una mensilità per ogni anno di servizio con il limite minimo di due e massimo di dodici mensilità.

[11] AMENDOLA, op. cit., pag. 2691.

[12] Cfr., in particolare, MAMMONE, La regolazione dei licenziamenti collettivi: itinerari legislativi ed orientamenti giurisprudenziali, in COSIO, CURCURUTO, FOGLIA (a cura di), Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell´Unione Europea, Milano, pagg. 145 e segg.; SIMEOLI, Licenziamento collettivo, in AMOROSO, DI CERBO, MARESCA (a cura di), Il lavoro privato, Milano, 2022, pag. 2462.

[13] Cfr. AMOROSO, op. cit., pag. 262.

[14] Cfr. CENDRET, Limiti dell'indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo previsti nella legislazione francese: il recente orientamento della Cour de cassation, in questo Portale, 14 settembre 2022.

[15] Così AMOROSO, op. cit., 264.