Corte costituzionale: il diritto al silenzio si estende anche alle domande sulle qualità personali dell'imputato
05 Giugno 2023
Il Tribunale di Firenze doveva decidere sulla responsabilità penale di un imputato per il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale sulla propria identità o le proprie qualità previsto dall'art. 495 c.p., che - accompagnato in Questura per l'identificazione nell'ambito di un procedimento penale - aveva dichiarato alla polizia di non avere mai subito condanne, senza essere stato avvertito della facoltà di non rispondere. Successivamente era emerso che, in realtà, quella persona era stata già condannata due volte in via definitiva.
Il giudice rimettente - si legge nel comunicato stampa - aveva osservato che il codice di procedura penale, così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione, richiede che ogni persona sottoposta a indagini sia avvertita della propria facoltà di non rispondere soltanto alle domande relative al fatto di cui è accusata, ma non alle domande relative alle circostanze personali elencate all'art. 21 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: e cioè, tra l'altro, se abbia un soprannome, quali siano le sue condizioni patrimoniali, familiari, sociali, se eserciti uffici o servizi pubblici o ricopra cariche pubbliche, e ancora se abbia già riportato condanne penali.
Il rimettente dubitava, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disposizione.
La Corte costituzionale, investita della questione, ha ritenuto costituzionalmente illegittima la disciplina vigente.
Per la Consulta, infatti, il diritto al silenzio opera ogniqualvolta l'autorità che procede in relazione alla commissione di un reato «ponga alla persona sospettata o imputata di averlo commesso domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell'ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere un impatto sulla condanna o sulla sanzione che le potrebbe essere inflitta». È questo, appunto, il caso delle domande previste dall'art. 21 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale. «La Costituzione e le norme internazionali che tutelano i diritti umani consentono», ha osservato la Corte, «che si possa imporre ad una persona sospettata di aver commesso un reato il dovere di indicare all'autorità che procede le proprie generalità (nome, cognome, luogo e data di nascita), ma non anche il dovere di fornire ulteriori informazioni di carattere personale, non essendovi per l'indagato o l'imputato alcun obbligo di collaborare con le indagini e il processo a proprio carico».
In conclusione, per garantire una tutela effettiva a questo diritto, è necessario fornire all'indagato e all'imputato un esplicito avvertimento della facoltà di non rispondere anche a queste domande; ed è altresì necessario escludere la sua punibilità nel caso in cui egli risponda il falso, quando non sia stato debitamente avvertito di questa sua facoltà. |