L'appello con firma sia grafica che digitale non è inammissibile
22 Febbraio 2023
Anche se la decisione che oggi vi proponiamo affonda le sue radici processuali in fatti e circostanze antecedenti all'entrata in vigore della riforma Cartabia, essa appare ugualmente emblematica. Lo è perchè costituisce, se vogliamo, la cartina al tornasole di tutti i dubbi operativi riguardanti il controverso settore disciplinare del deposito telematico delle impugnazioni.
Proviamo a riassumere brevemente l'antefatto. Al GIP presso il Tribunale di Bologna perveniva un'istanza di revoca di una misura cautelare reale. Si tratta di un sequestro preventivo. Alla richiesta seguiva un provvedimento negativo e, per questa ragione, alla difesa non restava che la strada dell'appello al tribunale del riesame, così come prevede l'art. 322-bis c.p.p. L'atto d'appello era confezionato con un programma di videoscrittura, poi veniva stampato e sottoscritto graficamente dal difensore che – scegliendo di depositarlo ai sensi della “disciplina Covid” (cioè quella prevista dal decreto Ristori n. 137/2020) – provvedeva a firmarlo digitalmente e a inviarlo con la posta elettronica certificata. Il tribunale del riesame lo dichiarava inammissibile, ritenendo che l'impugnazione proposta non fosse conforme alla disciplina contenuta nel decreto Ristori (e che, come abbiamo osservato in un nostro recente intervento, sarà ancora in vigore fino a che non verranno pubblicate le norme tecniche attuative della riforma Cartabia). Il difensore, a questo punto, rimetteva la decisione sull'ammissibilità del proprio atto di appello alla Suprema Corte, lamentando che nel caso di specie si fosse estesa illegittimamente la richiamata sanzione processuale a casi da essa non contemplati.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, dava ragione al ricorrente, annullando con rinvio l'ordinanza del tribunale del riesame bolognese. Le ragioni della decisione sono molto chiare: la disciplina contenuta nel “decreto Ristori” contiene una sequela di nuove cause di inammissibilità delle impugnazioni telematiche, tra le quali figura la mancanza di sottoscrizione digitale del documento. Le modalità con cui sottoscrivere digitalmente gli atti di impugnazione sono contenute in uno dei famigerati provvedimenti del DGSIA (in particolare, quello del 9 novembre 2020), ove si prevede che il documento informatico deve essere in formato .pdf; che esso è ottenuto dalla trasformazione di un documento testuale. Si precisa che non è ammessa la scansione di immagini e che il documento deve essere sottoscritto digitalmente. La descrizione che viene fatta con linguaggio non sempre perspicuo è quella – in buona sostanza – del cosiddetto “file .pdf nativo”. Cioè, in parole povere, un file che deriva direttamente da un documento formato con il programma di videoscrittura (ad esempio: Word) e che non è, invece, figlio della scansione di un documento cartaceo. Nel caso che ci occupa, invece, l'estensore dell'appello aveva compiuto proprio quest'ultimo passaggio in più: aveva stampato il documento, lo aveva siglato e poi lo aveva sottoscritto digitalmente. Questa procedura - peraltro molto diffusa nella prassi quotidiana - non è sanzionata, rilevano i supremi giudici, da alcuna causa di invalidità. Da ciò ne discende che se la firma digitale è presente non si potrà dichiarare l'inammissibilità del documento informatico.
La decisione in esame si segnala per avere fatto rigorosissima applicazione delle norme e dei principi in materia di cause di invalidità. Uno dei quali è, infatti, quello di tassatività, che impone di non estendere le norme richiamate a casi non espressamente contemplati. Vedremo se nel prossimo futuro si riproporranno ulteriori questioni sulla forma degli atti, ma è lecito attendersi che – sebbene la normativa si sforzi di essere chiara – almeno per un certo periodo assisteremo a continue manifestazioni di “incertezza” applicativa per dirimere le quali non potrà che ricorrersi al giudice di legittimità. |