La responsabilità per i debiti inerenti all'azienda venduta dal curatore

12 Settembre 2023

La vendita dell'azienda da parte del curatore del fallimento, ancorché derivante da procedura non competitiva, rientra comunque nel perimetro applicativo dell'art. 105, comma 4, l.fall. e determina l'inapplicabilità dell'art. 2560, comma 2, c.c., con conseguente effetto purgativo dei debiti pregressi anche se risultanti dai libri contabili obbligatori.
Premessa

La sentenza della Corte di Cassazione n. 16311 dell'8 giugno 2023 appare meritevole di attenzione trattandosi, a quando consta, della prima pronuncia nella quale la Suprema Corte esamina ex professo l'ambito di applicabilità della regola sancita dall'art. 105, comma 4, l.fall., secondo la quale, nel caso di vendita dell'azienda posta in essere dal curatore, “salvo diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell'acquirente per i debiti relativi all'esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento”.

La previsione normativa ora citata è rimasta immutata nel passaggio dalla legge fallimentare al codice della crisi e dell'insolvenza, ove è pedissequamente ribadita dall'art. 214, comma 3; anche per tale ragione la sentenza in questione risulta assai interessante, atteso che la sua portata nomofilattica è destinata a conservare validità anche nel rinnovato contesto normativo. Alla luce di tale considerazione, peraltro, ogni successivo riferimento alla norma dettata dall'art. 105, comma 4, l.fall. dovrà intendersi come esteso anche al corrispondente art. 214, comma 3, c.c.i..

Prima di illustrare il caso esaminato e la decisione resa dalla Cassazione, peraltro, è opportuno svolgere alcune considerazioni preliminari sul contenuto di tale disposizione e sulla sua ratio, nel rapporto con il regime di responsabilità per i debiti inerenti all'esercizio dell'azienda trasferita disciplinato in via generale dal codice civile.

La responsabilità per i debiti inerenti l'azienda venduta, tra regime ordinario e disciplina concorsuale

Il regime ordinario di responsabilità patrimoniale per i debiti aziendali delineato nel codice civile risponde a due esigenze contrapposte, entrambe ben messe in luce da dottrina e giurisprudenza: la prima è quella di tutelare i terzi creditori che, avendo fatto affidamento sull'azienda per la realizzazione dei loro crediti, nel caso di trasferimento della stessa potrebbero vedere diminuita la propria garanzia per effetto di una vendita ad un prezzo irrisorio o, comunque, della sua sostituzione nel patrimonio del debitore con una somma di denaro, la cui volatilità metterebbe in pericolo la realizzazione dei crediti; la seconda è quella di tutelare l'interesse economico generale alla certezza delle transazioni ed alla facilità di circolazione dell'azienda, sicuramente ostacolata se il potenziale acquirente non fosse messo in grado di conoscere esattamente l'esposizione debitoria di cui si potrebbe rendere responsabile insieme al cedente.

Alle due rationes appena illustrate si ispira l'art. 2560, comma 2, c.c., nel quale si stabilisce che l'acquirente risponde dei debiti del cedente inerenti all'esercizio dell'azienda trasferita, ma soltanto “se essi risultano dai libri contabili obbligatori”. Si attribuisce quindi all'acquirente la corresponsabilità per i debiti aziendali dell'alienante, ma soltanto entro il limite (preventivamente quantificabile da un acquirente mediamente accorto) delle risultanze dei libri contabili obbligatori tenuti dall'alienante medesimo.

Già anteriormente alla riforma organica del 2006, allorquando la legge fallimentare non conteneva ancora alcuna disciplina specifica per la vendita dell'azienda, la maggioranza dei commentatori escludeva che la norma dettata dall'art. 2560, comma 2, c.c. potesse applicarsi alla vendita dell'azienda posta in essere dal curatore nell'ambito della liquidazione dell'attivo fallimentare. Le ragioni alla base di tale orientamento erano molteplici.

In primo luogo, posto che la responsabilità dell'acquirente è volta (come visto) a tutelare i creditori dai rischi di diminuzione o perdita della loro garanzia patrimoniale connessi all'alienazione dell'azienda, è chiaro che rischi simili non dovrebbero porsi nel caso in cui la vendita sia effettuata nell'ambito della liquidazione fallimentare, effettuata dal curatore sotto la vigilanza degli organi della procedura proprio al fine del soddisfacimento dei creditori; veniva inoltre richiamata la necessità di favorire l'appetibilità dei complessi aziendali ricompresi nell'attivo fallimentare, di fatto irrimediabilmente compromessa laddove l'acquirente avesse dovuto rispondere di tutti i debiti aziendali di un soggetto già dichiarato fallito. Sul piano sistematico, inoltre, l'applicazione dell'art. 2560, comma 2 c.c. alla vendita fallimentare dell'azienda avrebbe comportato il rischio di lesione della par condicio, combinato ad un concorrente pericolo di pregiudizio per la massa, atteso che soltanto i creditori le cui pretese fossero stati inerenti all'esercizio dell'azienda venduta e fossero risultati dai libri contabili obbligatori avrebbero avuto il diritto di essere soddisfatti integralmente dall'acquirente, al quale a sua volta si sarebbe dovuto riconoscere un diritto di regresso verso la massa fallimentare o una corrispondente riduzione del prezzo di acquisto dell'azienda, in ogni caso con riduzione dell'attivo distribuibile in pregiudizio esclusivamente dei creditori non aziendali o non risultanti dai libri contabili obbligatori. Infine, l'applicazione della regola generale sancita dall'art. 2560, comma 2, c.c. sarebbe stata impedita dal generale effetto purgativo connesso a tutte le vendite forzate, tra le quali erano e sono tuttora pacificamente ricondotte quelle realizzate nell'ambito della liquidazione dell'attivo fallimentare.

Come si vede, si tratta di argomentazioni solide e delle quali non era possibile non tenere conto. Ed infatti, in occasione della riforma organica il legislatore ha recepito tali considerazioni ed ha codificato l'orientamento dottrinale già prevalente nell'art. 105, comma 4, l.fall., poi trasposto immutato nell'art. 214, comma 3, c.c.i.; come già anticipato, tale previsione contempla una deroga all'art. 2560, comma 2, c.c., escludendo che l'acquirente dell'azienda trasferita nell'ambito delle operazioni di liquidazione dell'attivo fallimentare sia responsabile per i debiti aziendali pregressi, ancorché risultanti dai libri contabili obbligatori.

Il caso esaminato dalla Cassazione e la questione controversa

Il chiaro tenore letterale della previsione normativa de qua e le molteplici convergenti rationes sulle quali la stessa si fonda, fanno sì che la portata precettiva dell'art. 105, comma 4, l.fall. (come anche dell'art. 214, comma 3, c.c.i.) non ponga particolari dubbi: come detto, la norma si limita ad escludere la responsabilità dell'acquirente per i debiti inerenti all'esercizio dell'azienda acquistata dal curatore fallimentare, ancorché risultanti dai libri contabili obbligatori e salvo diversa pattuizione delle parti. Ed in effetti, nella sentenza in commento la Cassazione non è stata chiamata a pronunciarsi sul contenuto della norma, bensì sull'esatta delimitazione del suo perimetro applicativo. La quaestio juris sottoposta all'attenzione dei Giudici di legittimità, in altri termini, non concerneva il contenuto dell'art. 105, comma 4, l.fall., bensì l'applicabilità o meno di tale norma nel caso concreto, che dunque è necessario illustrare.

In sintesi, il caso scrutinato dai Giudici di legittimità vedeva il creditore di un soggetto fallito intimare con atto di precetto il pagamento del proprio credito all'acquirente dell'azienda venduta dal curatore, il quale a sua volta proponeva opposizione all'esecuzione contestando il diritto della controparte di agire in executivis nei propri confronti per il credito vantato verso il fallito. Nella stessa sentenza in commento si afferma, inoltre, che l'azienda della cui vendita si trattava era stata in precedenza concessa in affitto all'acquirente e che “tale vendita era conclusa tramite accordo col curatore fallimentare e con richiamo del diritto di opzione di vendita concesso al momento della stipula del contratto d'affitto con la società in bonis”.

I gradi di merito del giudizio vedevano il creditore sempre soccombente, seppure sulla base di motivazioni diverse. In primo grado, infatti, l'opposizione proposta dall'acquirente veniva accolta in ragione della mancata dimostrazione della risultanza del credito in questione nei libri contabili obbligatori del fallito; in tal modo, seppur implicitamente il Tribunale confermava l'astratta applicabilità dell'art. 2560, comma 2, c.c.. All'esito del gravame, invece, la Corte d'Appello rilevava la radicale inapplicabilità dell'art. 2560, comma 2, c.c., proprio in virtù della deroga prevista dall'art. 105, comma 4, l.fall. ed indipendentemente dalle risultanze dei libri contabili obbligatori.

Proponendo ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, il creditore lamentava tra l'altro l'inapplicabilità nel caso di specie dell'art. 105, comma 4, l.fall. e la conseguente operatività del regime ordinario previsto dall'art. 2560, comma 2, c.c., perché l'azienda in questione sarebbe stata venduta dal curatore del fallimento “senza esperimento di una gara e, anzi, in forza di accoglimento, da parte della curatela, dell'offerta irrevocabile d'acquisto formulata dall'affittuaria alla società (Omissis), allora in bonis”.

In sostanza, come afferma la stessa Cassazione nella sentenza in commento, il creditore interpretava l'art. 105, comma 4, l.fall. “nel senso che l'esclusione della responsabilità dell'acquirente dell'azienda per i debiti aziendali sorti prima del trasferimento trova applicazione solo in caso di vendita competitiva, a norma della L.Fall., art. 107 (disposizione richiamata nel citato art. 105, comma 2), con la conseguenza che, in caso di alienazione priva delle caratteristiche indicate dalla menzionata norma, il terzo potrebbe agire in executivis nei confronti dell'acquirente ex art. 2560 c.c.”.

Il creditore ricorrente, dunque, prospettava l'esistenza di una relazione diretta tra l'applicabilità della regola sancita dall'art. 105, comma 4, l.fall. ed il carattere competitivo della vendita dell'azienda posta in essere dal curatore, quasi che l'esonero dalla responsabilità per i debiti aziendali pregressi dovesse considerarsi alla stregua di una misura premiale concessa all'acquirente soltanto nel caso in cui il suo acquisto costituisca l'esito dell'espletamento di una procedura di vendita competitiva.

La decisione: l'effetto purgativo quale regime ordinario di tutte le operazioni di liquidazione fallimentare

Pur definendo testualmente “suggestiva” la tesi proposta dal creditore ricorrente, nella sentenza in commento la Cassazione la respinge sulla base di due argomenti tra loro collegati. In primo luogo, la Suprema Corte rileva che il tenore letterale della disposizione depone inequivocabilmente per la generale applicabilità della regola in esame a tutte le alienazioni concluse dal curatore, con la sola eccezione dell'esistenza di una “diversa convenzione” pattuita tra le parti cui fa riferimento l'incipit della norma; ciò, secondo la Corte, “induce a concludere che anche le alienazioni concluse per contratto sono, di regola, assoggettate proprio alla disposizione della L.Fall., art. 105, comma 4”.

I Giudici di legittimità aggiungono che, seppure l'art. 107 l.fall. (analogamente all'art. 216 c.c.i.) imponga quale regola di carattere generale il ricorso a procedure competitive per la liquidazione dell'attivo, l'eventuale violazione di tale principio “anche sotto il profilo dell'inadeguato carattere competitivo delle operazioni espletate, va fatta valere nell'ambito della procedura concorsuale e coi rimedi previsti”, ovvero con il reclamo avverso gli atti del curatore a norma dell'art. 36 l.fall. (ed ora dell'art. 133 c.c.i.); sempre con le parole della Cassazione, quindi, si deve escludere “non solo che l'eventuale violazione nel procedimento di alienazione dell'azienda possa essere vagliata da un giudice estraneo alla procedura concorsuale, ma pure che, in ogni caso, la stessa possa riverberarsi sulla validità dell'atto negoziale posto in essere sulla sua base e sulle conseguenze che la legge - segnatamente la L.Fall., art. 105, comma 4, - ad esso attribuisce”.

Sulla base di tali argomentazioni, la Cassazione giunge ad affermare che la vendita dell'azienda posta in essere dal curatore, “ancorché derivante da procedura non competitiva (come sostiene l'odierna ricorrente) e in mancanza di denunce di vizi del procedimento di vendita al giudice della procedura concorsuale” rientra in ogni caso nel perimetro applicativo dell'art. 105, comma 4, l.fall. ed è caratterizzata dall'effetto purgativo dei debiti pregressi previsto dalla menzionata disposizione. Conseguentemente, l'acquirente non può essere chiamato a rispondere dei debiti pregressi inerenti all'azienda acquistata, a prescindere dalla loro risultanza dai libri contabili obbligatori.

I dubbi sull'effettiva applicabilità dell'art. 105, comma 4, l.fall. al caso esaminato

La decisione in commento si basa su un percorso motivazionale chiaro e ad una prima disamina coerente: per quanto il curatore abbia il dovere di procedere alle operazioni di liquidazione dell'attivo nel rispetto del principio della competitività, non vi è alcuna correlazione tra tale dovere e l'operatività della regola sancita dall'art. 105, comma 4, l.fall., sicché la sua eventuale violazione, censurabile nell'ambito della procedura fallimentare, non comporta alcuna riespansione del regime di responsabilità ordinario previsto dall'art. 2560, comma 2, c.c.. Al contrario, l'esclusione della responsabilità per i debiti pregressi opera con riguardo a tutte le vendite d'azienda effettuate dal curatore nell'ambito della liquidazione fallimentare, salva soltanto un'eventuale diversa pattuizione concordata tra le parti.

In linea di principio quanto affermato dalla Suprema Corte risulta condivisibile, pur con la precisazione sulla quale si tornerà nel prosieguo. Sulla correttezza in concreto della decisione assunta dai Giudici di legittimità si può tuttavia avanzare qualche dubbio.

In effetti, nonostante tale profilo della questione non risulti essere emerso con sufficiente chiarezza nel giudizio deciso dalla Suprema Corte, secondo l'opinione comune l'ambito di operatività dell'art. 105, comma 4, l.fall. deve essere limitato ai soli atti di liquidazione dell'attivo, non potendo invece trovare applicazione in relazione agli atti riconducibili nell'attività di amministrazione dell'attivo fallimentare svolta dal curatore. In concreto, ciò vuol dire che la previsione in oggetto riguarda tutte le vendite d'azienda effettuate invito domino, ancorché concluse con forme negoziali (come attualmente consentito dall'ordinamento concorsuale), ma non anche quelle stipulate in adempimento di negozi precedenti l'apertura del fallimento e nei quali il curatore abbia inteso subentrare ex art. 72 l.fall., poiché queste ultime conservano la loro natura prettamente privatistica e ad esse si applica la disciplina generale, ivi inclusa la regola sancita dall'art. 2560, comma 2, c.c..

Il caso generalmente richiamato nella letteratura è quello della vendita dell'azienda conclusa in esecuzione di un precedente contratto preliminare di vendita nel quale il curatore abbia inteso subentrare; in linea di principio, però, sembra che alle medesime conclusioni debba giungersi anche laddove il curatore abbia inteso esercitare l'opzione di vendita concessa per contratto al soggetto ancora in bonis. Anche in tal caso, infatti, la vendita dell'azienda scaturisce dall'esercizio di un diritto (quello di accettare la proposta irrevocabile di acquisto avanzata dalla controparte) sorto per effetto del precedente patto di opzione, nel quale il curatore ha certamente la facoltà di subentrare.

Nel caso di specie, dalla sentenza si evince che la vendita in questione fosse stata stipulata “con richiamo del diritto di opzione di vendita concesso al momento della stipula del contratto d'affitto con la società in bonis”; risulta, inoltre, che il ricorrente avesse dedotto che la vendita sarebbe stata conclusa “in forza di accoglimento, da parte della curatela, dell'offerta irrevocabile d'acquisto formulata dall'affittuaria alla società (Omissis), allora in bonis”.

Non è possibile verificare se tale assunto corrispondesse alla realtà dei fatti e, peraltro, un simile accertamento era probabilmente precluso anche alla Suprema Corte, quale giudice di legittimità. Ciò detto, se la vendita dell'azienda fosse effettivamente scaturita dal mero esercizio dell'opzione di vendita concessa alla società ancora in bonis, previo subentro ex art. 72 l.fall. del curatore nel patto di opzione (collegato al contratto di affitto), la stessa sarebbe stata estranea all'ambito di operatività dell'art. 105, comma 4, l.fall.; ciò a ben vedere, non in ragione del lamentato difetto di competitività nella procedura di vendita (sul quale sembra che il ricorrente abbia particolarmente insistito) bensì perché la vendita non avrebbe potuto considerarsi un atto di liquidazione dell'attivo, ma un atto di mera amministrazione del patrimonio fallimentare.

In definitiva, secondo tale inquadramento della fattispecie concreta, non si sarebbe trattato di una vendita forzata, per quanto posta in essere in violazione del principio di competitività, ma di un contratto stipulato dal curatore nell'esercizio dei suoi poteri di gestione del patrimonio fallimentare, con conseguente inapplicabilità della deroga sancita dall'art. 105, comma 4, l.fall. al regime generale di responsabilità delineato dall'art. 2560, comma 2, c.c..

Tanto il ricorrente quanto i Giudici di legittimità sembrano essersi disinteressarsi quasi completamente di tale aspetto della questione. La Corte, in particolare, sembra presupporre l'assoluta irrilevanza della tipologia di vendita di cui si tratta, affermando la generalizzata applicabilità dell'art.105, comma 4, l.fall. a qualsiasi vendita d'azienda posta in essere dal curatore.

A prescindere dalla correttezza o meno della decisione della specifica controversia, tuttavia, l'assolutezza di tale affermazione risulta opinabile; in definitiva, la pronuncia della Cassazione fa sorgere dubbi sull'eventuale applicabilità della regula juris dettata dall'art. 105, comma 4, l.fall. anche alla vendita d'azienda posta in essere dal curatore in adempimento di un precedente rapporto negoziale nel quale lo stesso abbia inteso subentrare, applicabilità che invece è pacificamente esclusa in dottrina.

Resta infine da precisare che, assumendo l'inapplicabilità dell'art. 105, comma 4, l.fall. in ragione della natura non liquidatoria ma puramente gestoria della vendita dell'azienda stipulata dal curatore per effetto del subentro in un precedente contratto preliminare o patto di opzione, la responsabilità dell'acquirente non discenderebbe da alcuna ipotetica “violazione nel procedimento di alienazione dell'azienda”, bensì dall'esatta qualificazione giuridica dell'atto posto in essere dal curatore: trattandosi di vendita forzata (seppure conclusa con le forme contrattuali consentite dall'art. 107 l.fall.), l'art. 2560, comma 2, c.c. sarebbe inapplicabile, in forza della deroga prevista dall'art. 105, comma 4, l.fall. ed il creditore non avrebbe il diritto di agire contro l'acquirente; al contrario, trattandosi di atto di mera amministrazione del patrimonio fallimentare, la deroga di cui all'art. 105, comma 4, l.fall. sarebbe inoperante, con conseguente applicabilità del regime ordinario di cui all'art. 2560, comma 2, c.c., In quest'ultimo caso, quindi, il creditore ben potrebbe agire contro l'acquirente per far valere la sua responsabilità per i debiti aziendali pregressi.

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