Rifiuto del difensore d'ufficio di ricevere le notifiche

Filippo Lombardi
19 Maggio 2023

Sono state rimesse alle sezioni unite due questioni sulle modalità comunicative conseguenti e sull'abnormità della regressione del procedimento.
Il caso di specie e le questioni rimesse al vaglio delle sezioni unite

Il giudice di pace di Livorno dichiarava la nullità dell'atto di citazione a giudizio poiché la relativa notifica – eseguita nei confronti dei due imputati – era stata svolta mediante consegna al difensore d'ufficio domiciliatario senza che quest'ultimo avesse comunicato il proprio assenso in ossequio all'art. 162 comma 4-bis c.p.p.

Nel proprio ricorso per cassazione, il pubblico ministero evidenziava l'abnormità dell'ordinanza, per non avere il giudice tenuto conto dell'orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel caso di rifiuto da parte del difensore indicato quale domiciliatario dall'indagato, occorrerebbe comunque effettuare la notifica nei confronti del legale, ai sensi dell'art. 161 comma 4 c.p.p., non avendo l'indagato dichiarato o eletto validamente alcun domicilio nonostante il rituale invito; inoltre, secondo il ricorrente, il giudice avrebbe omesso di attivare i propri poteri ex art. 29 comma 3, d.lgs. 274/2000 (che ricalca il modello tracciato nel rito ordinario dall'art. 143 disp. att. c.p.p.). Con queste gravi violazioni procedurali, egli avrebbe, in estrema sintesi, cagionato una indebita e insanabile regressione del procedimento.

Con l'ordinanza n. 9038 del 2023, la prima Sezione della Corte di legittimità ha rimesso alle sezioni unite i seguenti quesiti:

1) se il provvedimento con cui il giudice del dibattimento dichiara la nullità dell'atto di citazione a giudizio - nella specie quello con cui il giudice di pace ha dichiarato la nullità dell'autorizzazione alla presentazione immediata dell'imputato davanti al Giudice di pace ex art. 20-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 - per vizi relativi alla sua notificazione e abbia disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero sia abnorme perché avulso dal sistema processuale e comunque idoneo a determinare la stasi del procedimento oppure costituisca espressione dei poteri riconosciuti al giudice dall'ordinamento;

2) se debba procedersi alla notificazione dell'atto introduttivo del giudizio ai sensi degli artt. 157 c.p.p. ed eventualmente 159 c.p.p., oppure effettuarsi la notificazione allo stesso difensore ai sensi dell'art. 161, comma 4, c.p.p. nell'ipotesi in cui l'imputato elegga domicilio presso il difensore d'ufficio e quest'ultimo non accetti la veste di domiciliatario, come consentito dal comma 4-bis dell'art. 162 c.p.p., introdotto della legge 23 giugno 2017, n. 103, e l'imputato non provveda ad effettuare una nuova e diversa elezione di domicilio.

L'abnormità della restituzione degli atti previa (errata) declaratoria di nullità dell'atto introduttivo per vizi della notifica

Quanto alla prima questione, la giurisprudenza dominante ritiene abnorme l'ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero per vizi della procedura notificatoria, in quanto essa si collocherebbe al di fuori del sistema processuale determinando una indebita regressione del procedimento: il giudice infatti ha il dovere di rinnovare la notifica rimuovendo ogni profilo di irregolarità, ma non il potere di restituire gli atti al pubblico ministero (Cass. pen., sez. I, 30 settembre 2021, n. 43486; Cass. pen., sez. III, 16 maggio 2018, n. 28779, CED 273059; Cass. pen., sez. un., 29 maggio 2002, n. 28807, CED 221999); non sarebbe invece abnorme, ma soltanto illegittima, la trasmissione degli atti al pubblico ministero quando quest'ultimo abbia omesso del tutto l'attività di notificazione e il giudice, rilevata la violazione dell'art. 553 c.p.p., gli abbia restituito gli atti, senza dichiarare nullo il decreto di citazione (Cass. pen., sez. V, 5 novembre 2014, n. 52255, CED 262105).

Stando all'orientamento minoritario, al fine di prevenire l'indebita elusione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione ex art. 568 c.p.p., la categoria dell'abnormità andrà interpretata restrittivamente, sondando se l'atto giudiziale esuli dagli schemi procedurali o comunque abbia comportato una stasi insuperabile del procedimento, per essere il pubblico ministero posto nella condizione di dover compiere un atto nullo (Cass. pen., sez. I, 1° dicembre 2010, dep. 2011, n. 180, CED 249433). I sostenitori di questa impostazione affermano che, ove si verta in tema di regressione del procedimento per errata dichiarazione di nullità dell'atto introduttivo discendente da vizi della notifica, la richiamata abnormità non si verifica, posto che la trasmissione degli atti al pubblico ministero rientra tra i poteri giudiziali, mentre la regressione della procedura sarebbe superabile col compimento di ulteriori attività propulsive da parte dell'organo di accusa (Cass. pen., sez. un., 18 gennaio 2018, n. 20569, CED 272715; Cass. pen., sez. II, 17 luglio 2020, n. 24633, CED 279668; Cass. pen., sez. II, 14 gennaio 2020, n. 10358, CED 278427; Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2009, n. 25957, CED 243590).

Occorre intanto osservare, al solo fine di individuare una soluzione prospettabile, che lo scivoloso tema dell'abnormità degli atti processuali è transitato attraverso una copiosa evoluzione giurisprudenziale e dottrinale che ha individuato due principali declinazioni dell'atto abnorme.

Il primo tipo di abnormità è quello “strutturale” e a propria volta gode di due possibili sotto-classificazioni.

Si distingue tra carenza di potere in astratto, che si identifica con l'esercizio da parte del giudice di un potere non previsto dall'ordinamento processuale, vale a dire non riconducibile ad alcuna disposizione normativa; e carenza di potere in concreto, cioè esercizio di un potere riconosciuto dal sistema normativo ma adoperabile in situazioni processuali completamente avulse da quella nel corso della quale il giudice ha compiuto l'atto.

Se è più agevole confrontare l'attività giudiziale con l'istituto della carenza di potere in astratto, allorquando il giudice abbia assunto una decisione bizzarra poiché non sussumibile in alcun modulo procedimentale, maggiori perplessità suscita la carenza di potere in concreto poiché essa si pone ineluttabilmente sulla sottile linea di confine con la violazione di legge, che non consente di ritenere l'atto abnorme né conseguentemente ricorribile per cassazione.

Aderendo ad una felice impostazione dottrinale, pare che il criterio più intuitivo per discernere tra la carenza di potere in concreto e la violazione di legge sia quello che impone il ricorso alla valorizzazione della situazione processuale in cui il giudice abbia esercitato il potere concesso dalla legge; si sta infatti discorrendo – lo si ribadisce – dell'utilizzo di una prerogativa riconducibile ad uno schema procedurale ma esercitabile in una situazione radicalmente diversa, per natura e scopi, da quella nell'ambito della quale il giudice ha compiuto l'atto, tanto da evocare quel connotato di eccentricità e di sviamento della funzione tradizionalmente riferito alla categoria dell'atto abnorme.

Detto altrimenti, ci si trova dinanzi alla carenza di potere in concreto (e dunque all'abnormità) quando il potere, assegnato dalla legge, venga esercitato in casi del tutto estranei allo specifico tipo di decisione, vale a dire in contingenze processuali che non ammettono neppure lontanamente la peculiare statuizione processuale (si immagini una declaratoria di nullità del capo di imputazione pronunciata dal giudice ad istruttoria avanzata); si è invece plausibilmente in presenza di una violazione di legge allorché il giudice manifesti all'esterno un potere concesso dall'ordinamento, nel momento processuale in cui ciò teoricamente sarebbe possibile, ma disapplicando o male applicando norme giuridiche.

Il secondo tipo di abnormità è quello funzionale, che si riscontra in tutti quei casi nei quali l'atto del giudice, per le peculiarità in concreto manifestate, abbia causato la stasi insuperabile del procedimento; secondo la giurisprudenza più recente, è necessario che il soggetto deputato a dare impulso alla procedura dopo la pronunzia giudiziale – di regola: il pubblico ministero – sia posto nella insuperabile condizione di compiere un atto nullo. L'indebita regressione del procedimento sarebbe principalmente ascrivibile a questa categoria di abnormità.

Provando a calare i principi anzidetti nella fattispecie al vaglio, ne deriva plausibilmente la non abnormità dell'atto compiuto dal giudice, quando egli abbia, pur illegittimamente, restituito gli atti al pubblico ministero previa dichiarazione di nullità dell'atto introduttivo del giudizio per irregolarità della notificazione.

In effetti, giova intanto osservare che gli atti compiuti, innanzi menzionati, non esorbitano dal sistema processuale poiché sono diffusamente consentiti al giudice dalla normativa vigente; pertanto, in primo luogo, non può discorrersi di abnormità strutturale sotto il versante della carenza di potere in astratto.

Neppure può intravedersi l'abnormità dell'atto sotto la (seconda) declinazione rappresentata dalla carenza di potere in concreto.

In effetti, il potere, attribuito al giudice dall'ordinamento interamente considerato, è esercitato in una situazione processuale con esso compatibile. La verifica della validità del decreto di citazione a giudizio è compiuta dal giudice nella fase degli atti introduttivi ed è inoltre in questa fase che egli, ritenute eventuali criticità e dichiarata la nullità del decreto, dispone la regressione. Non si desumono dunque neppure i tratti distintivi della carenza di potere in concreto, che richiede l'esercizio di un potere attribuito dall'ordinamento ma riservato a casi processuali radicalmente diversi rispetto a quello in cui le parti versavano al momento della decisione giudiziale.

Occorre infine verificare se l'atto del giudice imponga una stasi insuperabile del procedimento ascrivendo al pubblico ministero l'obbligo di porre in essere un'attività nulla.

Anche a questa domanda, secondo chi scrive, va data risposta negativa. La restituzione degli atti al pubblico ministero consente a quest'ultimo di replicare l'atto introduttivo secondo lo schema redazionale già adoperato, poiché, a prescindere dall'intima convinzione del giudicante, esso certamente non è nullo, e dunque non può essere nulla la sua reiterazione.

Né può dirsi che un atto nullo risieda nella notificazione che il giudice implicitamente impone al pubblico ministero di eseguire ai sensi dell'art. 157 e ss. c.p.p., trattandosi della tipologia di notifica più garantista nei confronti dell'imputato poiché funzionale a sortire la conoscenza diretta da parte di quest'ultimo, piuttosto che la conoscenza mediata previa attivazione degli obblighi di collaborazione col suo difensore. D'altra parte, in un caso come quello in esame, in cui l'imputato è assistito d'ufficio, l'unica notifica che consentirebbe di procedere in assenza e compiere attività processuale, superando al contempo ogni possibile vizio della procedura informativa è costituita dalla consegna a mani dell'imputato, non apparendo sufficiente – anche alla luce della pregressa giurisprudenza – la sola notifica al convivente (Cass. pen., sez. V, 15 aprile 2002, n. 18072, in Guida dir., 2002, 33, p. 85). Dunque, non è palpabile il rischio che il pubblico ministero, dopo aver ricevuto gli atti, compia attività inficiate da qualche tipo di nullità: o il pubblico ministero notificherà la medesima citazione con consegna personale all'imputato, compiendo così un atto massimamente efficace, od ogni altro tipo di notificazione dell'atto introduttivo semplicemente non consentirà l'inizio del processo.

Si verte allora, a parere di chi scrive, nell'ambito della “mera” violazione di legge, poiché il giudice, dichiarando nullo il decreto introduttivo, viola congiuntamente, mediante la loro silente disapplicazione, sia le norme sui requisiti dell'atto di citazione a giudizio previsti a pena di nullità, sia l'obbligo, cristallizzato in diverse disposizioni di legge, di rinnovare le notifiche qualora inficiate da possibili vizi.

La notificazione a fronte del rifiuto dell'avvocato d'ufficio di ricevere le notifiche quale domiciliatario dell'indagato

Anche sul secondo tema si registra una diversità di opinioni.

Com'è noto, il legislatore è intervenuto sull'impianto codicistico con la legge 103/2017, introducendo nell'art. 162 c.p.p. il comma 4-bis il quale prevede che l'elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio non abbia effetto senza che sia stato anche ottenuto l'assenso del difensore. La riforma Cartabia ha poi ulteriormente onerato quest'ultimo di dare comunicazione all'indagato del motivo circa il proprio mancato consenso o di attestare le cause che hanno reso impossibile tale comunicazione.

Si è posta in giurisprudenza la questione circa le modalità di notificazione da adottare successivamente all'elezione di domicilio nell'ipotesi in cui non sia stato contestualmente ottenuto l'assenso del difensore.

Infatti, secondo un primo orientamento, occorrerebbe pur sempre eseguire la notifica degli atti successivi al difensore ex art. 161 comma 4 c.p.p. onde evitare una situazione di stallo non superabile. La tesi si fonda sulla valorizzazione della inefficacia con cui la norma stigmatizza la manifestazione di volontà dell'indagato; se così è, l'elezione di domicilio si ha come non svolta e la sua eliminazione mentale consente di ritenere non recepito il formale invito reso dall'autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 161 c.p.p.; dunque, come previsto dall'art. 161 comma 4 c.p.p., la notifica andrà fatta al difensore in veste di domiciliatario ex lege, residuando comunque in capo all'indagato gli oneri di attivazione che gli impongono di informarsi presso il proprio avvocato sullo stato della procedura che lo riguarda (Cass. pen., sez. II, 14 gennaio 2020, n. 10358, CED 278427; Cass. pen., sez. II, 3 maggio 2019, n. 27935, CED 276214).

D'altronde, risulta davvero ostico, almeno sul piano lessicale, escludere che l'elezione sia mancante o comunque inidonea. Essa è mancante, ove si intenda l'inefficacia produttiva di una radicale insussistenza della manifestazione di volontà, seppur percepibile a posteriori in virtù del rifiuto del difensore; è, in ogni caso, inidonea poiché tale deve intendersi ogni elezione di domicilio fondata su un rapporto non effettivo tra domiciliato e domiciliatario (Cass. pen., sez. VI, 3 novembre 2021, n. 44156, in De Jure; già in passato, Cass. pen., 18 marzo 1981, Preti, in Riv. pen., 1982, p. 195).

Tuttavia, il rischio derivante dalla acritica adesione a questa tesi, pur normativamente sostenibile, è quello di eludere il disposto del comma 4-bis cit. e di istituzionalizzare una notifica sostitutiva per propria natura inidonea alla conoscenza, tenuto conto della mancata instaurazione di un tangibile rapporto tra professionista e assistito. Il comma 4-bis è stato introdotto dal legislatore proprio per far fronte a tutti quei casi in cui la domiciliazione dichiarata presso il difensore d'ufficio rischi di frustrare in concreto l'interesse ad apportare la reale conoscenza, in capo all'imputato, della vicenda processuale a suo carico.

D'altra parte, seppure l'argomento sia stato disatteso dalla giurisprudenza maggioritaria degli ultimi anni e – si ritiene – anche dal legislatore del 2022, le sezioni unite “Ismail” avevano addirittura velatamente patrocinato (epperò in evidente contrasto con l'impianto normativo) l'inutilizzabilità dell'istituto della notifica sostitutiva al difensore qualora essa avesse avuto ad oggetto uno degli atti introduttivi del giudizio. Ciò a conferma dei pericoli insiti, in generale, nella difesa d'ufficio sotto il profilo del proficuo scambio di informazioni tra imputato e difensore, nonché, nello specifico, nel modello comunicativo previsto dall'art. 161 comma 4 c.p.p., che ascrive all'imputato rilevanti oneri comportamentali non sempre suscettibili di agevole adempimento (Cass. pen., sez. I, dep. 4 maggio 2021, n. 17096, in Dir. e giust., 5 maggio 2021).

Proprio queste riserve hanno giustificato in altri casi il ricorso all'orientamento opposto, che opta per l'adozione delle modalità ex artt. 157 e ss. c.p.p., vale a dire delle regole ordinarie di notifica in assenza di un previo invito a dichiarare o eleggere un domicilio; ciò in ragione del fatto che l'inefficacia della domiciliazione consentirebbe di ritenere il dichiarante totalmente privo di domicilio dichiarabile, come avviene nei casi di soggetti privi di una fissa dimora e di relazioni sociali opportunamente valorizzabili.

La tesi da ultimo segnalata pare maggiormente in linea con le finalità che il legislatore intende perseguire con le ultime innovazioni normative in materia di processo in assenza, laddove – almeno nel passaggio alla fase processuale – richiede al giudice di verificare la duplice condizione circa la conoscenza del processo e l'assenza consapevole all'udienza, tenuto anche conto, per quanto qui rileva, delle modalità della notificazione; in alternativa, il giudice potrà desumere che la mancata conoscenza sia dipesa dalla volontà dell'imputato («Il giudice procede in assenza […] quando l'imputato […] si è in altro modo volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo», cfr. art. 420-bis comma 3, c.p.p.).

Ebbene, appare dubbio che, a fronte di una notifica ostinatamente eseguita in favore del difensore nella sua guadagnata veste di domiciliatario ex lege (cfr. art. 161 comma 4 c.p.p.), l'imputato possa dirsi a conoscenza del processo pur non avendo mai instaurato un reale legame con l'avvocato. Neppure può egli dirsi fraudolentemente sottrattosi alla conoscenza del processo, per non avere, innanzi all'autorità giudiziaria, indicato subito altro domicilio o domiciliatario idoneo, una volta carpito il rifiuto del difensore; o per non essersi poi attivato per assumere informazioni da quello stesso difensore che si è rifiutato di ricevere atti per suo conto.

In conclusione

Si è tentato nei paragrafi che precedono di prospettare le soluzioni che si ritengono più in linea con gli istituti di rilievo.

La nozione di abnormità, così come ricostruita anche in virtù delle più recenti acquisizioni dottrinali e giurisprudenziali non sembra attagliarsi perfettamente alla fattispecie al vaglio. Pare infatti che, per la natura della decisione e per la fase in cui essa è assunta, la decisione del giudice di restituire gli atti al pubblico ministero previa declaratoria di nullità del decreto introduttivo del giudizio per vizi della sua notificazione più che per disfunzioni strutturali dell'atto medesimo, appartenga più al campo della errata applicazione di norme di diritto che all'alveo dello sviamento dell'attività giurisdizionale.

Quanto alla questione inerente alle modalità di notifica allorché il difensore abbia rifiutato di rendersi domiciliatario dell'indagato, si segnala la maggiore rispondenza della notificazione ordinaria ex artt. 157 ss. c.p.p. agli obiettivi di effettiva conoscenza, in capo all'imputato, del processo a suo carico; la soluzione opposta, a parere di chi scrive, spianerebbe la strada verso una annunciata impossibilità di proseguire nell'accertamento processuale, in considerazione degli elementi di fatto intanto raccolti, che delineano – almeno in via sintomatica – l'insussistenza di un effettivo rapporto tra imputato e suo difensore, quest'ultimo detentore delle informazioni utili per una piena consapevolezza del primo circa l'accusa ascrittagli e l'imminente giudizio a suo carico.

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