Whistleblower: l'evidente difficoltà della situazione economica e psico-fisica giustifica la tutela cautelare ex art. 700 c.p.c.
25 Agosto 2023
Il caso
L'ordinanza in esame segna l'ennesima tappa di un'annosa e complessa querelle giudiziaria più volte oggetto di commento sulle pagine di questa rivista (si veda: D. Tambasco, La protezione a favore del whistleblower all'esame della giurisprudenza di merito e delle linee guida ANAC: effettività della tutela o diabolica probatio?, in IUS Lavoro (ius.giuffrefl.it), 21 febbraio 2022; D. Tambasco, La solitudine del whistleblower: interamente a suo carico la prova delle misure ritorsive, in IUS Lavoro (ius.giuffrefl.it), 21 marzo 2023).
In sintesi, si tratta della vicenda relativa a un whistleblower dipendente di un'azienda di trasporti, il quale aveva ripetutamente segnalato (prima in via informale, poi attraverso i canali ufficiali di segnalazione) l'esistenza di una truffa ai danni dell'azienda, consistente nella stampa di un ingente quantitativo di titoli di viaggio non contabilizzati, rivenduti da alcuni sportellisti incassando indebitamente i relativi importi, oltre alle volute inerzie di taluni dirigenti aziendali a fronte di quanto da tempo denunciato dal lavoratore.
Pochi mesi dopo le formali segnalazioni aveva inizio un'incessante serie di contestazioni disciplinari (quattro), di denunce penali (due), di sospensioni dal servizio e dalla retribuzione (due) a danno del lavoratore, sino ad arrivare all'irrogazione di ben tre destituzioni dal servizio.
Ottenuto l'annullamento della prima destituzione e la correlativa reintegra giudiziale, il dipendente veniva nuovamente sospeso dalla retribuzione e dal servizio a seguito di un provvedimento di riattivazione(1) degli altri due procedimenti disciplinari pendenti, a cui facevano seguito due nuovi provvedimenti di destituzione dal servizio, irrogati rispettivamente per l'asserita attribuzione al dipendente di una lettera anonima contenente accuse nei confronti di alcuni dirigenti e per gli esiti di un accertamento effettuato sull'hard disk del computer a sua disposizione.
I provvedimenti, impugnati dapprima dinanzi al Consiglio di Disciplina ai sensi della speciale procedura prevista dal R.d. n. 148/1931 per gli autoferrotranvieri (con la conferma della destituzione solo per il primo provvedimento e la derubricazione a sospensione per dieci giorni dal servizio e dalla retribuzione con riguardo alla seconda sanzione disciplinare), venivano entrambi opposti in via cautelare d'urgenza dinanzi al Tribunale di Milano.
L'ordinanza in commento, all'esito di uno scrutinio necessariamente sommario e sulla base dell'ampia documentazione in atti, accoglie totalmente le istanze del lavoratore disponendo la sospensione sia della delibera del Consiglio di Disciplina inerente la destituzione dal servizio sia di quella concernente la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, disponendo non solo l'immediata reintegra in servizio ma, al fine di garantire effettivamente la sfera patrimoniale-reddituale del ricorrente, anche la corresponsione di tutte le retribuzioni maturate e non corrisposte nel periodo di sospensione cautelare decorrente dall'11 febbraio 2022 fino alla data della reintegra. Il primo principio di diritto riguarda la questione sollevata dal ricorrente, relativa all'applicabilità della nuova disciplina processuale introdotta recentemente dal d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24, attuativo della direttiva (UE) 2019/1937, per cui è opportuna una breve digressione.
In particolare, il lavoratore invocava in via principale la tutela cautelare prevista dall' art. 19, comma 4, d.lgs. n. 24/2023, norma omologa rispetto alla disposizione contenuta nell'art. 21, sesto comma della direttiva (UE) 2019/1937, che a sua volta richiede ai paesi membri di garantire l'accesso «a misure correttive adeguate contro le ritorsioni, compresi provvedimenti provvisori in attesa della definizione dei procedimenti giudiziari, conformemente al diritto nazionale».
Se si vuole conservare un senso all'art. 19, comma 4, d.lgs. n. 24/2023, rendendolo conforme al dettato eurounitario, si deve infatti ritenere che il riferimento della norma nazionale a «tutte le misure, anche provvisorie, necessarie ad assicurare la tutela alla situazione giuridica soggettiva azionata, ivi compresi il risarcimento del danno, la reintegrazione nel posto di lavoro, l'ordine di cessazione della condotta posta in essere in violazione dell'articolo 17 e la dichiarazione di nullità degli atti» sia funzionale a garantire al whistleblower una tutela cautelare speciale rispetto a quella generale disposta dall'art. 700 c.p.c. Tutela attivabile anche rispetto al semplice tentativo o alla minaccia di ritorsioni potenzialmente idonee a ledere situazioni giuridiche soggettive (cfr. art. 2 comma 1, lett. m) (2), che prescinderebbe così dallo stringente requisito del “periculum in mora” dell'art. 700 c.p.c., in questo modo anticipando la soglia di protezione in un'ottica preventiva, coerentemente con la ratio dell'intera disciplina comunitaria. Infatti, lo stesso considerando n. 96 della Direttiva (UE) 2019/1937 afferma chiaramente che «Le misure provvisorie sono particolarmente importanti per le persone segnalanti, in attesa di un giudizio che può richiedere molto tempo. In particolare, le persone segnalanti dovrebbero avere accesso anche ai provvedimenti provvisori previsti dal diritto nazionale per porre fine a minacce, tentativi diritorsione o ritorsioni in atto, come le molestie, o per impedire forme di ritorsione, quali il licenziamento, che potrebbero essere difficili da revocare una volta trascorsi lunghi periodi e che possono causare la rovina della persona segnalante dal punto di vista finanziario. È questa una prospettiva che può seriamente scoraggiare i potenziali informatori».
Ecco, pertanto, che il whistleblower vittima di ritorsioni – anche solo tentate o minacciate – può in questo modo svolgere, insieme o disgiuntamente rispetto all'azione ordinaria, la tutela giurisdizionale interinale per conseguire non solo l'inibitoria delle condotte o degli atti potenzialmente ritorsivi ma, ad esempio, anche la reintegra provvisoria nel posto di lavoro, il trasferimento del soggetto autore delle rappresaglie o il risarcimento del danno a titolo di provvisionale. La tutela conseguibile, infatti, è atipica, essendo aperta a tutte le misure necessarie ad assicurare la tutela alla situazione giuridica soggettiva azionata (cfr. D. Tambasco, La nuova disciplina del whistleblowing dopo il d.lgs. n. 24/2023, Milano, 2023, in corso di pubblicazione).
Tornando all'ordinanza in esame, il Tribunale di Milano, sebbene non svolga una espressa enunciazione di principio, parrebbe comunque accedere alla tesi dell'autonomia della speciale tutela in via d'urgenza prevista dal decreto attuativo, nella parte in cui -come vedremo tra poco- nega l'applicabilità «della tutela cautelare richiesta ai sensi del d.lgs. n. 24/2023», riconoscendo invece «la residua istanza ex art. 700 c.p.c.». Il giudice ambrosiano, affermando incidentalmente la gradualità della tutela (principale quella del decreto legislativo, subordinata e residuale quella ex art. 700 c.p.c.), sembra confermare di fatto che, nella specifica materia del whistleblowing, i soggetti segnalanti hanno la possibilità di evitare le “forche caudine” della tutela generale d'urgenza delineata dall' art. 700 c.p.c., ricorrendo invece alla protezione speciale “a maglie larghe” dell'art. 19, comma 4, d.lgs. n. 24/2023.
Tuttavia, ragioni di diritto intertemporale hanno impedito l'applicazione al caso di specie: secondo il provvedimento del ribunale milanese, infatti, le disposizioni transitorie contenute nell'art. 24, comma 1, d.lgs. n. 24/2023 rendono inammissibile la richiesta di tutela speciale urgente svolta in via principale dal whistleblower.
Più precisamente, la norma in questione contiene: i) un principio di ordine generale, per cui tutte le disposizioni del decreto hanno effetto a decorrere dal 15 luglio 2023, e ii) un'eccezione al principio generale, rappresentata dall'applicabilità delle disposizioni previgenti alle segnalazioni e alle denunce all'autorità giudiziaria o contabile effettuate fino al 14 luglio 2023.
Considerato che, nel caso di specie, le segnalazioni di whistleblowing sono tutte di gran lunga anteriori al suddetto termine, ne deriva - secondo il provvedimento in esame - l'inapplicabilità tout court della nuova disciplina (ivi compresa anche quella inerente alla tutela processuale).
Tuttavia, a parere di chi scrive sembra più corretto modulare gli effetti di diritto intertemporale, a seconda della natura della disposizione invocata. Più precisamente:
a) con riguardo alle norme di diritto sostanziale del d.lgs. n. 24/2023 (che sono la maggior parte, concernendo la tipologia dei canali di segnalazione, le modalità di presentazione, la protezione dalle ritorsioni etc.), la disciplina dovrebbe essere quella in vigore alla data di presentazione della segnalazione o della denuncia all'autorità giudiziaria o contabile;
b) con riferimento invece alle disposizioni di natura processuale (onere della prova e presunzioni ex art. 17, commi 2, 3 e 4 d.lgs. cit.; richieste di informazioni e documenti da parte dell'autorità giudiziaria ex art. 18, comma 3, d.lgs. cit.; tutela processuale ex art. 19, commi 3 e 4, d.lgs. cit. dovrebbe valere il principio generale tempus regit actum, per cui l'atto processuale è generalmente regolato dalla disciplina in vigore all'epoca in cui è stato compiuto: è indubitabile, sotto questo profilo, che la norma invocata nel caso di specie (ovvero la tutela cautelare speciale di cui all'art. 19, comma 4, cit.) ha natura prettamente processuale.
Ne deriva che, adottando tale impostazione, si sarebbe dovuto considerare - ai fini della disciplina applicabile - la data di presentazione della domanda giudiziale (31 luglio 2023) e non quella delle segnalazioni di whistleblowing (tutte anteriori al 15 luglio 2023).
Diversamente, la soluzione prospettata dal tribunale ambrosiano porterebbe ad ampliare in modo eccessivo l'ultrattività della previgente disciplina (che rappresenta pur sempre un'eccezione alla regola generale stabilita dell'art. 24 d.lgs. n. 24/2023), a scapito delle generali esigenze di maggior tutela veicolate proprio dalla disciplina euro-unitaria. (Segue): il periculum in mora, la condizione di dissesto economico e di disagio psico-fisico derivante dall'evidente difficoltà della situazione del lavoratore.
La questione trattata nel precedente paragrafo si rivela, all'atto pratico, meramente speculativa. L'ordinanza in esame, infatti, facendo corretto uso del prudente apprezzamento dei fatti e dei documenti, giunge comunque alla medesima soluzione attraverso la tutela cautelare residuale delineata dall' art. 700 c.p.c.
Più precisamente il tribunale meneghino, ricorrendo in modo implicito alle massime di comune esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.), inferisce in via presuntiva (3) come «non opinabile che un lavoratore percipiente un reddito medio, coinvolto in una vicenda giudiziaria della durata (sin qui) di cinque anni e mezzo, privato del lavoro e della retribuzione per un arco di tempo così protratto, si trovi una condizione di dissesto economico e di disagio psico-fisico».
In tale contesto, a nulla vale la circostanza del percepimento da parte del lavoratore, nel corso di un anno, della somma di circa 50.000,00 euro da parte dell'azienda, trattandosi in realtà del ristoro dovuto per l'illegittimità della precedente destituzione dal servizio, essendo al contrario evidente la situazionedi difficoltà del lavoratore, astrattamente idonea a causare un pregiudizio rilevante anche sul piano non patrimoniale.
L'ordinanza in commento, pertanto, ha un rilievo particolare poiché desume in via presuntiva la condizione di dissesto economico e di disagio psico-fisico del ricorrente da una serie di plurime circostanze obiettive, e in particolare:
i) dalla percezione di un reddito medio; ii) dal coinvolgimento in una vicenda giudiziaria della durata di cinque anni e mezzo; iii) dalla privazione del lavoro e della retribuzione per oltre quattro anni e mezzo; iv) dall'irrogazione di un precedente provvedimento di destituzione dal servizio accertato come illegittimo in sede giudiziaria.
Si tratta in definitiva di indici gravi, precisi e concordanti che consentono al Giudice di inferire, ex art. 2727 e 2729 c.c., la sussistenza di un pregiudizio imminente e irreparabile alla sfera tanto patrimoniale quanto non patrimoniale del whistleblower. Nonostante un quadro di fatto molto complesso e articolato, costituito da una pluralità di procedimenti disciplinari (quattro), di destituzioni dal servizio (tre), di sospensioni cautelari dal lavoro e dalla retribuzione (due) tutti astrattamente sussumibili nelle ritorsioni disciplinate dall'art. 19 dir. (UE) 2019/1937 (norma pedissequamente riprodotta dall' art. 17, ultimo comma, d.lgs. n. 24/2023), il Tribunale di Milano ha preferito invece concentrarsi unicamente sui due provvedimenti oggetto di impugnazione, ovvero sull'ultima destituzione dal servizio e sulla sospensione disciplinare dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni.
In via sommaria, l'ordinanza ha infatti rilevato che:
- la destituzione dal servizio irrogata a seguito dell'attribuzione al lavoratore, attraverso una perizia di parte, di una lettera anonima contenente accuse nei confronti di alcuni dirigenti, è totalmente smentita dalle opposte risultanze della controperizia redatta dal consulente tecnico del ricorrente;
- la sospensione disciplinare dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni è anch'essa infondata, a causa del lunghissimo lasso di tempo decorso tra il momento in cui l'azienda ha avuto a disposizione l'hard disk del lavoratore (2017) e la data in cui si è provveduto ad estrarre la copia forense da cui sarebbero emersi gli asseriti file contestati al lavoratore (gennaio 2019). Quadro sistematico
Quella in commento è un'ordinanza certamente destinata a fare giurisprudenza, trattandosi -per quanto noto- del primo caso (4) di whistleblowing in cui è stata riconosciuta la tutela cautelare in via d'urgenza, facendo peraltro uso della sola disciplina ordinaria prevista dall' art. 700 c.p.c.
Il provvedimento, animato dall'esigenza di garantire effettività alla tutela giurisdizionale, rifugge da logiche formalistiche e dall'applicazione di sterili finzioni giuridiche, rifacendosi a un consolidato orientamento che, nell'analogo ambito del danno alla professionalità, ha da tempo affermato la necessità di dare precipuo rilievo alla prova per presunzioni, partendo dalla complessiva valutazione di precisi elementi obiettivi (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) per poter risalire al fatto ignoto (ovvero al pregiudizio professionale), facendo ricorso alle nozioni generali derivanti dall'esperienza ex art. 115 c.p.c. (cfr., ex multis, Cass., 28 luglio 2020, n. 16129; Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., 19 dicembre 2008, n. 29832) (5).
Sotto un altro profilo, che lo strumento d'urgenza possa essere utilizzato per inibire situazioni di conflittualità lavorativa gravemente contrastanti con il generale precetto dell'art. 2087 c.c. (qual è il caso in esame), è stato riconosciuto da una risalente giurisprudenza di merito, che in particolare (6):
- ha disposto l'ordine di cessazione delle condotte e l'annullamento dei relativi atti nel caso di mobbing iniziato un anno e mezzo prima e di trasferimento irrogato due mesi prima del deposito del ricorso ex art. 700 c.p.c. (Trib. Bari, sez. lav., ord. 29 settembre 2000);
- ha riconosciuto la tutela cautelare in una vicenda di totale inattività lavorativa, unita a comportamenti del datore di lavoro offensivi e denigratori, per la necessità di evitare un pregiudizio grave e irreparabile ai diritti di cui agli artt. 2103 e 2087 c.c. In questo caso il tribunale ha riconosciuto l'esperibilità del rimedio ex art. 700 c.p.c. sul presupposto che la totale inattività del lavoratore accompagnata dall'adozione di comportamenti del datore di lavoro offensivi e denigratori sia senz'altro suscettibile di dar luogo a un pregiudizio grave e irreparabile, che legittima la concessione del provvedimento d'urgenza al fine di ottenere la reintegrazione del lavoratore nelle mansioni precedentemente svolte e la cessazione della condotta illecita del datore di lavoro (Trib. Venezia, sez. lav., ord. 26 gennaio 2001, in Riv. crit. dir. lav., 2001, 426);
- ha accertato che il distacco del medico chirurgo dalla pratica operatoria per oltre un anno, comportando il suo allontanamento professionale e tecnico dalla realtà della medesima e nel contempo l'impossibilità di documentare nel futuro titoli adeguati a un ordinario progresso di carriera, soddisfa i requisiti sia della fondatezza (cosiddetto fumus boni iuris) che del pericolo di un pregiudizio irreparabile (ovvero il periculum in mora) per l'accoglimento del ricorso ai sensi dell'art. 700 c.p.c. (Trib. Catania, sez. lav., ord. 28 maggio 2012, n. 85);
- ha ravvisato il dovere da parte del datore di lavoro di intervenire rimuovendo una situazione non più tollerabile all'interno dell'ufficio, rappresentata dal bossing attuato da un dirigente sovraordinato nei confronti di una dipendente, vittima di una dequalificazione prolungata. Ne è derivata l'emissione, ex artt. 2087 c.c. e 700 c.p.c., dei provvedimenti inibitori necessari ad impedire al dirigente qualsiasi azione nei confronti della vittima e ad assicurare, per quanto possibile, che la stessa potesse ritornare in servizio evitando in questo modo un aggravamento nella lesione della sua personalità fisica e morale (Trib. Lecce, sez. lav., ord., 31 agosto 2001). Note
(1) Il provvedimento di riattivazione veniva a sua volta opposto cautelarmente ex art. 700 c.p.c. dinanzi al Tribunale di Milano, sezione lavoro, che rigettava l'istanza con ordinanza del 1° aprile 2022. Per quanto di interesse, l'ordinanza in commento rispetto al precedente provvedimento di rigetto riconosce il mutamento delle circostanze(rilevante ai sensi dell' art. 669- septies c.p.c.), costituito dal fatto che mentre nel primo caso l'inibitoria riguardava la fase iniziale dei procedimenti disciplinari (recte, il provvedimento di riattivazione), nel secondo il ricorrente si trovava a fronteggiare due provvedimenti sanzionatori (ovvero la destituzione dal servizio e la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per dieci giorni).
(2) Secondo il cui disposto per «ritorsione» si intende «qualsiasi comportamento, atto od omissione, anche solo tentato o minacciato, posto in essere in ragione della segnalazione, della denuncia all'autorità giudiziaria o contabile o della divulgazione pubblica e che provoca o può provocare alla persona segnalante o alla persona che ha sporto la denuncia, in via diretta o indiretta, un danno ingiusto».
(3) Sul fatto che le massime di comune esperienza rappresentino un canone di probabilità, costituente una connessione possibile e verosimile comprovante, secondo un criterio di normalità, il rapporto di dipendenza logica tra fatto noto e quello ignoto, cfr. Cass., 1° agosto 2007, n. 16993; Cass., 7 marzo 2007, n. 5221; Cass., 20 giugno 2006, n. 14115; in dottrina, M. Taruffo, Verso la decisione giusta, Torino, 2020, p. 232 ss.
(4) Non può considerarsi tale l'ordinanza del Trib. Barcellona Pozzo di Gotto, sez. lav., 20 ottobre 2017, citata nella sentenza 22 marzo 2023, n. 243 del medesimo Tribunale. In questo caso infatti, nonostante l'affermazione del Tribunale secondo cui non sarebbe in discussione l'applicabilità alla vicenda concreta dell'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001, la segnalazione della vittima riguardava illeciti aziendali subiti solo personalmente, trattandosi pertanto di egoistic blower, non tutelabile allorché non sia almeno compresente anche l'interesse all'integrità dell'ente. Si rimanda, da ultimo, alle recenti Linee Guida ANAC 2023 (pag. 29), secondo cui non possono essere oggetto di segnalazione, di denuncia o di divulgazione pubblica «Le contestazioni, rivendicazioni o richieste legate ad un interesse di carattere personale della persona segnalante o della persona che ha sporto una denuncia all'Autorità giudiziaria che attengono esclusivamente ai propri rapporti individuali di lavoro o di impiego pubblico, ovvero inerenti ai propri rapporti di lavoro o di impiego pubblico con le figure gerarchicamente sovraordinate».
(5) Più in generale, in giurisprudenza è consolidato il principio secondo cui «la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento»(cfr. Cass., 21 maggio 2020, n. 9340; Cass., 29 aprile 2020, n. 8336; Cass., 6 giugno 2012, n. 9108).
(6) Si rimanda a D. Tambasco, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un'analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, in Organizzazione Internazionale del Lavoro, Roma, 2022, pp. 34-35. |