Cessione indebita di marchio aziendale ed appropriazione indebita

Ciro Santoriello
08 Settembre 2023

La Cassazione esamina una fattispecie di rilevanza penale di condotte degli amministratori consistenti nell'alienazione di un asset fondamentale della società – nonché l'unico, nel caso di specie: il marchio, confermando la sussistenza dei reati contestati di appropriazione indebita e autoriciclaggio.
Massima

Integra il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore di una società che cede a terzi il marchio in capo alla società da lui gestita mediante l'alienazione a terzi, trattenendo per sé gli assegni consegnati dall'acquirente in pagamento, versandoli su un conto aperto dal lui aperto, il tutto all'insaputa dei soci.

Il caso

In sede di merito, il presidente di un consiglio di amministrazione di una società era condannato per i delitti di appropriazione indebita ed autoriciclaggio, avendo provveduto alla vendita del marchio facente capo alla stessa persona giuridica.

In particolare, l'imputato aveva predisposto una falsa delibera assembleare nella quale si dava falsamente atto alla riunione della presenza dell'intero capitale sociale nonché dell'autorizzazione concessa alla vendita del marchio. Successivamente, sulla scorta di tale falsa delibera, che costituiva il necessario antecedente di fatto e di diritto che legittimava l'imputato all'alienazione del marchio, veniva stipulato il relativo contratto di vendita con altra società dietro pagamento di € 700.000,00, prezzo che veniva corrisposto dalla società acquirente con tre assegni bancari; tali assegni erano poi monetizzati dall'imputato versandoli su altri conti corrente.

Ricorrendo in cassazione, le difese lamentavano l'esistenza di un vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza del delitto di cui all'art. 646 c.p., in quanto la sentenza impugnata aveva individuato la condotta di appropriazione nell'avere il ricorrente venduto il marchio, omettendo di considerare che proprietaria del marchio — e dunque soggetto che ne aveva il possesso - era la società e non il ricorrente che ne era amministratore. Errato, poi, era ritenuta l'individuazione del momento appropriativo che andava rinvenuta allorché il ricorrente, dopo avere ricevuto (a mezzo assegni) il corrispettivo della vendita del brand, non ne effettuava alcuna registrazione in contabilità, considerato che detta operazione rispondeva a ragioni giustificative di cui l'imputato aveva dato contezza e rispondenti all'interesse della società (avvenuto mutamento della compagine sociale, far fronte alla situazione debitoria in cui versava la società, tanto che le somme ricavate dalla vendita vennero anche utilizzate per il pagamento di fornitori).

Insussistente si riteneva anche il delitto di autoriciclaggio, posto che il versamento degli assegni ricevuti quale corrispettivo della vendita del marchio su un conto corrente intestato alla società non costituiva un'autonoma e successiva condotta rispetto a quella con cui si era stato realizzato il delitto presupposto (ossia l'appropriazione indebita), bensì della stessa che vi aveva dato origine in quanto proprio con tale comportamento è stato possibile per l'indagato appropriarsi delle somme, a nulla rilevando che dal conto della società tali somme siano state poi trasferite a conti di altra società, trattandosi di modalità di realizzazione dell'unica condotta di appropriazione indebita e comunque di comportamenti privi di carattere dissimulatorio, essendo la mera esecuzione di bonifici priva di idoneità ad ostacolare gli accertamenti sulla provenienza delittuosa delle somme, trattandosi di conti correnti accesi presso istituti di credito presenti sul territorio nazionale e intestati a società italiane.

Le questioni

Il tema della qualificazione giuridica di condotte “gestione anomala” da parte dell'amministratore di una società di somme o beni di pertinenza della stessa non è nuovo ed è stato affrontato più volte dalla giurisprudenza.

Ovviamente, nessun dubbio circa la rilevanza penale di tali comportamenti sussiste qualora l'impresa depauperata venga dichiarata fallita, giacché in tale ipotesi sussiste il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.

Se invece non vi è una dichiarazione di fallimento, da parte di alcuni si sostiene che nel caso di specie ricorra la fattispecie di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c. (Mezzetti, L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 193; Militello, Gli abusi nel patrimonio di società controllate e le relazioni fra appropriazione e distrazione, ivi, 1991, 266; Scopinato, Infedeltà patrimoniale, in Schiano Di Pepe, Diritto penale delle società, II ed., Milano 2003, 283), non potendosi ricondurre i comportamenti distrattivi tenuti dagli amministratori di società nell'alveo della previsione di cui all'art. 646 c.p. (con riferimento all'ipotesi di utilizzo del patrimonio sociale per finalità diverse da quelle alle quali lo stesso era destinato ed in particolare in relazione alla costituzione di fondi extrabilancio ed all'erogazione degli stessi in favore di pubblici ufficiali o di partiti politici o di organo di stampa o di società controllate, con un indiretto vantaggio per la società controllante: Foffani, Infedeltà patrimoniale e conflitto si interessi nella gestione di impresa, Milano 1997, 578; Iacoviello, La responsabilità degli amministratori nella formazione di fondi occulti, in Cass. Pen., 1995, 3561; Pedrazzi, Sui limiti dell'appropriazione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1997, 1444; Cantone, Formazione di riserve occulte da parte dell'impresa destinate all'illecito finanziamento dei partiti politici. Profili di rilevanza penale, in Cass. Pen., 1997, 278; Militello, Aspetti penalistici dell'abusiva gestione nei gruppi societari: fra appropriazione indebita ed infedeltà patrimoniale, in Foro It., 1989, II, 421).

A fronte di tali considerazioni, tuttavia, la giurisprudenza replica nel senso che “integra il delitto di appropriazione indebita aggravato dall'abuso delle relazioni di ufficio la condotta dell'amministratore, socio unico di una società a responsabilità limitata, che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato” (Cass., sez. II, 14 novembre 2013, Biondo, in Mass. Uff., n. 257646. In precedenza, nello stesso senso, Cass., sez. II, 4 aprile 1997, Bussei, in Cass. Pen., 1998, 440; Cass., sez. V, 9 luglio 1992, Boyer, ivi, 1993, 1985), con la precisazione che non può essere qualificata distrattiva, e tantomeno appropriativa, “un'erogazione di denaro che, pur compiuta in violazione delle norme organizzative della società, risponda ad un interesse riconducibile anche indirettamente all'oggetto sociale … per cui né il versamento dei fondi extrabilancio su conti non formalmente riconducibili alla società, né la destinazione di tali fondi al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali, ad esempio con le erogazioni di finanziamenti illegali a partiti politici o a giornalisti, integrano gli estremi dell'appropriazione indebita” (Cass., sez. II, 23 giugno 1989, Bernabei, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1991, 266; Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, Cusani, in Foro It., 1998, II, 517. In dottrina, in senso favorevole a quest'ultimo orientamento, La Spina, Questioni in tema di abusi patrimoniali degli amministratori di società (in occasione della pronuncia definitiva sulle responsabilità penali di Sergio Cusani), in Foro It., 1998, II, 517; Monari, Utilizzo di somme extrabilancio ed appropriazione indebita, in Cass. Pen., 1998, 3101).

Osservazioni

La Cassazione ha ritenuto infondati entrambi i profili di ricorso.

Quanto alla contestazione in tema di appropriazione indebita, la Corte di legittimità ritiene che all'imputato fosse senz'altro ascrivibile la condotta che ha determinato la perdita irreversibile del marchio in capo alla società (unico asset positivo) mediante l'alienazione a terzi, a cui è seguita la ricezione del tantundem nelle mani dell'imputato, il quale tratteneva per sé gli assegni consegnati dall'acquirente in pagamento, versandoli su un conto aperto dallo stesso imputato e all'insaputa dei soci.

Quanto all'elemento soggettivo della distrazione, l'esclusione del soddisfacimento di un interesse sociale sotteso alla vendita - per come ricavato sia dalle modalità di alienazione sia dalla contestuale risoluzione del contratto che l'imputato effettuava con la società licenziataria del marchio – dimostrerebbe il dolo dell'imputato, escludendo che si sia al cospetto di una mera distrazione non penalmente rilevante. Non rileva la circostanza che gli assegni corrisposti a titolo di corrispettivo della cessione del marchio siano stati inizialmente versati dall'imputato su un conto corrente intestato alla società alienante, posto che si trattava di un conto corrente che l'imputato aveva aperto per l'occasione (solo pochi giorni prima rispetto all'atto notarile di cessione del marchio), all'insaputa degli organi sociali e sul quale solo l'imputato poteva operare.

Quanto al delitto di autoriciclaggio, la Cassazione evidenzia come il successivo svuotamento del conto "sociale" in favore di altri tre conti correnti intestati a società di comodo che versavano già in grosse difficoltà economiche e finanziarie - su cui il coimputato aveva delega ad operare - avvenne con bonifici bancari supportati da fatture false emesse per operazioni inesistenti che non comparivano affatto nella contabilità della società, avvalendosi, dunque, di documentazione fittizia. Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, l'attività di autoriciclaggio si era arricchita, dunque, di un'attività più ampia idonea ad ostacolare gli accertamenti sulla provenienza delittuosa delle somme transitate su quei conti su cui il coimputato aveva una delega ad operare, atteso che tale condotta realizza la sostituzione del profitto del reato presupposto, che assume diversa destinazione e transita nella disponibilità di altro soggetto giuridico (Cass., sez. II, 8 settembre 2021, n. 35260).

In proposito, la decisione in commento evidenzia come in tema di autoriciclaggio, il criterio da seguire ai fini dell'individuazione della condotta dissimulatoria è quello della idoneità ex ante, sulla base degli elementi di fatto sussistenti nel momento della sua realizzazione, ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del bene, senza che il successivo disvelamento dell'illecito per effetto degli accertamenti compiuti (nella specie, grazie alla tracciabilità delle operazioni poste in essere fra diverse società), determini automaticamente una condizione di inidoneità dell'azione per difetto di concreta capacità decettiva (Cass., sez. II, 18 dicembre 2019, n. 16059). Peraltro, attraverso detto meccanismo si viene a configurare un impiego in attività economiche e finanziarie dell'utilità di provenienza illecita, con la conseguenza che si è al cospetto di un'attività dotata non solo di un autonomo disvalore ma del tutto distonica, per causa ed effetto, rispetto all'attività illecita che ne costituisce il presupposto.

Conclusioni

Il profilo di maggior interesse della sentenza in commento è rappresentato dalla possibilità di rinvenire un concorso fra la fattispecie di appropriazione indebita ed autoriciclaggio. Si ricorderà infatti che mentre l'accusa sosteneva che l'imputato dopo essersi impossessato del marchio aziendale mediante una sua illecita e non autorizzata cessione a terzi, aveva proceduto al riciclaggio delle somme ricevute a titolo di corrispettivo, versandole prima sui conti correnti dell'azienda e poi trasferendole su conti intestati a terzi soggetti; di contro, la difesa lamentava la circostanza che il versamento degli assegni ricevuti quale corrispettivo della vendita del marchio su un conto corrente intestato alla società non costituiva un'autonoma e successiva condotta rispetto a quella con cui si era stato realizzato il delitto presupposto (ossia l'appropriazione indebita), bensì della stessa che vi aveva dato origine in quanto proprio con tale comportamento è stato possibile per l'indagato appropriarsi delle somme, a nulla rilevando che dal conto della società tali somme siano state poi trasferite a conti di altra società, trattandosi di modalità di realizzazione dell'unica condotta di appropriazione indebita.

La sentenza della Cassazione conferma quanto già asserito in una precedente occasione, ribadendo da un lato la possibilità che il reato di autoriciclaggio possa essere commesso anche in relazione ad un precedente delitto di bancarotta patrimoniale, sempre che il comportamento contestato non si risolva in un mero trasferimento di somme oggetto di distrazione fallimentare a favore di imprese operative, occorrendo un quid pluris (Cass., sez. V, 1 febbraio 2019, n. 8851. In dottrina, Santoriello, I rapporti fra bancarotta fraudolenta patrimoniale ed autoriciclaggio in una decisione della Cassazione, in Soc., 2019, 485). Tuttavia, rispetto al precedente arresto, la decisione in commento ci pare maggiormente condivisibile, giacché non sostiene– come invece poteva riscontrarsi nella precedente pronuncia – che il reato di autoriciclaggio può senz'altro concorrere con quello di bancarotta fraudolenta patrimoniale purché il trasferimento dei beni dalla società fallita ad altre imprese gestite dal medesimo soggetto avvenga secondo modalità complesse ed articolate idonee a mascherare concretamente la provenienza delittuosa del patrimonio riutilizzato in altre realtà imprenditoriali, ma richiede che tale riutilizzo sia effettivo, nel senso che il patrimonio provento del reato di bancarotta venga effettivamente reimmesso, a mezzo dell'esercizio di una nuova attività imprenditoriale, nel circolo economico, ma richiede che sia rinvenibile una distinzione netta fra i due illeciti, che ricorra cioè nella vicenda un frammento di condotta riferibile all'autoriciclaggio ed estraneo invece alla fattispecie di bancarotta.

Va in proposito considerato come nell'ipotesi in cui il reato presupposto dell'attività di laundering è una bancarotta fraudolenta patrimoniale mediante destinazione delle somme distratte a vantaggio di altre società, il frammento della vicenda delittuosa consistente nel trasferimento del denaro presso altre aziende operative non è un modo per occultare la provenienza delittuosa del bene, ma rappresenta la condotta stessa di distrazione, rappresenta cioè le modalità con cui, in quella particolare ipotesi, l'amministratore infedele ha scelto di depauperare la propria impresa a vantaggio di altre persone giuridiche sempre a lui riferibili. Detto altrimenti, nel caso considerato, senza il pervenimento dei beni distratti illecitamente ad altre società non vi sarebbe alcuna distrazione e quindi non sarebbe contestabile il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, dal che consegue che sono perciò irrilevanti le modalità – complesse, palesi, decettive, ecc. – con cui il trasferimento del denaro è operato, posto che in assenza di tale circostanza (se cioè non viene a realizzarsi lo spossessamento del denaro e la consegna dello stesso ad altre società, quale che siano le caratteristiche con cui tale risultato è ottenuto) non sussisterebbe la violazione del disposto di cui all'art. 216, comma 1 n. 1, l. Fall..

Di contro, il reato di autoriciclaggio deve ritenersi sussistente e non assorbito nella fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale quando vi sia un alcun significativo distacco temporale fra la sottrazione delle somme alla impresa in crisi e la loro immissione in altro circuito imprenditoriale, sì da potersi ritenere che il passaggio del denaro dalla prima alla seconda società rappresenti – anche in ragione della loro sostanziale contestualità temporale – non un fatto ulteriore rispetto alla distrazione che ha dato luogo al reato di bancarotta fraudolenta ma sia la modalità con cui questo delitto è stato posto in essere. Detto altrimenti, se le somme, una volta prelevate illegittimamente dalle casse della società in crisi, sono immediatamente “consegnate” a chi amministra l'altra impresa che si intende avvantaggiare a mezzo della distrazione fallimentare, allora vi sarà spazio per contestare il solo reato di cui all'art. 261, comma 1 n. 1, R.D. n. 267 del 1942, mentre, quando, ad esempio, i beni provento del reato fallimentare sono prima sottratti dall'amministratore della società fallita, il quale li deposita in un conto estero occulto ed “irreperibile” per gli organi della procedura per poi scegliere come reimmetterli nei circuito economico versandoli nelle casse di altre società, allora quest'ultima porzione della vicenda andrà qualificata – a seconda del soggetto che ne è il protagonista – quale riciclaggio o autoriciclaggio (Qualora, nelle circostanze indicate nel testo, la condotta di laudering money sia tenuta tanto dall'autore del fatto di bancarotta che da un terzo che gestisce la società cui pervengono le somme di denaro distratte, secondo una giurisprudenza ormai consolidata va contestato al primo il reato di autoriciclaggio ed al secondo il delitto di cui all'art. 648-bis c.p.: Cass., sez. II, 17 gennaio 2018, n. 17235. In dottrina, Gullo, Realizzazione plurisoggettiva dell'autoriciclaggio: la Cassazione opta per la differenziazione dei titoli di reato, in Dir. Pen. Cont., 2018, 11 giugno 2018; Merenda, Autoriciclaggio e concorso di persone: per la Cassazione la strada è obbligata, ma in conti non tornano, in Dir. Pen. Proc., 2018, 1307; Cavallini, La "quadratura" impossibile: l'opzione minimal della Cassazione sul concorso di persone nel(l'auto-)riciclaggio, in Giur. It., 2018, 2475; Giordano, Sul concorso di persone nell'autoriciclaggio. Osservazioni a Cass. Pen. 17235/2018, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 12).

Questa affermazione, d'altronde, è stata già formulata dalla stessa Cassazione in altre e recenti decisioni. In particolare, in una sentenza (Cass., sez. II, 7 giugno 2018, n. 30401) è stato esaminato il problema delle differenze tra profitto del reato presupposto e profitto dell'autoriciclaggio ai fini della confisca e si è affermato – in consonanza con quanto da noi sopra sostenuto - che la condotta ex art. 648-ter.1 c.p. deve essere fondata su un segmento ulteriore rispetto alla condotta del reato presupposto, posto che il prodotto, il profitto o il prezzo dell'autoriciclaggio non coincide con il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal delitto antecedente, consistendo invece nei proventi conseguiti dall'impiego di questi ultimi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative.

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