In primo luogo, già sotto il profilo meramente semantico, non sembra possibile tracciare alcuna precisa delimitazione tra gli aggettivi “illegale” e “illegittimo/a”, posto che nella lingua italiana essi vengono sempre prospettati come sinonimi. Ma soprattutto – ed è ciò che più conta – non sembra possibile individuare, al di là delle affermazioni di principio, criteri atti a distinguere in termini inequivoci l'illegalità della pena dall'illegittimità della stessa.
Il vincolo della legalità non copre, infatti, solo l'astratta previsione della cornice edittale ma anche tutti i criteri ai quali il giudice deve attenersi, ex lege, per determinare la pena in concreto. Solo il rispetto di questi ultimi, come anticipato, consente di realizzare un accettabile bilanciamento tra legalità e discrezionalità. Peraltro, in Cass. pen., sez. un., n. 47182/2022, Savini, i termini della questione parrebbero emergere nitidamente, là dove si afferma che «i margini di valutazione che la legge lascia al giudice spostano gli equilibri tra certezza e flessibilità della pena e, pertanto, sanciscono la primazia o la subalternità della determinazione legale rispetto alla commisurazione giudiziale della pena» (punto n. 8 del Considerato in diritto).
Del resto, come da tempo ricordato dalla Corte costituzionale, le varie norme sulla applicazione della pena «formano un tutto unico, nel quale il potere discrezionale del giudice è delimitato dal legislatore. Quest'ultimo ha ritenuto necessario precisare gli elementi fondamentali verso cui il giudice deve orientarsi nelle sue valutazioni, ed entro il cui ambito deve contenere l'uso dei poteri a lui conferiti» (C. cost. n. 118/1973, punto n. 3 del Considerato in diritto). Sicché – si ricorda in altra occasione a proposito della disciplina sul cumulo giuridico ex art. 81 c.p. – «pena legale non è soltanto quella comminata dalle singole fattispecie penali. Lo è, infatti, anche quella risultante dall'applicazione delle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio» (C. cost. n. 312/1988, punto n. 1 del Considerato in diritto).
Tanto premesso, perché mai, allora, non dovrebbe considerarsi illegale una pena che pure – in ipotesi – rimanga all'interno dei limiti edittali previsti ma alla cui determinazione si pervenga attraverso la violazione di norme (sostanziali o processuali) destinate, per loro intrinseca natura proprio a guidare l'esercizio del potere discrezionale del giudice e dunque ad inverare il principio di legalità nella fase commisurativa? La sanzione in tal modo individuata non corrisponderebbe, infatti, a quella che, secondo le previsioni del legislatore, avrebbe dovuto essere applicata nel rispetto di tutti gli strumenti che l'ordinamento decide di mettere a disposizione del giudice per la necessaria individualizzazione della stessa. Sicché, o la pena è individuata nel rispetto di tutte le disposizioni che la riguardano, e allora è legale, oppure è individuata violando le indicazioni del legislatore, e allora è illegale. Tertium non datur.
In tale prospettiva, dunque, se è assolutamente condivisibile la conclusione alla quale perviene la prima delle sentenze in commento (Cass. pen., sez. un., n. 38809/2022), perplessità sorgono, invece, in relazione alle argomentazioni poste a fondamento delle altre due.
Da un lato, infatti, la corretta applicazione della diminuente per il rito abbreviato – che peraltro non introduce nel giudizio alcuna valutazione discrezionale da parte del giudice, ma è prevista in maniera fissa e predeterminata proprio dal legislatore – non può non condizionare la legalità della pena, pur trattandosi di disciplina di natura processuale (con evidenti ricadute, però, di ordine sostanziale). Dall'altro lato, anche il rispetto delle regole che l'ordinamento contempla per l'applicazione delle circostanze appare fondamentale per individuare la pena legale, posto che dette regole cercano di realizzare il più volte richiamato bilanciamento tra l'astratta valutazione legale della fattispecie e l'esigenza di meglio adeguare la pena al reale disvalore dei fatti concreti, ma sempre sulla base delle coordinate dettate dal legislatore. Non si trascuri, inoltre, che le circostanze possiedono l'idoneità ad influire sulla pena edittale di ciascuna fattispecie incriminatrice, dunque proprio su quel giudizio di disvalore espresso dal legislatore che anche le sentenze in commento si sforzano di salvaguardare. Sicché, se è vero che «la determinazione contra legem della pena concordata tra le parti ed illegittimamente ratificata dal giudice, invalida la base negoziale sulla quale è maturato l'accordo e vizia la sentenza che lo ha recepito” e che “il controllo di congruità della pena è logicamente comprensivo della legalità di essa, ossia della sua conformità alle regole che la disciplinano, nonché di quelle che influiscono sulla sua determinazione» (Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2013, n. 25939, Ciabotti, punto n. 1.1 del Considerato in diritto), anche in questa ipotesi non vi dovrebbero essere ostacoli all'ammissibilità di un ricorso che voglia far valere siffatti principi di garanzia. Del resto, è proprio l'art. 444, comma 2 c.p.p., a stabilire che il giudice pronuncia sentenza di patteggiamento solo se ritiene congrua la pena complessiva e corrette l'applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti.