Licenziamento ritorsivo: l'intento datoriale deve avere efficacia determinativa esclusiva

Paolo Patrizio
14 Settembre 2023

In caso di allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento comminato occorre che, per accordare la tutela che l'ordinamento riconosce, l'intento datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso. L'esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest'ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale.
Massima

[…] per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento […].

Il caso

Un dirigente di un Istituto di credito italiano veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo, in conseguenza dell'asserita profonda riorganizzazione societaria e della necessitata soppressione della posizione di “direction” ricoperta dal lavoratore, con correlato accorpamento della funzione ad altra direzione aziendale.

In primo grado il Giudice del lavoro adito, ritenendo comprovata la natura ritorsiva del licenziamento sulla scorta di una serie di elementi indiziari, provvedeva alla declaratoria di nullità del recesso datoriale, con contestuale condanna della società alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni globali di fatto dalla data del recesso fino a quella della effettiva riammissione in servizio, oltre al versamento dei contributi previdenziali, accessori e spese.

Impugnata la sentenza in sede di gravame da parte del datore di lavoro, la Corte di appello confermava le statuizioni del Tribunale di prime cure, condividendo la valutazione di ritorsività compiuta dal primo Giudice.

In particolare, la Corte territoriale evidenziava come, in primo luogo, non risultassero compiutamente provate le ragioni espressamente indicate dall'Istituto di credito nella lettera di licenziamento, in quanto dall'istruttoria svolta non era emersa la "profonda riorganizzazione" posta dalla banca a fondamento del recesso, né fossero state provate le mutate esigenze che avrebbero imposto, in un breve lasso di tempo, la soppressione della posizione di direction e il collocamento dell'area direction in altra direzione aziendale.

In secondo luogo, non risultava nemmeno provato perché la scelta del lavoratore da licenziare fosse caduta sul dirigente ricorrente e non sul suo collega posto alla direzione dell'area direction in questione, oltre al fatto che dalle emersioni processuali era stata smentita la circostanza, indicata nella lettera di licenziamento, riguardante l'insussistenza di altre posizioni aziendali coerenti con il profilo del ricorrente.

Infine, e sotto il profilo della natura ritorsiva del recesso, era emerso in causa come il dirigente avesse assunto, nei mesi immediatamente precedenti alla data del licenziamento, iniziative in contrasto con gli interessi e la volontà dell'amministratore della società, oltre all'elemento del mancato rilascio della Banca della attestazione di good leaver, il che avrebbe consentito di non dover offrire le proprie quote in opzione agli altri soci, mantenendo la partecipazione in tale società.

L'Istituto di credito decideva, nondimeno, di sottoporre la questione al vaglio della Suprema Corte, sulla scorta di un unico articolato motivo riguardante l'esplicitazione di una diffusa critica della sentenza impugnata.

In particolare, invero, la banca ricorrente lamentava che la Corte territoriale si sarebbe limitata a sancire la ritorsività del licenziamento, senza prendere minimamente in esame le argomentazioni, le prove e le testimonianze emerse nei due gradi di giudizio, oltre al fatto che la pronuncia sarebbe fondata su mere presunzioni certamente prive del requisito della gravità della precisione e della concordanza, oltre che su circostanze che risulterebbero inveritiere e smentite dalle produzioni documentali e dalle deposizioni testimoniali in atti.

La questione

La questione in esame involge il profilo del licenziamento ritorsivo, quale recesso riconducibile all'alveo dei licenziamenti nulli per motivo illecito determinante, analizzato in rapporto di consecutio logico giuridica rispetto al previo accertamento della insussistenza della causa posta a fondamento del recesso datoriale.

La soluzione giuridica

Nel dirimere il caso posto alla propria attenzione, la Suprema Corte parte dalla constatazione di inammissibilità del proposto ricorso, avendo l'Istituto di credito articolato l'intero costrutto impugnatorio in sede di legittimità sulla sostanziale contestazione della mera ricostruzione dei fatti operata dai giudici di primo e secondo grado, a partire dalla mancanza di prova della giustificazione addotta a fondamento del recesso.

Come è noto, tuttavia, le Sezioni unite civili hanno più volte ribadito l'inammissibilità di censure che, sotto l'apparente deduzione di formali denunce di errori di diritto, tentano di invocare la rivalutazione della Suprema Corte dei fatti storici da cui è originata l'azione, così travalicando i limiti dell'accertamento di fatto non suscettibile di riesame innanzi alla Corte di legittimità.

Appare, infatti, fuor di dubbio, in tal senso, come la valutazione della intimazione del licenziamento per motivo di ritorsione costituisca una quaestio facti che, come tale, resta devoluta all'apprezzamento dei giudici del merito. Medesima considerazione valga per l'operata critica, in sede di legittimità, del ragionamento presuntivo compiuto dai precedenti estensori, in quanto spetta al giudice del merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni e di individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzandone la rilevanza, l'attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l'attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche.

Va, pertanto, escluso che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per se' solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori, spettando al giudice del merito l'apprezzamento circa l'idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell'id quod plerumque accidit.

Ciò posto, evidenziano i Giudici di Cassazione, sotto il profilo dogmatico vige la considerazione in massima per cui, per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento.

Dunque, una volta acclarata l'insussistenza di un giustificato motivo di licenziamento, la Corte territoriale, confermando il convincimento già espresso dal primo giudice, ha ritenuto che non concorresse, nella determinazione del licenziamento, un motivo lecito ed ha considerato provata la natura ritorsiva del recesso sulla scorta di una serie di elementi, ben potendo il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo di recesso, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso.

Ciò in quanto, l'allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare, ai sensi della l. n. 604/1966, articolo 5, l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso e solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo e, dunque, l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso.

La Suprema Corte, pertanto, conclude per l'inammissibilità del proposto ricorso.

Osservazioni

La pronuncia in commento ci consente di avanzare alcune considerazioni di sintesi sul tema del licenziamento ritorsivo, considerato dall'ordinamento come l'ingiusta ed arbitraria reazione datoriale, a carattere per lo più vendicativo, rispetto ad un comportamento legittimo del lavoratore in termini di esercizio dei diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro o a questo comunque connessi.

Si è, dunque, in presenza di un recesso riconducibile all'alveo dei licenziamenti nulli per motivo illecito determinante, essendo l'atto finalizzato all'espulsione dei lavoratori scomodi per comportamenti del tutto legittimi ma che risultano nondimeno sgraditi al datore di lavoro.

Appare, allora, importante fissare alcuni punti fermi in tema di procedimento logico giuridico e di ripartizione dell'onere probatorio in materia, partendo dall'assunto per cui il motivo illecito addotto ex art. 1345 Codice Civile deve essere determinante.

Ed invero, in caso di allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento, per accordare la tutela che l'ordinamento riconosce, occorre che l'intento vendicativo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso.

Il motivo illecito deve risultare, dunque, non solo quale l'unica effettiva ragione di recesso, ma deve anche essere vestita del carattere di esclusività, il che sta a significare che lo stesso può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest'ultimo sia stato formalmente addotto, ma risulti poi di fatto acclarato come insussistente nel riscontro giudiziale.

Ecco che, allora, si determina in tal modo una prima conseguenza sul lato della ripartizione dell'onere probatorio, in stretta applicazione del disposto dell'articolo 2097 Codice Civile, che scandisce il principio logico-argomentativo per cui chi vuole dimostrare l'esistenza di un fatto in giudizio, ha l'obbligo di fornire le prove per l'esistenza del fatto stesso.

Ed invero, se l'esistenza di un motivo legittimo di licenziamento tendenzialmente ne esclude il carattere ritorsivo, è necessario che la prima verifica giudiziale attenga alla comprovazione del motivo di licenziamento addotto dal datore di lavoro.

Ciò in quanto, come ricordato dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento, l'allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare, ai sensi della l. n. 604/1966, articolo 5, l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso e solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo e, dunque, l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso.

Ne discende che, sotto il profilo della consecutio logico giuridica, in sede giudiziale il datore dovrà fornire prova della esistenza del motivo lecito formalmente addotto e, qualora ciò non avvenga o venga acclarata in corso di causa la dimostrazione della sua insussistenza, il lavoratore dovrà fornire piena prova della ricorrenza del motivo illecito e che esso sia stato determinante ed esclusivo.

In sostanza, in ipotesi di domanda che adduca la nullità del licenziamento per il suo carattere ritorsivo, la verifica di fatti allegati dal lavoratore richiede il previo accertamento della insussistenza della causa posta a fondamento del recesso ed il giudice, una volta riscontrato che il datore di lavoro non abbia assolto gli oneri su di lui gravanti e riguardanti la dimostrazione ad esempio del giustificato motivo oggettivo, procede alla verifica delle allegazioni poste a fondamento della domanda del lavoratore di accertamento della nullità per motivo ritorsivo, il cui positivo riscontro giudiziale dà luogo all'applicazione della più ampia e massima tutela prevista dal primo comma dell'articolo 18 l. n. 300/1970.

Il lavoratore, pertanto, sarà tenuto non solo a provare l'esistenza di un motivo ritorsivo, ma anche a fornire la prova che detto motivo sia stato l'unico a determinare la volontà datoriale di recedere dal contratto in essere, dovendo indicare elementi idonei ad individuare la sussistenza di un rapporto di causalità tra il recesso e l'asserito intento di rappresaglia.

E non appare inopportuno qui sottolineare come vi sia una profonda differenza tra licenziamento ritorsivo e licenziamento discriminatorio, quali fattispecie autonome e ben contraddistinte, che vengono molto spesso accomunate o sovrapposte non a ragione.

In verità, tale diffusa convinzione di sostanziale accomunabilità era stata inizialmente ingenerata da parte della giurisprudenza, che aveva in più di un'occasione sovrapposto le due fattispecie al fine di estendere le tutele previste per il licenziamento discriminatorio anche all'ipotesi di licenziamento ritorsivo.

Questa impostazione, tuttavia, è stata progressivamente abbandonata, sul presupposto della possibile riconnessione sostanziale dell'ipotesi del licenziamento ritorsivo al fondamento di tutela sancito dall'art. 1345 c.c., diversamente dal licenziamento discriminatorio che trova la sua collocazione nel quadro della normativa antidiscriminatoria interna ed europea.

E si badi che tale divisione operativa non è affatto speciosa, determinando una distinzione netta di operatività per quel che concerne la sussistenza e la prova dell'elemento intenzionale.

Ed invero, come evidenziato in precedenza, mentre nel licenziamento ritorsivo il lavoratore deve dimostrare non solo la sussistenza del motivo illecito che connota la punizione datoriale rispetto ad una condotta legittima del dipendente ma anche l'esclusività dell'intento ritorsivo; nel licenziamento discriminatorio, invece, non rileva affatto (quantomeno di recente) l'elemento soggettivo connesso alla volontà discriminatoria del datore di lavoro e la discriminazione inficia la validità del licenziamento anche nel caso in cui concorrono altri motivi o finalità lecite a giustificazione del medesimo recesso.

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