Pena illegale versus pena illegittima al cospetto delle sezioni unite della Cassazione

03 Febbraio 2023

Il contributo si propone di approfondire il concetto di penale illegale così come definito - in contrapposizione a quello di pena illegittima - in alcune recenti prese di posizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per comprendere, poi, quali ricadute pratiche possano derivare da un'interpretazione più o meno ampia di detta categoria concettuale in relazione ad una molteplicità di profili problematici.
Il comune denominatore delle diverse pronunce

Alcune recenti pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione hanno affrontato, sia pure da angolazioni prospettiche parzialmente diverse, il delicato problema relativo alla corretta individuazione del concetto di pena illegale, al fine di farne poi discendere determinati effetti di disciplina, di volta in volta rilevanti nei rispettivi giudizi.

Dette sentenze presentano indubbi profili di interesse, non solo per le rilevanti questioni applicative da esse trattate, ma anche – e forse soprattutto, almeno nella prospettiva di chi scrive – per alcune affermazioni di principio che coinvolgono la teoria della pena.

Per comprendere meglio i termini del discorso appare, però, opportuno muovere proprio dai diversi quesiti di diritto per i quali i singoli ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite.

I singoli ricorsi

Nella prima delle tre vicende oggetto della nostra attenzione è stato chiesto alle Sezioni Unite se, «in presenza di ricorso per cassazione inammissibile per ragioni diverse dalla tardività dello stesso, la Corte di cassazione possa rilevare ex officio la illegalità della pena in quanto di specie diversa rispetto a quella di legge o inflitta in misura superiore al massimo edittale, al di fuori delle ipotesi in cui ciò derivi da sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della relativa norma e/o da mutamento normativo in melius della stessa» (Cass. pen., sez. un., n. 38809/2022, Miraglia).

In una diversa pronuncia, assunta il medesimo giorno di quella appena richiamata, le Sezioni Unite si sono, invece, pronunciate in merito al controverso riconoscimento che la mancata applicazione da parte del giudice di merito della più favorevole riduzione per il rito abbreviato - nella misura della metà anziché di un terzo, introdotta per le contravvenzioni dalla legge n. 103 del 2017 - possa integrare un'ipotesi di pena illegale e, dunque, essere rilevata dalla Corte di Cassazione, pur se la relativa questione non sia stata prospettata con l'atto di appello, ma unicamente con il ricorso per cassazione (Cass. pen., sez. un., n. 47182/2022, Savini).

Infine, con una terza sentenza, il Collegio ha chiarito “se, ai fini del sindacato di legittimità della sentenza di applicazione della pena, configuri pena illegale quella determinata a seguito della erronea applicazione del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee in violazione del criterio unitario previsto dall'art. 69, comma terzo, c.p.” (Cass. pen., sez. un., n. 877/2023, Sacchettino).

A seguito di attento e argomentato iter motivazionale, le Sezioni Unite sono giunte all'enunciazione, rispettivamente, dei seguenti principi di diritto.

In relazione alla prima questione, si è ritenuto che spetti “alla Corte di cassazione, in attuazione degli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., il potere, esercitabile anche in presenza di ricorso inammissibile, di rilevare l'illegalità della pena determinata dall'applicazione di sanzione ab origine contraria all'assetto normativo vigente perché di specie diversa da quella di legge o irrogata in misura superiore al massimo edittale” (nel caso concreto si ragionava in merito all'irrogazione della pena detentiva per il reato di cui all'art. 582 c.p., in luogo delle sanzioni previste, per i reati di competenza del giudice di pace, dall'art. 52, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274).

Per quanto concerne il secondo quesito, le Sezioni Unite hanno, invece, concluso nel senso che, “qualora la pena concretamente irrogata rientri nei limiti edittali, l'erronea applicazione da parte del giudice di merito della misura della diminuente, prevista per un reato contravvenzionale giudicato con rito abbreviato, integra un'ipotesi di pena illegittima (in quanto fondata sull'errata applicazione della legge processuale) e non già di pena illegale”, sicché si è ritenuta preclusa, ai sensi dell'art. 606, comma 3, c.p.p., la proposizione della relativa questione in quanto non dedotta con i motivi di appello.

Infine, in relazione all'ultima richiesta, si è precisato che “la pena determinata a seguito dell'errata applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali previsti dagli artt. 23 e ss., 65 e 71 e ss. c.p., oppure i limiti edittali previsti, per le singole fattispecie di reato, dalle norme incriminatrici che si assumono violate, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge”, traendo da tale premessa la conclusione dell'inammissibilità del ricorso presentato nei confronti di una sentenza di patteggiamento.

Pena illegale versus pena illegittima: i termini della questione

Ebbene, è facile intuire come il filo rosso che collega i tre citati pronunciamenti sia rappresentato – come anticipato - dall'esatto inquadramento del concetto di pena illegale, necessario presupposto al fine di risolvere, poi, le più puntali e complesse quaestiones sollevate nei diversi procedimenti, sulle quali non sarà possibile in questa sede soffermarsi se non attraverso brevissimi cenni.

Preme piuttosto capire quale rilevanza possa avere la più o meno ampia latitudine della citata categoria concettuale di pena illegale, segnatamente nella contrapposizione che le Sezioni Unite pretendono di radicare nei confronti della c.d. pena illegittima.


Detto opera di perimetrazione – lo si anticipa fin da subito – è tutt'altro che agevole, posto che la nozione di pena illegale trova solo frammentari riscontri normativi e risulta, in buona sostanza, frutto dell'opera creativa della giurisprudenza, animata proprio dal lodevole intento di rimediare alle carenze legislative inerenti alla rilevazione e rideterminazione di sanzioni la cui applicazione, per un vizio, originario o sopravvenuto, è ritenuta intollerabile alla luce del principio costituzionale di legalità. Ma, appunto, in quanto nozione di origine pretoria, manca qualunque riferimento che possa delimitarne in modo certo i confini. Da qui deriva la complessità della questione, la cui rilevanza interseca, però, molteplici aspetti della disciplina penalistica, sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello più strettamente processuale, come ben esemplificato dalle pronunce oggetto di analisi.

L'evanescenza della categoria concettuale de qua emerge, del resto, non solo dalle continue oscillazioni giurisprudenziali in merito alla soluzione di questioni simili (oscillazioni che, non a caso, hanno già sollecitato plurimi interventi delle Sezioni Unite), ma altresì dall'estrema variabilità della casistica in relazione alla quale si discorre di pena illegale in detti arresti giurisprudenziali. Si pensi, solo per rimanere alle questioni oggetto dei ricorsi in esame, alla possibilità di estendere o meno il concetto di pena illegale alla violazione di norme processuali, là dove detta violazione comporti effetti sostanziali sulla individuazione del trattamento sanzionatorio applicabile; alla controversa rilevabilità d'ufficio da parte della Corte di Cassazione dell'illegalità della pena nell'ipotesi di ricorso inammissibile; alla distinzione tra pena illegale ab origine e pena illegale sopravvenuta; alla rilevanza di detta nozione ai fini della delimitazione dell'ambito del sindacato di legittimità sulle sentenze che applicano la pena a richiesta di parte, ai sensi degli artt. 444 ss. c.p.p.

Senza trascurare che in alcune pronunce di legittimità (per tutte, Cass. pen., sez. un., 26 giugno 2015, n. 46653, Della Fazia) emergono ulteriori (non chiarissime) distinzioni, quale – per esempio – quella tra pena illegale e “pena ingiusta”, sulla base di un approccio, ancora una volta, dichiaratamente casistico (punto n. 8 del Considerato in diritto), per poi giungere comunque ad includere anche la pena ingiusta tra le lesioni dei diritti fondamentali che il giudice di legittimità dovrebbe eliminare, indipendentemente dalla corretta proposizione dei motivi (si legge nella citata sentenza: “una pena irrogata in base a criteri non più corrispondenti al giudizio di disvalore della condotta espresso dal legislatore è una pena che - anche se è da ritenere «legale» nel senso già indicato - è idonea, in particolare, a violare il criterio di proporzionalità che sempre deve assistere l'esercizio del potere punitivo attribuito all'autorità giudiziaria”: punto n. 16 del Considerato in diritto).

Come è facile intuire, si tratta di un approccio che si affida completamente al potere creativo della giurisprudenza, privando però – di fatto - il sistema penale della necessaria prevedibilità degli esiti processuali.

Una corretta impostazione del problema

Occorre, dunque, a questo punto cercare di comprendere in termini più approfonditi se sia possibile definire cosa debba intendersi per pena illegale e se, effettivamente, si possa immaginare un'alterità, rispetto ad essa, della c.d. pena illegittima.

Ebbene, innanzitutto vale subito la pena di sgombrare il campo dall'equivoco, talvolta adombrato, che il principio di legalità rispetto alla pena abbia una portata meno stringente rispetto al profilo precettivo della fattispecie incriminatrice. Vero è che la concretizzazione della risposta sanzionatoria implica, come è noto, un fisiologico bilanciamento tra legalità e discrezionalità. Nondimeno, detta discrezionalità può estrinsecarsi solo “nei limiti fissati dalla legge” - così come espressamente, e a chiare, lettere recita l'art. 132 c.p. - e comporta uno specifico obbligo di motivazione da parte del giudice sull'utilizzo di detto potere.

Tanto premesso, anche l'orientamento espresso dalla Corte costituzionale è consolidato nel senso di riconoscere alla legalità della pena un'efficacia garantista sotto certi aspetti forse addirittura maggiore rispetto a quella che coinvolge il precetto, così come si ricorda già nelle più risalenti pronunce della medesima Consulta.

Con la sentenza n. 15 del 1962, si chiarì, infatti, che la copertura costituzionale dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione riguarda non solo il reato ma anche la pena. Detta disposizione, infatti, “affermando che nessuno può essere punito se non in forza di legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, non soltanto proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l'applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individualizzazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge» (punto n. 1 del Considerato in diritto).

Pochi anni più tardi, nuovamente e ancor più efficacemente, la Corte ritenne «che il principio costituzionale della legalità della pena sia da interpretare più rigorosamente, nel senso che esso esige che sia soltanto la legge (o un atto equiparato) dello Stato a stabilire con quale misura debba essere repressa la trasgressione dei precetti che vuole sanzionati penalmente. La dignità e la libertà personali sono, nell'ordinamento costituzionale democratico e unitario, beni troppo preziosi (omissis)» (così, C. c. n. 26/1966, punto n. 6 del Considerato in diritto).

Certo non meno importante è, poi, l'enunciazione del principio Nulla poena sine lege ad opera dell'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la cui rubrica (“Nessuna pena senza legge”) nuovamente scolpisce, in termini inequivoci, la garanzia in oggetto.

Si tratta allora di capire esattamente – ed è questo il cuore del problema – quali siano “i limiti fissati dalla legge” alla trasgressione di quali può ricollegarsi la nozione di pena illegale.

Ebbene, le pronunce in oggetto – come detto – si sforzano di individuare una distinzione tra due categorie. Così, l'illegalità della pena ricorrerebbe «solo quando essa eccede i valori (espressi sia qualitativamente: genere e specie, che quantitativamente: minimo e massimo) assegnati dal legislatore al tipo astratto nel quale viene sussunto il fatto storico reato (omissis). Ogni altra violazione delle regole che occorre applicare per la definizione della pena da infliggere» integrerebbe, invece, “un errato esercizio del potere commisurativo”, dando “luogo ad una pena che è illegittima” (Cass. pen., sez. un., n. 47182/2022, Savini, punto n. 9 del Considerato in diritto).

Sennonché, tale distinzione non appare convincente.

Le perplessità nei confronti della dicotomia pena illegale/pena illegittima

In primo luogo, già sotto il profilo meramente semantico, non sembra possibile tracciare alcuna precisa delimitazione tra gli aggettivi “illegale” e “illegittimo/a”, posto che nella lingua italiana essi vengono sempre prospettati come sinonimi. Ma soprattutto – ed è ciò che più conta – non sembra possibile individuare, al di là delle affermazioni di principio, criteri atti a distinguere in termini inequivoci l'illegalità della pena dall'illegittimità della stessa.

Il vincolo della legalità non copre, infatti, solo l'astratta previsione della cornice edittale ma anche tutti i criteri ai quali il giudice deve attenersi, ex lege, per determinare la pena in concreto. Solo il rispetto di questi ultimi, come anticipato, consente di realizzare un accettabile bilanciamento tra legalità e discrezionalità. Peraltro, in Cass. pen., sez. un., n. 47182/2022, Savini, i termini della questione parrebbero emergere nitidamente, là dove si afferma che «i margini di valutazione che la legge lascia al giudice spostano gli equilibri tra certezza e flessibilità della pena e, pertanto, sanciscono la primazia o la subalternità della determinazione legale rispetto alla commisurazione giudiziale della pena» (punto n. 8 del Considerato in diritto).

Del resto, come da tempo ricordato dalla Corte costituzionale, le varie norme sulla applicazione della pena «formano un tutto unico, nel quale il potere discrezionale del giudice è delimitato dal legislatore. Quest'ultimo ha ritenuto necessario precisare gli elementi fondamentali verso cui il giudice deve orientarsi nelle sue valutazioni, ed entro il cui ambito deve contenere l'uso dei poteri a lui conferiti» (C. cost. n. 118/1973, punto n. 3 del Considerato in diritto). Sicché – si ricorda in altra occasione a proposito della disciplina sul cumulo giuridico ex art. 81 c.p. – «pena legale non è soltanto quella comminata dalle singole fattispecie penali. Lo è, infatti, anche quella risultante dall'applicazione delle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio» (C. cost. n. 312/1988, punto n. 1 del Considerato in diritto).

Tanto premesso, perché mai, allora, non dovrebbe considerarsi illegale una pena che pure – in ipotesi – rimanga all'interno dei limiti edittali previsti ma alla cui determinazione si pervenga attraverso la violazione di norme (sostanziali o processuali) destinate, per loro intrinseca natura proprio a guidare l'esercizio del potere discrezionale del giudice e dunque ad inverare il principio di legalità nella fase commisurativa? La sanzione in tal modo individuata non corrisponderebbe, infatti, a quella che, secondo le previsioni del legislatore, avrebbe dovuto essere applicata nel rispetto di tutti gli strumenti che l'ordinamento decide di mettere a disposizione del giudice per la necessaria individualizzazione della stessa. Sicché, o la pena è individuata nel rispetto di tutte le disposizioni che la riguardano, e allora è legale, oppure è individuata violando le indicazioni del legislatore, e allora è illegale. Tertium non datur.

In tale prospettiva, dunque, se è assolutamente condivisibile la conclusione alla quale perviene la prima delle sentenze in commento (Cass. pen., sez. un., n. 38809/2022), perplessità sorgono, invece, in relazione alle argomentazioni poste a fondamento delle altre due.

Da un lato, infatti, la corretta applicazione della diminuente per il rito abbreviato – che peraltro non introduce nel giudizio alcuna valutazione discrezionale da parte del giudice, ma è prevista in maniera fissa e predeterminata proprio dal legislatore – non può non condizionare la legalità della pena, pur trattandosi di disciplina di natura processuale (con evidenti ricadute, però, di ordine sostanziale). Dall'altro lato, anche il rispetto delle regole che l'ordinamento contempla per l'applicazione delle circostanze appare fondamentale per individuare la pena legale, posto che dette regole cercano di realizzare il più volte richiamato bilanciamento tra l'astratta valutazione legale della fattispecie e l'esigenza di meglio adeguare la pena al reale disvalore dei fatti concreti, ma sempre sulla base delle coordinate dettate dal legislatore. Non si trascuri, inoltre, che le circostanze possiedono l'idoneità ad influire sulla pena edittale di ciascuna fattispecie incriminatrice, dunque proprio su quel giudizio di disvalore espresso dal legislatore che anche le sentenze in commento si sforzano di salvaguardare. Sicché, se è vero che «la determinazione contra legem della pena concordata tra le parti ed illegittimamente ratificata dal giudice, invalida la base negoziale sulla quale è maturato l'accordo e vizia la sentenza che lo ha recepito” e che “il controllo di congruità della pena è logicamente comprensivo della legalità di essa, ossia della sua conformità alle regole che la disciplinano, nonché di quelle che influiscono sulla sua determinazione» (Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2013, n. 25939, Ciabotti, punto n. 1.1 del Considerato in diritto), anche in questa ipotesi non vi dovrebbero essere ostacoli all'ammissibilità di un ricorso che voglia far valere siffatti principi di garanzia. Del resto, è proprio l'art. 444, comma 2 c.p.p., a stabilire che il giudice pronuncia sentenza di patteggiamento solo se ritiene congrua la pena complessiva e corrette l'applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti.

In conclusione

In conclusione, la contrapposizione tra pena illegale e pena illegittima, pur finemente argomentata dalle pronunce in oggetto, non convince, specie se si considerano le rilevanti differenze in termini di disciplina giuridica (anche in malam partem) che si vorrebbero far discendere da siffatta distinzione. La garanzia della legalità non può, infatti, rimanere circoscritta ai limiti edittali. Parrebbe, invece, più corretto ricondurre al concetto di pena illegale la violazione di ogni norma dettata dal legislatore al fine di disciplinare il corretto esercizio del potere punitivo da parte del giudice. Solo in questo modo, peraltro, sembra possibile scolpire una nozione di pena illegale che prescinda da un approccio di tipo casistico, come tale, potenzialmente foriero delle soluzioni più disparate con conseguente possibile lesione dell'affidamento in una parità di trattamento di situazioni analoghe.

Sommario