L'amministratore risponde del danno provocato da scelte assunte in conflitto d'interessi

07 Aprile 2023

La Cassazione si pronuncia su una fattispecie relativa alla responsabilità dell'amministratore di una s.r.l. che compia atti pregiudizievoli per la società, allorché venga denunciata la sussistenza di un conflitto d'interessi.
Massima

Tra le condotte illecite imputabili a chi amministra una società e rilevanti ai sensi dell'art. 2476 c.c., rientra l'agire dell'amministratore – di diritto o di fatto – in conflitto d'interessi, per conto proprio o per conto altrui. L'amministratore, dunque, risponde dei danni causati alla società, qualora abbia fatto prevalere l'interesse extrasociale, agendo senza che la scelta compiuta abbia un fondamento razionale o non sia accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta, ma sia, al contrario, connotata da imprudenza (o, addirittura, da dolo).

Il caso

La socia di una società a responsabilità limitata conveniva in giudizio l'ex amministratore e l'amministratrice in carica che gli era subentrata, perché venissero condannati al risarcimento del danno provocato dalle condotte loro addebitate.

A fondamento della domanda, in particolare, veniva rappresentato che, una volta adottato dal Tribunale di Napoli – ai sensi dell'art. 2476, comma 3, c.c. – il provvedimento di revoca cautelare per mala gestio dell'ex amministratore, questi aveva continuato, di fatto, a gestire la società, sostituendo a sé, quale propria longa manus, una sua dipendente presso altre società. Per tale motivo, secondo la prospettazione attorea, la società si era determinata a concludere un accordo transattivo con l'ex amministratore, in pendenza di una controversia per il pagamento dei compensi dallo stesso maturati per l'attività di gestione svolta tra il 2005 e il 2010, che aveva comportato un esborso di € 146.000,00 (a fronte della maggiore somma di € 292.750,93 inizialmente richiesta dall'ex amministratore).

Secondo l'attrice, il conflitto d'interessi sotteso all'accordo raggiunto tra l'ex amministratore e la società avrebbe reso illegittima la decisione della nuova amministratrice di concludere la transazione, sicché era dovuto il risarcimento del danno arrecato al patrimonio sociale.

La domanda veniva rigettata dal Tribunale di Napoli, con sentenza confermata all'esito del giudizio d'appello.

La socia, quindi, proponeva ricorso per cassazione, lamentando che non fosse stato colto il carattere abusivo della scelta gestoria contestata, che aveva consentito all'ex amministratore di ottenere, per effetto della conclusione della divisata transazione, un compenso non deliberato dall'assemblea e comunque sproporzionato, risultando quattro volte superiore a quello corrisposto alla nuova amministratrice.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Con l'ordinanza che si annota, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso, ritenendo che i giudici di merito, inquadrati correttamente i fatti, avessero altrettanto correttamente escluso la ravvisabilità di un conflitto d'interessi giuridicamente rilevante.

Sintetizzando i passaggi nei quali è andato articolandosi il ragionamento posto a fondamento della decisione assunta, nella pronuncia è stato affermato che:

1) il conflitto d'interessi ricorre in presenza di un rapporto d'incompatibilità fra le esigenze del rappresentato e quelle del rappresentante o di un terzo, con riferimento alla specifico atto considerato;

2) in ambito societario, dunque, il conflitto d'interessi sussiste quando un interesse non sociale – ossia del tutto estraneo al contratto di società – si ponga, di fatto, in contrasto con uno qualsiasi degli interessi riconducibili a tale contratto;

3) l'amministratore che ponga in essere un atto gestorio in conflitto d'interessi, che non risponda in alcun modo all'interesse della società e che risulti per essa pregiudizievole, compie una violazione del dovere di lealtà ed è quindi responsabile dei danni provocati da tale condotta;

4) è onere di chi allega la sussistenza del conflitto d'interessi dare evidenza degli elementi dai quali desumere la violazione del dovere di lealtà, che, nel caso di specie, non erano stati forniti.

Osservazioni

La Corte di cassazione offre importanti precisazioni in merito alla responsabilità dell'amministratore che ponga in essere atti pregiudizievoli per la società, allorché venga denunciata la sussistenza di un conflitto d'interessi.

La disciplina del conflitto d'interessi, con particolare riguardo alle società a responsabilità limitata, si rinviene nell'art. 2475-ter c.c., norma che si compone di due regole:

- la prima, contenuta nel comma 1, riferita all'ipotesi in cui il contratto sia stato concluso dall'amministratore unico, dall'amministratore delegato dotato di poteri di rappresentanza o dall'amministratore in regime di amministrazione disgiuntiva con poteri rappresentativi, ossia al di fuori di situazioni nelle quali venga in considerazione una deliberazione collegiale;

- la seconda, contenuta nel successivo comma 2, riferita, invece, a decisioni adottate dal consiglio di amministrazione.

Secondo quanto stabilito dal medesimo art. 2475-ter c.c., il contratto concluso dall'amministratore in conflitto d'interessi è annullabile (a condizione che la situazione di conflitto fosse conosciuta o conoscibile dal terzo), analogamente a quanto disposto dall'art. 1394 c.c. in materia di rappresentanza negoziale; in caso di decisione adottata dal consiglio di amministrazione con il voto determinante di un amministratore in conflitto d'interessi con la società, da cui derivi a quest'ultima un danno patrimoniale (effettivo e non meramente potenziale), invece, gli altri amministratori ovvero i sindaci o i revisori – se nominati – possono impugnarla, restando tuttavia salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della decisione.

È di tutta evidenza, dunque, che la legittimazione ad attivare i rimedi contemplati dall'art. 2475-ter c.c. non compete ai soci, bensì unicamente:

- alla società o al curatore speciale nominato ai sensi dell'art. 78 c.p.c., in presenza di un amministratore unico (nell'ipotesi prevista dal comma 1);

- agli amministratori (diversi da quello che si trovava in conflitto d'interessi), ai sindaci e ai revisori (nell'ipotesi di cui al comma 2).

Per questa ragione, rileva la precisazione, che funge da premessa del ragionamento svolto nell'ordinanza che si annota, per cui l'agire in conflitto d'interessi da parte dell'amministratore integra anche una condotta illecita, suscettibile di essere contestata e fatta valere nell'ambito dell'azione di responsabilità disciplinata dall'art. 2476 c.c., che – a differenza di quella contemplata dall'art. 2475-ter c.c. – ciascun socio può promuovere, da un lato, per consentire alla società di ottenere il risarcimento del danno provocatole dalla condotta infedele e, dall'altro lato, per conseguire il ristoro di quei pregiudizi che gli atti dolosi o colposi degli amministratori hanno arrecato direttamente al suo patrimonio.

In altre parole, l'azione caducatoria o demolitoria exart. 2475-ter c.c. non esclude quella risarcitoria exart. 2476 c.c.

Venendo al cuore del problema affrontato dai giudici di legittimità, va rammentato, in linea generale, che il conflitto d'interessi cui fa riferimento l'art. 1394 c.c. ricorre quando vi sia incompatibilità tra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante o di un terzo che egli, a sua volta, rappresenti; una tale incompatibilità – che non può desumersi dal mero carattere svantaggioso dell'atto, ma deve sostanziarsi nell'inconciliabilità degli interessi dei quali sia portatore il rappresentante con quelli del rappresentato, anche se il danno che ne consegue a quest'ultimo non sia connotato dal carattere dell'attualità – va riscontrata non in termini astratti e ipotetici, ma con precipuo riferimento al singolo atto considerato, essendo così ravvisabile quando dal contratto l'utile di un soggetto passi attraverso il sacrificio dell'altro.

Pertanto, occorre considerare e valutare non solo e non tanto la formale antiteticità di posizioni (che può, al limite, valere come semplice elemento presuntivo della sussistenza di un conflitto d'interessi, posto che, nei contratti sinallagmatici, è fisiologico che al vantaggio economico prodotto da una condizione contrattuale a beneficio di una parte corrisponda specularmente una minore convenienza per l'altra), bensì il contenuto e le modalità dell'operazione concretamente posta in essere.

Passando all'ambito societario, il conflitto d'interessi rileva quando, nell'ambito di un atto posto in essere dall'organo gestorio, a uno qualsiasi degli interessi riconducibili al contratto di società se ne contrapponga uno a esso completamente estraneo, per il perseguimento del quale l'amministratore assuma un comportamento in sé non vietato dalla legge o dallo statuto, ma da cui dovrebbe nondimeno astenersi, in ossequio al dovere di lealtà che discende dal precetto di non agire in conflitto d'interessi con la società amministrata.

Il compimento di un simile atto, quindi, costituisce un illecito, suscettibile di fondare una responsabilità risarcitoria dell'amministratore infedele, in quanto sia fornita la prova degli elementi che consentono di ravvisare la violazione del dovere di lealtà.

Più precisamente, adducendosi la conclusione di un contratto in conflitto d'interessi, non basta la dimostrazione della ricorrenza di un interesse diverso o contrario, rispetto a quello della società, riconducibile in capo al terzo, ma è necessario che sussista una vera e propria incompatibilità, tale per cui l'accordo così concluso non risponda ad alcun interesse della società e risulti per essa pregiudizievole.

Per questi motivi, nel caso di specie, l'azione promossa dalla socia, che lamentava come la transazione conclusa dalla società – per il tramite della nuova amministratrice – con l'ex amministratore fosse, in realtà, volta a favorire unicamente gli interessi di quest'ultimo, non è stata reputata meritevole di accoglimento: un conto, infatti, è sostenere che, con un simile accordo, fosse stato attribuito un compenso non dovuto (per esempio, perché non era stata svolta l'attività che con esso si intendeva remunerare, con la conseguenza che il depauperamento del patrimonio sociale si sarebbe prodotto in assenza di un titolo che lo giustificasse, a esclusivo beneficio dell'ex amministratore); un conto è sollevare obiezioni in merito alla quantificazione di tale compenso, che, tuttavia, si rivelino poco o punto pertinenti (com'è stato ritenuto nella fattispecie esaminata dall'ordinanza che si annota, anche alla luce del fatto che l'importo corrisposto all'ex amministratore è risultato di gran lunga inferiore a quello inizialmente richiesto, così da farlo ritenere non irragionevole e non propositivo del perseguimento di un interesse extrasociale). Solo nel primo caso, dunque, si sarebbe potuta ravvisare, al limite, la sussistenza di un conflitto d'interessi sanzionabile con la condanna al risarcimento del danno provocato alla società.

Conclusioni

Poiché la verifica della ricorrenza di un conflitto d'interessi dell'amministratore con la società implica una valutazione involgente in qualche modo il sindacato dell'operazione compiuta, dovendosi pur sempre riscontrare se sia predicabile o meno la violazione dei doveri di diligenza e prudenza posti a carico dell'organo gestorio, la Corte di cassazione non ha mancato di evidenziare che, in questi casi, la sfera dei poteri d'indagine del giudice si amplia, dovendosi accertare l'eventuale irragionevolezza della scelta, secondo un giudizio ex ante, tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive normalmente richieste per quel tipo di scelta, ovvero del malaccorto apprezzamento dei margini di rischio connessi all'operazione.

Riecheggiano, in questo passaggio, i principi affermati dalla giurisprudenza con riferimento alla cosiddetta business judgement rule, in base alla quale le scelte di carattere gestorio, essendo a esclusivo appannaggio degli amministratori della società, non possono essere sindacate, se assunte in buona fede e in base a un processo razionale, né dai soci, né dai creditori sociali, né dagli organi giurisdizionali, dal momento che chiunque giudicasse gli atti o i fatti compiuti dagli amministratori nell'esercizio del loro ufficio sovrapporrebbe ex post il proprio apprezzamento a quello dell'organo gestorio, sulla base di criteri di opportunità e di convenienza del tutto soggettivi.

Anche nel caso in cui l'azione di responsabilità promossa nei confronti dell'amministratore sia fondata sul compimento di un'operazione in conflitto d'interessi, pertanto, occorre pur sempre avere riguardo (piuttosto che alla mera convenienza economica) alla razionalità e alla coerenza della decisione assunta, ovvero all'assenza di arbitrarietà e di avventatezza, alla luce delle condizioni oggettive e soggettive riscontrabili al momento del compimento dell'atto, sulla scorta di quanto era ragionevole attendersi in base alle regole di comune esperienza.

Inquadrando la responsabilità dell'amministratore che abbia agito in conflitto d'interessi nell'alveo dell'art. 2476 c.c., dunque, i giudici di legittimità hanno affermato che, in questi casi, l'amministratore è tenuto a rispondere dei danni causati alla società ogni volta che abbia fatto prevalere l'interesse extrasociale, agendo senza che la scelta compiuta abbia un fondamento razionale o non sia accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta, ma risulti, al contrario, connotata da imprudenza, avventatezza, o – addirittura – da dolo e si traduca, così, in comportamenti palesemente contrari ai doveri connaturati alla funzione amministrativa, al di fuori di una logica di efficiente e corretta gestione imprenditoriale.

Sempre in tema di responsabilità degli amministratori, in caso di compimento di atti gestori non funzionali alla conservazione del patrimonio sociale dopo il verificarsi della causa di scioglimento di cui all'art. 2484, comma 1, n. 4), c.c., la Corte di cassazione, con la sentenza n. 6893 dell'8 marzo 2023, ha affermato che, pur essendo di natura extracontrattuale, essa non va ricondotta allo schema generale dell'art. 2043 c.c., in quanto, agendo gli amministratori nel compimento di tali operazioni non in proprio, ma pur sempre in qualità di organi investiti della rappresentanza della società, non si verte in tema di fatto illecito, nel senso considerato dal citato art. 2043 c.c., sicché chi agisce in giudizio per il risarcimento del danno è onerato soltanto della prova della novità dell'operazione, mentre spetta agli amministratori convenuti provare i fatti estintivi o modificativi del diritto azionato, mediante la dimostrazione che quegli atti erano giustificati dalla finalità liquidatoria, in quanto non connessi alla normale attività produttiva, non comportanti un nuovo rischio d'impresa o necessari per portare a compimento attività già iniziate.

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