Il mero divario reddituale tra due coniugi non giustifica il riconoscimento dell'assegno di divorzio
16 Maggio 2023
Massima
La principale e imprescindibile funzione assistenziale dell'assegno comporta la necessità di valutare l'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge che lo richiede e l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, posto che la soglia dell'indipendenza economica deve intendersi come possibilità di vivere autonomamente e dignitosamente, avendo riguardo alle indicazioni provenienti dalla coscienza sociale. Il caso
La Corte d'Appello di Ancona accoglie l'appello proposto da Tizia nei riguardi di Caio verso la pronuncia del Tribunale di Ascoli Piceno con la quale era stata respinta la domanda di assegno divorzile. Il Giudice di seconde cure ritiene, sulla scorta delle risultanze di causa, che anche se la durata del matrimonio sia stata contenuta (sei anni), sussistano i presupposti per l'attribuzione dell'emolumento ai sensi della legge 898 del 1970, art. 5, comma 6, in funzione assistenziale a fronte della non autosufficienza economica del coniuge richiedente e dell'adeguatezza del reddito percepito dall'ex marito (1.400 euro euro). Contro tale sentenza Caio propone ricorso per cassazione. La Suprema Corte accoglie il ricorso, affermando che le censure sono fondate. La questione
Può il mero squilibrio fra le due posizioni reddituali dei coniugi giustificare il riconoscimento dell'assegno di divorzio ovvero il criterio valutativo è composito e dar rilievo a più fattori? Le soluzioni giuridiche
La pronuncia qui in commento ci offre lo spunto per tornare ad affrontare un tema che negli ultimi anni ha ciclicamente richiamato l'attenzione di Tribunali e della Corte di Cassazione: l'assegno di divorzio. Sempre più spesso in punto di assegnazione di tale assegno sono sorti contrasti in quanto il riconoscimento di tale diritto non può prescindere dalla percezione di un valore, il valore della famiglia, che è in continuo mutamento. Ci sono stati e ci sono solidi punti fermi, ma vi sono stati anche continui ripensamenti che hanno richiesto l'intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, attraverso un percorso evolutivo, hanno provato a riportare ordine negli orientamenti della giurisprudenza che avevano subìto diverse inversioni di rotta. Con la famosa sentenza delle Sezioni Unite, la n. 18287 dell'11 luglio 2018, è stato risolto, almeno in parte, un contrasto di giurisprudenza particolarmente sentito, stabilendo che all'assegno debba attribuirsi una funzione assistenziale e, nella stessa misura, compensativa e perequativa. L'innovativo principio di diritto cui è giunta con tale pronuncia la Suprema Corte, e a cui peraltro si allinea la pronuncia qui in commento, ha tentato di riportare ordine negli ordinamenti giurisprudenziali, affermando che i criteri riportati nella legge 898/1970, all'art. 5, comma 6, devono essere considerati univocamente. Il legislatore impone una prima indagine su uno squilibrio reddituale dei coniugi, attraverso documentazione fiscale e attraverso poteri officiosi, dalla quale può derivare senz'altro un primo profilo assistenziale dell'assegno, o dalla quale può emergere una situazione equilibrata. Tuttavia, in entrambe le ipotesi, il parametro in base al quale si deve decidere sull'assegno non può basarsi esclusivamente su questo, essendo necessario prendere in considerazione anche altri elementi, quali il contributo del coniuge richiedente nella gestione familiare, nella creazione del patrimonio coniugale, ma anche personale. Questo contributo nasce dalle decisioni comuni, dalla gestione del rapporto coniugale, dall'assolvimento dei doveri indicati nell'art. 143 c.c. Si tratta di una decisione che non si basa solo sulla funzione assistenziale, ma ha natura composita e considera anche quanto dal coniuge richiedente è stato sacrificato, o meglio investito, nella gestione e nella vita familiare. Ai fini del riconoscimento dell'assegno, si deve adottare un criterio che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economiche e patrimoniali, dia rilievo anche al contributo fornito dall'ex consorte richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future e, non da ultimo, all'età dell'avente diritto. La suddetta storica sentenza si ispira a principi costituzionali di dignità e di solidarietà che, si reputa, debbano caratterizzare il rapporto anche dopo lo scioglimento del vincolo ma occorrerà dare in giudizio la prova del c.d. sacrificio condiviso che può essere dimostrato rifacendosi a tre criteri: il fatto notorio, la mancata contestazione e la presenza di indizi precisi e concordanti. Vengono, in tale rilevante pronuncia, equamente considerate la funzione compensativa e quella perequativa: “Si assume come punto di partenza il profilo assistenziale, valorizzando l'elemento testuale dell'adeguatezza dei mezzi e della capacità o incapacità di procurarseli, questo criterio deve essere calato nel “contesto sociale” del richiedente, un contesto composito formato da condizioni strettamente individuali e da situazioni che sono conseguenza della relazione coniugale, specie se di lunga durata e specie se caratterizzata da uno squilibrio nella realizzazione personale e professionale fuori del nucleo familiare. Lo scioglimento del vincolo incide sullo status, ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare. Il profilo assistenziale deve, pertanto, essere contestualizzato con riferimento alla situazione effettiva nella quale si inserisce la fase di vita post matrimoniale, in chiave perequativa-compensativa” (Cass. sez. un., n. 18287/2018). Ricordiamo che la Cassazione, in tale caso specifico, aveva accolto il ricorso della ex-moglie cassando, con rinvio, la sentenza impugnata in quanto “fondata esclusivamente sul criterio dell'autosufficienza economica, escludendo dalla propria indagine l'accertamento dell'eventuale incidenza degli indicatori concorrenti contenuti nell'art. 5, comma 6 della legge n. 898/1970 ed in particolare quello relativo al contributo fornito dalla richiedente alla conduzione della vita familiare e alla conseguente formazione del patrimonio comune e personale dell'altro ex coniuge”. Osservazioni
Partiamo dal considerare che la legge 1° dicembre 1970, n. 898, ha introdotto lo scioglimento del matrimonio per divorzio. Tale normativa ha avuto una portata dirompente nel nostro ordinamento giuridico, tenuto conto che il nostro codice civile del 1942 sanciva che il matrimonio “non poteva sciogliersi che con la morte di uno dei due coniugi”. Il divorzio, quale rimedio alla cessazione del rapporto coniugale, può oggi essere richiesto da un coniuge verso l'altro nei soli casi tassativamente previsti dall'art. 3 della legge sul divorzio e sempre che, come requisito imprescindibile, il giudice accerti che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non possa essere mantenuta o ricostituita. Nell'ordinamento italiano la causa di divorzio di gran lunga prevalente è la separazione legale dei coniugi che duri almeno da un anno (prima dell'ultima novella sul c.d. divorzio breve, portata dalla legge n. 55/2015, la separazione personale dei coniugi, giudiziale o consensuale omologata, doveva essere protratta ininterrottamente per almeno tre anni) dal giorno della comparizione delle parti davanti al presidente del Tribunale nel caso di separazione giudiziale. Se i coniugi hanno, al contrario, deciso di procedere per via consensuale, il periodo di tempo è ridotto a sei mesi e tale periodo si è esteso alle nuove procedure stragiudiziali introdotte con la legge 10/11/2014 (con la quale si ha l'introduzione dello strumento della negoziazione assistita, e ancora, la procedura amministrativa davanti all'ufficiale di stato civile, ai sensi della legge n. 162/2014, artt. 6 e 12, a mezzo della quale avviene la determinazione degli assegni post coniugali. Se il matrimonio, in caso di divorzio, cessa di produrre i suoi effetti sul lato personale del rapporto tra i coniugi, differente è il discorso sul piano economico. Infatti, al termine del procedimento di divorzio, il giudice può statuire che una delle due parti corrisponda mensilmente, o in un'unica soluzione, una somma di denaro all'altra, stabilendo, appunto, il riconoscimento dell'assegno di divorzio a favore dell'altra parte, quando quest'ultima non abbia i mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive. L'assegno divorzile è, dunque, una delle principali conseguenze di carattere patrimoniale del divorzio. Il testo originario dell'art. 5, comma 6 della legge n. 898 del 1970, che ha introdotto l'assegno divorzile, enuncia che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l'obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell'altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi…”. Leggendo la norma si coglie l'individuazione di criteri attributivi per accertare il diritto e criteri determinativi per accertare il quantum. In principio quindi la Corte si era orientata nel riconoscere all'assegno di divorzio una natura mista, senza troppe distinzioni tra criteri attributivi e criteri determinativi. Infatti, la Corte – già nel 1974 – affermò che l'assegno avesse natura composita “…assistenziale in senso lato, con riferimento al criterio che fa leva sulle condizioni economiche dei coniugi; risarcitoria in senso ampio, con riguardo al criterio che concerne le ragioni della decisione; compensativa, per quanto attiene al criterio del contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla condizione della famiglia e alla formazione del patrimonio. Il giudice, che pur deve applicare tali criteri nei confronti di entrambi i coniugi e nella loro necessaria coesistenza, ha ampio potere discrezionale, soprattutto in ordine alla qualificazione dell'assegno” (Cass. sez. un. 1194/1974; conf. Del 1975). Infine, non si può di certo tralasciare l'incidenza che il novellato orientamento della Suprema Corte in tema di assegno di divorzio ha avuto su istituti affini e, in particolare, sull'assegno di mantenimento. La Cassazione, già nella pronuncia a Sezioni Unite, aveva evidenziato come i nuovi criteri interpretativi dovessero valere esclusivamente per la determinazione dell'assegno di divorzio e non anche per l'assegno di mantenimento, stante la differenza di fondo tra i due istituti. Nella prassi, questa rigida impostazione ha condotto a un'irragionevole contrapposizione tra i due assegni, con conseguenze spesso paradossali: poteva accadere, per esempio, che in giudizio, trattandosi delle stesse parti e dello stesso rapporto matrimoniale, che al coniuge richiedente ed economicamente più debole venisse dapprima riconosciuto un assegno di mantenimento anche molto elevato per il tenore di vita goduto dai coniugi in costanza matrimoniale e, successivamente, essere negato l'assegno divorzile. La giurisprudenza, tenuto conto di tali paradossali situazioni, ha poi pian piano mutato orientamento e possiamo considerare come questa, in particolare, sia ancora - e forse sempre - una questione in continuo divenire poiché strettamente legata e connessa ai cambiamenti della famiglia e della famiglia nella nostra società. Riferimenti
A. Torrente – P. Schelisger, Manuale di diritto privato, i rapporti di famiglia, XXIV ediz., 2018; C. Rimini, in Famiglia e diritto, 2021, 270 e ss.; C.M. Bianca, Le Sezioni unite sull'assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Familia e diritto, 2018, 956; I. Mariani, Assegno di divorzio e convivenza di fatto: brevi note critiche alla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili n. 32198/2021, in Questione giustizia, 7 dicembre 2021; I. Marconi, Famiglia e successioni, in Altalex, 14 maggio 2019. |