Per l'ostacolo alla vigilanza necessario distinguere le ipotesi delittuose del primo e del secondo comma dell'art. 2638 c.c.

Ciro Santoriello
04 Aprile 2023

La Cassazione Penale, intervenuta nella complessa vicenda che ha visto coinvolta Banca Etruria, fornisce alcuni chiarimenti in merito alla fattispecie di reato di ostacolo alle attività dell'autorità di vigilanza, di cui all'art. 2638 c.c.
Massima

Nell'ambito della fattispecie di ostacolo alle attività dell'autorità di vigilanza occorre distinguere chiaramente se l'accusa si riferisce all'ipotesi delittuosa del primo o del secondo comma dell'art. 2638 c.c., posto che nel primo comma è previsto un reato di mera condotta, in cui deve necessariamente nel comportamento del responsabile deve essere rinvenibile una connotazione di fraudolenza ed inganno, mentre nel secondo comma si riscontra un reato di evento, in cui la natura decettiva della condotta non è necessaria se si riscontro l'intervenuto ostacolo all'autorità di controllo.

Il caso

In sede di appello, i vertici di un istituto di credito erano condannati – peraltro in riforma della decisione di primo grado – per il delitto di impedito controllo di cui all'art. 2638 c.c., in particolare per aver ostacolato il corretto processo di valutazione ispettiva della Banca d'Italia relativamente ad un'operazione di dismissione immobiliare in relazione alla correlativa determinazione delle plusvalenze iscrivibili, e in riferimento alla determinazione del capitale di rischio, esposto in bilancio, come determinato all'esito della classificazione e valutazione dei crediti in sofferenza; secondo i giudici di appello, la classificazione dei crediti in sofferenza operata dagli indagati entro categorie non pertinenti avrebbe falsato la rappresentazione del rischio di realizzo e che la determinazione ed esposizione delle plusvalenze iscrivibili in relazione all'operazione di dismissione immobiliare contestata fosse, del pari, inveritiera. Questi fatti erano contestati sia nella forma di comunicazioni inveritiere all'organo di vigilanza (art. 2638, comma 1, c.c.), sia nella forma dell'omessa comunicazione (art. 2638, comma 2, c.c.).

In sede di ricorso per cassazione, le difese eccepivano, per i profili di interesse in questa sede, in primo luogo la circostanza che i giudici di appello avessero ritenuto falsa l'esposizione dei crediti in sofferenza non sulla base dei criteri dettati dai principi contabili internazionali ma facendo applicazione di una circolare di Banca d'Italia (la n. 272 del 30 luglio 2008), cosiddetta "matrice dei conti", che si limita a classificare i crediti secondo le categorie della sofferenza, dell'incaglio, della ristrutturazione e della scadenza, ma non fornisce i criteri di valutazione dei crediti deteriorati, sicché la sentenza impugnata avrebbe finito per sovrapporre i diversi parametri della classificazione e della valutazione, attività quest'ultima che andava condotta alla stregua delle norme codicistiche e dei principi contabili internazionali, di cui la Corte d'appello avrebbe omesso l'individuazione.

In secondo luogo, con riferimento all'operazione di spin off immobiliare, secondo la difesa il comportamento dei vertici aziendali era stato qualificato come penalmente rilevante senza considerare quale impatto lo stesso avesse avuto sulla vigilanza degli organi di controllo, accreditando un'indebita equazione tra mere omissioni e condotte di ostacolo alla funzione di vigilanza, senza considerare come la consumazione del delitto di cui all'art. 2638 c.c. richiede l'adozione di condotte con modalità fraudolente ed una valutazione circa l'idoneità delle stessa ad ostacolo la vigilanza. La sentenza impugnata avrebbe perciò considerato quale criterio selettivo della condotta penalmente rilevante il solo elemento intenzionale, trascurando in toto la necessaria valutazione in concreto dell'attitudine decettiva della stessa, in assenza dell'esplicazione dei "mezzi fraudolenti" con cui l'occultamento penalmente rilevante sarebbe stato realizzato, con conseguente irragionevole assegnazione al mero silenzio tanto dell'attributo di "ostacolo", che dell'idoneità decettiva su una circostanza di cui era esclusa l'obbligatoria attestazione.

Infine, si contestava la ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato per avere la Corte d'appello risolto la prova del dolo specifico previsto dall'art. 2638, comma 1, c.c. nella mera oggettività dell'omissione informativa non dovuta ad errore, senza esplicare la finalità di ostacolo, in presenza del mero silenzio su una circostanza sopravvenuta di cui non era obbligatoria l'ostensione, dell'effettività dell'operazione e della corretta rappresentazione del patrimonio di vigilanza.

La questione e le soluzioni giuridiche

Il reato di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza è disciplinato è punito dall'art. 2638 c.c. che punisce gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza, o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali

a) nelle comunicazioni alle predette autorità previste in base alla legge, al fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza, espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza ovvero, allo stesso fine, occultano con altri mezzi fraudolenti, in tutto o in parte fatti che avrebbero dovuto comunicare, concernenti la situazione medesima, sono puniti con la reclusione da uno a quattro anni

b) in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità, consapevolmente ne ostacolano le funzioni.

La norma è diretta alla tutela delle funzioni di controllo attribuite a diverse autorità pubbliche, anche se non manca chi sostiene che la norma garantisce la protezione degli interessi patrimoniali facenti capo agli investitori.

Entrambe le ipotesi delittuose configurate dal nuovo art. 2638 c.c. hanno natura di reati propri, potendo essere realizzate solo dagli amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci, liquidatori di società ed enti nonché dagli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza e da quelli tenuti ad obblighi nei loro confronti – ovviamente, stante la previsione di cui all'art. 2639, comma 1, c.c., ai soggetti specificatamente indicati dall'art. 2638 c.c. vanno aggiunti quanti di fatto esercitano le relative funzioni di amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori pur senza essere in possesso della relativa qualifica.

La norma, per individuare le autorità il cui operato deve essere tutelato dalla disposizione in commento, fa generico riferimento alle “autorità pubbliche di vigilanza”, non specificando se con tale locuzione abbia inteso riferirsi alle sole autorità operanti nell'ambito dei mercati finanziari – come la Banca d'Italia o la Consob – ovvero richiamare tutte le autorità amministrative che con il tempo hanno fatto ingresso nel nostro ordinamento giuridico. La giurisprudenza si è pronunciata nel senso che la norma tutela qualsiasi autorità di vigilanza (Cass., sez. V, 31 ottobre 2014, in Mass. Uff., n. 262629, in relazione alla Federazione Italiana Gioco Calcio. In senso contrario, Cass., sez. V, 11 febbraio 2013, n. 28070, in Mass. Uff., n. 255565, con riferimento all'Autorità per l'energia elettrica ed il gas. In dottrina, FUX, Ostacolo all'esercizio delle funzioni pubbliche di vigilanza: nel pantheon delle autorità entra anche la F.I.G.C., in Cass. Pen., 2015, 3740).

Il primo comma della disposizione fa riferimento all'esposizione alle autorità di controllo, nelle relative comunicazioni previste dalla legge, di fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza nonché all'occultamento con altri mezzi fraudolenti di fatti concernenti la situazione medesima che si sarebbero dovuti comunicare.

In primo luogo, dunque, è punita la condotta consistente nel fornire, in presenza di situazioni tassativamente indicate da dettati normativi, una falsa informazione all'organo di controllo, dando vita così ad una falsità ideologica in scrittura privata, punita in deroga al principio generale della punibilità del falso ideologico solo se commesso in atti pubblici. Rispetto agli altri reati di falso presenti nel nostro ordinamento, l'ipotesi in esame si caratterizza per la particolare natura del contenuto della comunicazione, spesso relativa non ad un dato di fatto oggettivamente apprezzabili, ma ad elementi e vicende che non possono essere esternati a soggetti diversi dall'esponente senza che questi nella comunicazione non inserisca anche una valutazione degli eventi narrati; la circostanza che comunque espressamente il legislatore abbia previsto la penale rilevanza dell'esposizione di “fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni” fa sì che nell'ambito della disposizione in parola non abbiano ragione di porsi le perplessità – comunque giudicate infondate dalle Sezioni unite dalla Cassazione – che si sono poste con riferimento al reato di falso in bilancio di cui agli artt. 2621 e 2622c.c. dopo la riforma del 2015 (Cass., sez. un., 27 maggio 2016, in Mass. Uff., n. 266803).

Manca invece nella disposizione in commento un richiamo – presente invece nel similare delitto di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. – alla necessità che la condotta possegga una idoneità ingannatoria, sembrando così attribuire rilievo penale anche alla informazione inveritiera ma priva del requisito dell'insidiosità. Tuttavia fondatamente si sostiene che, essendo spesso la falsa comunicazione di dati contabili di difficile verificazione e rischiandosi di risolvere la decisione sulla sussistenza della falsità “nel differente apprezzamento della valutazione da parte dell'organo di controllo … appare opportuno corredare l'informazione falsa con il requisito della insidiosità” (MUSCO, I nuovi reati societari, Milano 2002, 189), anche se va considerato che la delimitazione delle condotte penalmente rilevanti può essere perseguita anche prestando attenzione al particolare ed intenso atteggiamento soggettivo del soggetto agente, il quale deve agire al fine di ostacolare le funzioni di vigilanza: è chiaro comunque che le indagini sul reale contenuto della volontà criminosa si riverbereranno anche sui caratteri materiali della condotta di falso, posto che se il mendacio degno di sanzione penale è solo quello espressione di una volontà di ostacolo delle funzioni di vigilanza, non potrà ritenersi penalmente significativa, già sotto il profilo oggettivo, la condotta che presenti connotati tali da apparire palesemente inidonea allo scopo.

E' sanzionato anche l'occultamento totale o parziale dei fatti che avrebbero dovuto essere comunicati, pur in presenza di due presupposti. In primo luogo, il nascondimento deve essere realizzato con mezzi fraudolenti, diversi dalla falsità: non una semplice omissione, dunque, ma un silenzio realizzato con strumenti decettivi, sì da non consentire, almeno in astratto, che il destinatario della comunicazione possa avvedersi della incompletezza della informazione fornita (LOVECCHIO MUSTI, Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638 c.c.), in AA.VV. (a cura di A. ROSSI), Reati societari, Torino 2005, 247. In giurisprudenza, Cass., sez. VI, 15 novembre 2010, in Mass. Uff., n. 248821, secondo cui ai fini della sussistenza del reato in parola mediante l'occultamento di fatti, è non solo necessario che gli stessi siano rilevanti per la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società e che la loro comunicazione sia effettivamente pertinente all'interpello dell'ente di vigilanza, ma altresì che la condotta sia corredata dal ricorso a mezzi fraudolenti e non si risolva nel mero silenzio sulla loro esistenza). La presenza di tale requisito è senz'altro opportuna, posto che conferisce una chiara autonomia della fattispecie penale rispetto alla violazione dei correlativi obblighi civilistici in materia di rapporti fra soggetti controllanti e le imprese operanti nel relativo settore, impedendosi così la contestazione del reato in discorso in presenza di una semplice inosservanza dell'obbligo di comunicazione; in particolare, la predetta previsione pare assolutamente idonea ad escludere che il delitto possa realizzarsi in caso di mancanza tout court della comunicazione obbligatoria posto che in questo caso manca completamente il connotato della fraudolenza e la violazione dell'obbligo è talmente palese da escludere ogni profilo di insidiosità, sì da non potersi parlare di falso in comunicazione, anche se sarà possibile sussumere la condotta omissiva sotto la fattispecie di cui al comma 2 dell'articolo in commento (in questo senso va letta la massima di Cass., sez. V, 19 dicembre 2012, in Mass. Uff., n. 254065, secondo cui il reato di ostacolo alle funzioni di vigilanza di autorità pubbliche previsto dal secondo comma dell'art. 2638 c.c. è integrato anche dalla mera omessa comunicazione di informazioni dovute).

In secondo luogo, è necessario che il comportamento omissivo investa un dato la cui comunicazione è obbligatoria. Non delimitando la norma in alcun modo la scaturigine del dovere, si ritiene che la fonte dell'obbligo di informazione non debba essere necessariamente di natura legislativa, e l'obbligo di esternazione sarà sussistente anche laddove l'informazione sia richiesta dalla autorità di vigilanza (ZANOTTI, Il nuovo diritto penale dell'economia, 2^ ed., Milano 2008, 188).

L'oggetto della falsa esposizione o dell'occultamento deve riguardare la situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza (per una definizione di tale nozione cfr. Cass., sez. VI, 15 novembre 2010, in Mass. Uff., n. 248821). Va ricordato che per la sussistenza della violazione in discorso non è necessario che la falsità interessi o investa una determinata grandezza dei dati di bilancio del soggetto sottoposto a vigilanza: detto altrimenti, non sono previste soglie di punibilità. Ciò posto, però, non è seriamente discutibile che anche in relazione al delitto in parola la condotta di mendacio deve determinare una significativa alterazione sensibile della situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza, ovvero anche per la sussistenza del reato in questione è necessario che il falso investa un dato qualitativamente rilevante della comunicazione. La negazione del requisito di rilevanza in relazione alla fattispecie in discorso ridurrebbe la stessa ad un reato di mera disobbedienza, avente contenuto formale e natura sanzionatoria rispetto alla semplice inosservanza delle istruzioni o norme regolamentari emanate dall'organo di controllo (in dottrina, si afferma che “potrà ammettersi la punibilità del falso solo ove la situazione economica reale [dell'impresa], correttamente esposta all'organo di controllo, avrebbe imposto l'adozione delle adeguate contromisure di vigilanza prudenziale”, per cui la rilevanza del dato mendace o di cui si è omessa la comunicazione va ricostruita alla luce delle finalità per cui la comunicazione stessa è imposta al soggetto sottoposto alla vigilanza, ed in considerazione dei provvedimenti che l'autorità di controllo avrebbe assunto una volta posta a conoscenza dell'elemento nascosto, ZANOTTI, Il nuovo, cit., 191).

La seconda ipotesi delittuosa richiamata nel comma 2 della disposizione concerne la frapposizione di ostacoli alle funzioni di vigilanza attribuite agli organi pubblici competenti.

La previsione in discorso dà vita, a differenza del primo comma che configura un reato di mera condotta, ad un illecito di evento, da individuarsi per l'appunto nell'ostacolo alle funzioni delle autorità di controllo. La condotta è descritta in termini estremamente sintetici dal legislatore, il quale perciò richiama un delitto a forma libera, realizzabile in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità; il reato sussiste dunque in presenza di una qualsiasi attività di ostacolo che sia idonea ad impedire all'autorità di vigilanza di esercitare le proprie funzioni e l'unico elemento di descrizione della condotta incriminata è rappresentato dal richiamo al comportamento omissivo, nel senso che, come accennato, il reato può essere realizzato anche mediante il mancato invio all'autorità di vigilanza delle comunicazioni imposte dalla legge o richieste dallo stesso organo di controllo (Cass., sez. V, 19 giugno 2014, in Mass. Uff., n. 262637).

L'ostacolo la cui sussistenza dà luogo alla violazione della disposizione consiste “in ogni tipo di attività che impedisce all'autorità pubblica di vigilanza di esercitare le sue funzioni”. Rientrano in tale ambito, senz'altro, i comportamenti ostruzionistici o di mancata collaborazione, come l'opposizione ad ispezioni, il ritardo nelle comunicazioni ecc. e secondo la Cassazione integra l'illecito in parola la condotta dell'amministratore di un istituto di credito il quale, attraverso l'artificiosa rappresentazione nel patrimonio di vigilanza di elementi positivi fittizi, costituiti da azioni ed obbligazioni acquistate da terzi con finanziamenti erogati in loro favore dallo stesso istituto creditizio, senza che tale circostanza venisse resa nota agli organi di vigilanza, abbia in tal modo occultato l'effettiva situazione economica della banca amministrata e determinato un effettivo e rilevante ostacolo alle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (Cass., sez. V, 26 maggio 2017, in Mass. Uff., n. 271442).

La natura dell'elemento soggettivo è radicalmente diversa a seconda della ipotesi delittuosa considerata. Con riferimento alla fattispecie di cui al comma primo, il dolo richiamato dal legislatore è senz'altro specifico: consapevole della mendacità delle comunicazioni effettuate in ossequio ad un obbligo di legge, ovvero dell'utilizzo di mezzi fraudolenti onde occultare informazioni dovute all'autorità di controllo, l'agente deve nel contempo anche essere animato dall'intento di ostacolare l'esercizio dei poteri di vigilanza attribuiti ai predetti pubblici soggetti. Giustamente alcuni autori evidenziano come sia necessario che “il dolo specifico contrassegni tutti gli elementi del fatto e non rimanga una semplice proiezione della condotta[, e ciò in quanto] la formula che fa riferimento al fine di ostacolare le funzioni di vigilanza non descrive soltanto la direzione della volontà verso un evento esterno, ma esprime in particolare l'idoneità della condotta a provocarlo e pertanto il fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza sottintende che la falsa comunicazione raggiunga quel minimum di obiettiva idoneità (rectius, pericolosità) per fuorviare effettivamente l'attività dell'autorità destinataria” (ZANOTTI, Il nuovo, cit., 190).

In relazione all'ipotesi di cui al secondo comma, invece, è attribuito rilievo penale alle sole condotte di ostacolo alle funzioni di vigilanza commesse con dolo sì generico, ma diretto, e quindi escludendo la responsabilità a titolo di dolo eventuale.

Nell'ambito dello studio dell'elemento soggettivo va esaminato il profilo relativo alla rilevanza che, nel reato in parola, potrà avere l'errore del soggetto agente circa gli obblighi di comunicazione su di esso gravanti: quid iuris quando la mancata o insufficiente informazione all'autorità di settore sia dipesa da una erronea interpretazione della norma fondante il relativo obbligo di divulgazione? La dottrina in prevalenza si è espressa nel senso che tale circostanza integra un errore rilevante ai sensi dell'art. 47, comma 3, c.p., coinvolgendo una normativa extrapenale non integratrice della fattispecie illecita (MEYER, Comunicazioni alla C.O.N.S.O.B. e rilevanza dell'errore su legge extrapenale, in Giur. Cost. 1987, II, 876; L. STORTONI, L'introduzione nel sistema penale dell'errore scusabile di diritto: significati e prospettiva, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec. 1988, 1350), ed anche in giurisprudenza si rinvengono – contrariamente all'orientamento generale diretto a delimitare fortemente l'ambito di applicazione del citato art. 47 comma 3 – aperture in tal senso.

Osservazioni

I ricorsi delle difese sono stati riconosciuti fondati, ritenendo corrette le censure svolte in riferimento all'integrazione del reato ex art. 2638 c.c.

La decisione della Cassazione, dopo una ricostruzione degli estremi del delitto di ostacolo all'attività di vigilanza condotta secondo le modalità descritte in precedenza, evidenzia come sia diversa l'onere motivazionale del giudice a seconda dell'ipotesi delittuosa presa in considerazione. Se si prende in considerazione l'ipotesi del primo comma, è sufficiente dimostrare la condotta, che deve integrare la falsità della comunicazione oppure, ove la condotta medesima si concretizzi nell'occultamento di fatti rilevanti, è necessari la dimostrazione dell'uso di "mezzi fraudolenti"; nel caso preso in esame dal secondo comma, quanto alla condotta, è sufficiente l'omissione di comunicazioni dovute, ma occorre dimostrare anche l'evento rappresentato dall'"ostacolo" alle funzioni, oltre che dall'impedimento "in toto" dell'esercizio della funzione di vigilanza, dall'effettivo e rilevante ostacolo frapposto al dispiegarsi della funzione, con comportamenti di qualsiasi forma, comunque tali da determinare difficoltà di considerevole spessore o un significativo rallentamento - non riducibile al mero ritardo - dell'attività di controllo.

Posto ciò, la Cassazione osserva in primo luogo come non si comprenda a quale delle due condotte delineate dalla disposizione incriminatrice la Corte d'appello avesse inteso ricondurre la concreta fattispecie sottoposta al suo giudizio, ovvero se fosse stata ritenuta integrata un'omessa comunicazione di informazioni dovute o il ricorso a mezzi fraudolenti volti ad occultare l'esistenza di fatti rilevanti per la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, trasfusi in bilancio mediante appostazione della relativa plusvalenza. Da ciò deriva la conseguenza che non potrebbe, a dire della Cassazione, valutarsi come completo o insufficiente il percorso argomentativo utilizzato per pervenire alla condanna, posto che, come detto, il suo contenuto è diverso a seconda dalla violazione contestata fra le due previste dai due commi dell'art. 2638 c.c.

A questo proposito, la Suprema Corte evidenzia come nella pronuncia impugnata non sia presente alcuna considerazione sulla pericolosità in concreto della condotta omissiva, ed anzi nella decisione è privilegiata una dimensione postuma di danno, che si pone tuttavia in termini ultronei rispetto al reato di mera condotta ritenuto. La natura di reato di pericolo concreto e di mera condotta della fattispecie prevista dal comma 1^ dell'art. 2638 c.c. avrebbe dovuto comportare , invece, che la concreta idoneità offensiva dell'omissione andasse essere accertata sulla base del criterio della prognosi postuma, volto a verificare se - con riferimento all'oggetto della vigilanza - gli effetti decettivi dei fatti comunicativi, prevedibili in concreto ed "ex ante" quali conseguenze della condotta dell'agente, fossero o meno stati potenzialmente idonei a provocare una sensibile alterazione della predetta funzione di vigilanza rispetto a quella svolta secondo un corretto processo comunicativo.

Inconsistente è ritenuta anche la motivazione in tema di dolo specifico, che la sentenza di condanna risolve, in sostanza, nella mera e formale omissione. Infatti, da un lato i giudici di appello hanno riconosciuto che la circostanza asseritamente omessa – ovvero la concessione di linee di credito finalizzate alla partecipazione a terzi che poi acquistavano l'immobile della banca cui si riferiva lo spin off - fosse informazione comunque resa accessibile all'organo di vigilanza, ma poi hanno sanzionato la mera non inclusione della stessa informazione in una comunicazione resa alla Banca d'Italia, in tal modo arrestando la propria valutazione sul dato meramente formale, senza confrontarsi con la circostanza per cui l'esternalizzazione del patrimonio immobiliare fosse stata operazione non solo indicata, ma persino guidata dall'organo di vigilanza.

Quanto alla correttezza dell'appostazione in bilancio dei crediti deteriorati, il focus dell'imputazione risultava incentrato sulla falsità del bilancio, nella parte relativa all'esposizione del patrimonio di rischio che si assumeva essere stato sovrastimato, in conseguenza della sottovalutazione dei crediti deteriorati. Secondo la Cassazione, in effetti, i criteri di classificazione e stima dei crediti deteriorati, adottati negli anni in contestazione, si fossero rivelati incongrui rispetto alla determinazione svolta in sede ispettiva, e senza che alle segnalazioni di sia seguita una puntuale e tempestiva revisione, ma tale circostanza è ritenuta non rilevante e comunque non tale da integrare la fattispecie criminosa.

Infatti, secondo la Cassazione, i giudici di appello qualificano come mendace la valutazione dei crediti in sofferenza facendo riferimento ad “una prospettiva prudenziale di valutazione … ancorata … alla vincolatività dei criteri seguiti ex post dall'organo di vigilanza in sede ispettiva, senza la delibazione di ragionevolezza ex ante delle determinazioni assunte dalla vigilata. In tal guisa, il richiamato criterio prudenziale finisce per risolversi nella mera predilezione dei parametri utilizzati dall'organo di vigilanza, senza l'esplicita disamina della portata, essenzialmente valutativa, dei criteri rimessi alla vigilata, e della ragionevolezza ex ante delle stime censurate … [peraltro,] senza contestualizzare temporalmente i difformi criteri adottati dall'organo di vigilanza, omettendo di confutare l'obiezione difensiva, finalizzata alla dimostrazione dell'utilizzazione di regole estimative, nella versione introdotta in epoca successiva alla redazione del bilancio, contenenti criteri più rigorosi per l'iscrizione.”. In questo modo, però, si dimentica che da tempo la giurisprudenza sostiene che “il falso valutativo è configurabile laddove il giudizio contraddica parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, ovvero si fondi su premesse contenenti false attestazioni; il giudice ha, tuttavia, l'onere di rendere adeguata motivazione in ordine ai criteri utilizzati per ritenere che, alla luce delle specifiche emergenze fattuali, il soggetto chiamato ad esprimere una valutazione, pur connotata da un margine elastico di discrezionalità, abbia formulato consapevolmente una valutazione falsa” (Cass., sez. V, 13 gennaio 2020, n. 18521).

In questo modo, inoltre, la decisione di condanna finisce per risolvere l'elemento soggettivo nel fatto stesso della falsità e nell'inosservanza del generico dovere di collaborazione con le autorità di vigilanza, in luogo della consapevole violazione dell'obbligo di dichiarare il vero previsto dalla legge, perpetrata ricorrendo a mezzi fraudolenti e finalizzata all'ostacolo.

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