Licenziamento disciplinare per maltrattamenti: illegittimo se la condotta extra lavorativa, seppure deprecabile, non influisce sul rapporto di lavoro

20 Settembre 2023

È illegittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore per il solo fatto di essere stato denunciato dalla compagna per maltrattamenti. La Suprema Corte, sulla base della decisione dei giudici di merito, ha rilevato che la condotta extra lavorativa, seppure deprecabile, nel caso di specie non aveva avuto alcuna incidenza sul rapporto di lavoro, nemmeno in via riflessa, avuto riguardo in particolare alla condotta mai violenta e/o aggressiva dell'operaio in vent'anni di impiego, al ruolo meramente esecutivo al quale era addetto e all'assenza di qualsivoglia nocumento all'immagine dell'azienda. È dunque tornata a ribadire il consolidato principio secondo il quale: “Le condotte extra lavorative non possono rilevare ai fini della sussistenza di una giusta causa di recesso a meno che le stesse non abbiano un riflesso, anche solo potenziale, sulla funzionalità del rapporto di lavoro”.
Massime

In tema di licenziamento disciplinare, qualora il grave nocumento morale e materiale sia parte integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali come giusta causa di recesso, occorre accertarne la relativa sussistenza, quale elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro, sicché in caso contrario resta preclusa la sussunzione del caso concreto nell'astratta previsione della contrattazione collettiva.

Le condotte extra lavorative non possono rilevare ai fini della sussistenza di una giusta causa di recesso a meno che le stesse non abbiano un riflesso, anche solo potenziale, sulla funzionalità del rapporto di lavoro.

Il caso

La sentenza in commento tratta di un operaio addetto alla linea del reparto di lastroferratura, espulso dall'azienda presso cui lavorava da vent'anni per essere stato accusato dalla compagna di maltrattamenti. Gli veniva irrogato un licenziamento per giusta causa a seguito di una contestazione disciplinare mossagli in conseguenza “sia della denunzia per asseriti maltrattamenti, ingiurie e lesioni personali sporta dalla sua convivente, sia della misura cautelare degli arresti domiciliari alla quale era stato sottoposto (poi convertita nell'obbligo di firma), sia del contenuto dell'originaria ordinanza cautelare del GIP, dalla quale erano emersi plurimi e abituali atteggiamenti oltraggiosi, prevaricatori e violenti nei confronti della predetta convivente e ancor prima dalla sua ex moglie, nella maggior parte dei casi dovuti a futili motivi”.

Il lavoratore impugnava il licenziamento. In primo grado il ricorso veniva respinto dal Tribunale di Cassino che riteneva legittima la posizione aziendale. La sentenza veniva poi riformata dalla Corte d'Appello di Roma, che annullava il licenziamento in quanto illegittimo ai sensi dell'art. 18 co. 4 l. n. 300/1970. L'azienda veniva così condannata alla reintegrazione del lavoratore e non solo, anche al pagamento dell'indennità risarcitoria nella misura di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre ai contributi previdenziali ed assistenziali.

Della stessa opinione i giudici di legittimità che, a fronte dell'inutile ricorso proposto dall'azienda, confermavano la pronuncia di seconde cure, condividendone completamente l'iter decisionale.

La questione

L'ordinanza in oggetto affronta il tema ampiamente dibattuto dell'incidenza della condotta tenuta dal lavoratore al di fuori delle mura lavorative sul vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro, in modo tale da integrare giusta causa del licenziamento “in tronco”. La pronuncia sembra fornire un ulteriore chiarimento ai fini dell'individuazione di quelle condotte che, seppure estranee alle obbligazioni principali del contratto di lavoro, sono però idonee ad incidere irrimediabilmente sullo stesso.

Nel caso specifico, nella contestazione disciplinare mossa contro il lavoratore, accusato di maltrattamenti, veniva palesato dall'azienda “il timore che il lavoratore avrebbe potuto tenere comportamenti analoghi anche all'interno dello stabilimento, considerata la sua indole minacciosa e violenta, soprattutto nei confronti di persone di sesso femminile”; veniva altresì lamentato “il discredito sociale dei comportamenti tenuti dall'uomo, che avrebbe potuto provocare grave nocumento all'azienda”.

Dunque, due sono le motivazioni addotte dall'azienda, giustificative del licenziamento in tronco: il timore di un pericolo concreto e attuale che il lavoratore, asseritamente minaccioso e aggressivo, potesse porre in essere atti violenti sul luogo di lavoro a danno dei colleghi o dei clienti; il pregiudizio che poteva derivare all'immagine dell'azienda, qualora si fosse venuto a conoscenza che un impiegato fosse stato penalmente accusato.

Le soluzioni giuridiche

I giudici di legittimità, sulla stessa scia dei giudici di merito, in poche pagine hanno rigettato il ricorso proposto dall'azienda.

In particolare, riavvolgendo le fila della pronuncia di secondo grado, per quanto riguarda “l'affermazione di un pericolo concreto e attuale che il lavoratore, descritto come aggressivo e violento, continui a porre in essere atti ingiuriosi, minacciosi e violenti anche sul luogo di lavoro è rimasto un mero assunto, sfornito di qualunque riscontro oggettivo”. Al contrario, dalle risultanze fattuali emergeva che “nel lungo periodo fra l'assunzione e i fatti posti a base del licenziamento, il lavoratore non ha mai tenuto comportamenti aggressivi e violenti, né la società gli aveva mai contestato condotte sconvenienti, prepotenti o litigiose verso i clienti”.

Relativamente al discredito sociale, idoneo a provocare un grave pregiudizio all'immagine della società, “non è emersa in modo chiaro ed univoco l'evidenza di un pregiudizio né effettivo né potenziale dell'azienda, anche solo come riflesso, che avrebbe potuto avere la condotta extra lavorativa, peraltro priva di eco mediatico, sull'immagine dell'azienda”.

Se così stanno le cose, non è stata fornita la minima prova dalla quale potersi desumere che la condanna per maltrattamenti del resistente avesse avuto un'incidenza sul rapporto di lavoro, nemmeno in via riflessa.

Dunque, quando il rapporto di fiducia datore-lavoratore può dirsi leso irrimediabilmente da una condotta estranea al contratto e quindi “extra lavorativa”?

Rispondendo puntualmente al quesito, la Suprema Corte ha colto l'occasione per ribadire essenziali principi di diritto in materia:

- Quali i dati fattuali su cui debba vertere la valutazione sulla configurabilità della giusta causa, e nello specifico: “in varie occasioni questa Corte ha ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento anche in presenza di condotte extra lavorative, a condizione però che abbiano un riflesso anche solo potenziale, ma comunque oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, a causa della compromissione dell'aspettativa datoriale circa un futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività svolta dal dipendente licenziato”.

- La non vincolatività delle previsioni dei contratti collettivi rispetto alla nozione legale di giusta causa.

Nel caso di specie la ricorrente, con un primo motivo di censura, lamentava violazione e falsa applicazione degli art. 2087 c.c., 2119 c.c. e 1 l. n. 604/1966, per aver la Corte territoriale ritenuto la condotta extra lavorativa inidonea a ledere il vincolo fiduciario. L'azienda si faceva forte del fatto che nel contratto collettivo esisteva una disposizione che menzionava il “grave nocumento morale e materiale” quale parte integrante della fattispecie prevista come giusta causa di recesso. Tuttavia, ciò non può ritenersi sufficiente, come hanno ribadito i giudici di legittimità “occorre accertare l'effettiva sussistenza del grave nocumento morale e materiale quale elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro, sicché in caso contrario resta preclusa la sussunzione del caso concreto nell'astratta previsione della contrattazione collettiva (Cass., n. 23602/2018)”.

In conclusione, tra le righe della sentenza quella che si disvela è una Suprema Corte adesiva alla cd. teoria moderata, creatasi attorno al binomio giusta causa – condotta extra lavorativa. Secondo tale approccio, deve essere privilegiata una valutazione complessiva dei singoli casi, che tenga conto della posizione soggettiva del dipendente all'interno della struttura aziendale.

Ed infatti, considerando il ruolo meramente esecutivo di operaio addetto alla lastroferratura svolto dal lavoratore, il suo comportamento mai aggressivo ed anzi sempre pacifico in vent'anni di impiego, l'inesistenza di qualsiasi eco mediatico a pregiudizio dell'azienda, la Corte finisce per affermare che la condanna per maltrattamenti, gravante come una spada di Damocle sul lavoratore, in realtà non è stata minimamente in grado di influire sul rapporto di lavoro, nemmeno in via riflessa.

La condotta del resistente è da ritenersi deprecabile sì, ma solo all'interno delle mura domestiche: sul piano lavorativo il fatto materiale non può dirsi illecito “bensì neutro e quindi non rilevante”. Il lavoratore ha fatto rientro in azienda ed ha portato con sé anche un bel bottino a titolo di risarcimento danni. D'altronde, non può esservi perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare, altrimenti si arriverebbe al paradossale risultato che ogni condotta, accertata come reato, si traduca sempre in un illecito disciplinare idoneo a giustificare il licenziamento (Cass. n. 3076/2020).

La condotta extra lavorativa quale giusta causa di recesso datoriale. Orientamenti a confronto

Sul presupposto pacifico che per “giusta causa” debba intendersi “un inadempimento talmente grave che qualsiasi altra sanzione diversa dal licenziamento risulti insufficiente a tutelare l'interesse del datore di lavoro” (Cass. n. 11516/2003), è indubbio che la nozione legale, così interpretata alla luce della giurisprudenza di legittimità, non sia circoscritta ai soli comportamenti integranti notevoli inadempienze contrattuali, ma può configurarsi anche laddove il lavoratore realizzi comportamenti estranei alla sfera del contratto e dell'inadempimento, purché gli stessi siano idonei a far venire meno il rapporto di fiducia tra datore e lavoratore nell'ambiente di lavoro.

Ciò premesso, esiste un criterio ricorrente sulla base del quale discernere le condotte extra lavorative lesive da quelle al contrario non lesive del rapporto fiduciario?

Qual è il punto di reazione in cui giusta causa di recesso e vita privata del lavoratore si incontrano e si intersecano tra loro?

Ebbene, a seguire si tenterà di dare una risposta al quesito, essenziale a tal fine sarà una breve rassegna dei vari orientamenti giurisprudenziali che si sono susseguiti nel tempo che vedono la casistica più variegata, da lavoratori condannati per reati di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti a lavoratori condannati per violenza sessuale su minorenni, a riprova che non sempre, come invece può farci credere la sentenza in commento, una condotta extra lavorativa che non incida direttamente o in via riflessa sul rapporto di lavoro non sia però idonea, per la sua particolare gravità, ad incrinare il vincolo fiduciario.

Condotte extra lavorative che integrano inadempimento dei cd. obblighi accessori

L'immensa casistica giurisprudenziale sul tema può essere perlopiù suddivisa in tre grandi gruppi: il primo ricomprende quelle condotte extra-lavorative idonee a ledere il rapporto fiduciario datore-lavoratore, che si manifestano sottoforma di inadempimento dei cosiddetti “obblighi accessori”. Trattasi di inadempimenti che non rientrano nel nucleo principale dell'obbligazione contrattuale ma sono comunque strettamente correlati a quest'ultima.

Attraverso il richiamo degli artt. 2104 c.c., 2105 c.c., 1175 c.c. e 1375 c.c., viene ampliata la sfera delle prestazioni esigibili dal datore di lavoro e, di conseguenza, anche la sfera degli inadempimenti che possono integrare giusta causa di licenziamento. In estrema sintesi, sono idonee ad integrare giusta causa tutte quelle condotte che violino gli obblighi di diligenza collegati con la prestazione lavorativa o con l'inserimento nel contesto aziendale, gli obblighi preordinati all'adempimento della prestazione lavorativa, gli obblighi di riservatezza e di non concorrenza, derivanti dalla tutela del patrimonio del datore di lavoro, spesso esposto al rischio dall'esercizio dell'attività lavorativa.

Sulla base di quanto detto, è stato ritenuto legittimo il licenziamento in tronco di un lavoratore assente da lavoro per malattia, precisamente per lombosciatalgia acuta da sforzo, che però si recava la sera in pizzeria per svolgere l'attività di cameriere (Cass., n. 17094/2012); ancora è stata ritenuta giusta causa di recesso l'utilizzo smodato del telefonino aziendale a fini ludici e personali (Cass., n. 837/2008); legittimo anche il licenziamento di un dipendente dell'Enel, per aver acquistato a titolo oneroso un immobile del datore di lavoro ad un prezzo notevolmente inferiore a quello di mercato, in violazione del codice etico aziendale e in conflitto di interessi con l'Enel. In particolare, il principio enunciato dai giudici di legittimità in quest'ultimo caso è emblematico rispetto alla casistica ricompresa in tale primo grande gruppo: “L'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato, sancito dall'art. 2105 cod. civ., va integrato in relazione agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., sicché il lavoratore anche nei comportamenti extra lavorativi deve attenersi ai principi di correttezza e buona fede, sì da non danneggiare il datore di lavoro (Cass., n. 25161/2014).

Condotte extra lavorative connesse al datore di lavoro o alla sfera aziendale

All'interno del secondo gruppo vanno collocate tutte quelle pronunce che hanno quale minimo comune denominatore l'avere riconosciuto legittimo il licenziamento in tronco a causa di condotte che a nulla centrano con la prestazione lavorativa, ma che in qualche modo afferiscono al contesto aziendale e al datore di lavoro. Si veda il caso di un lavoratore licenziato per aver postato su F. frasi offensive rivolte contro i colleghi e il datore di lavoro, giusta causa ritenuta sussistente in quanto tale comportamento non integrava una reazione sorretta da una qualche provocazione da parte del datore o dei colleghi (Trib. Ivrea n. 1008/2015). Quest'ultimo assunto fa riflettere, poiché sembra che qualora le offese fossero state rivolte a seguito di una provocazione, il licenziamento allora non sarebbe stato considerato legittimo. Al riguardo, pochi anni prima sul tema era intervenuta la Suprema Corte, la quale: “È illegittimo, perché sproporzionato, il licenziamento per giusta causa irrogato alla dipendente, immune da precedenti disciplinari, per aver rivolto frasi ingiuriose ad un superiore, convinta di aver subìto un torto per il mancato mantenimento della promessa datoriale di non trasferirla” (Cass., n. 16752/2012).

Proseguendo con la casistica, è stato considerato meritevole di licenziamento per giusta causa lo "scherzo" compiuto ai danni di un compagno di lavoro, che era stato indotto con l'inganno ad ingerire un preparato anti umidificante per cavi elettrici, spacciato per bevanda al gusto di te (Cass., n. 8734/1995), o ancora, rileva la condotta del lavoratore che utilizzi i locali aziendali a fini non inerenti all'attività lavorativa, ad esempio: legittimo il licenziamento di un dipendente che aveva utilizzato la cassetta degli attrezzi del proprio superiore a fini personali (Cass., n. 2846/1987), o ancora, del lavoratore che aveva aggredito un altro collega fuori orario lavorativo e all'esterno dei locali aziendali, in quanto comportamento violento “idoneo a scuotere la serenità e normalità dei rapporti di colleganza tra i lavoratori e di collaborazione tra questi ed il datore di lavoro” (Cass., n. 1519/1993).

Parrebbe che in tutti questi casi, ad essere violati siano perlopiù la fedeltà verso il datore di lavoro e il rapporto di “colleganza”.

Tuttavia, sinceramente, alle volte non appare totalmente nitido il principio sulla base del quale la giurisprudenza giudichi legittimo il licenziamento dell'operaio che si limiti ad utilizzare attrezzi di lavoro del datore di lavoro, seppure a scopi personali, ma si sottolinea innocui (nel caso un lavoretto in proprio), ed invece consideri illegittimo il licenziamento del lavoratore che provvede a postare in una chat privata di W. un video in cui è ripreso il suo superiore mentre esce dal bagno in mutande con una bottiglia di apparenti urine in mano, poiché “pur potendo assumere valenza disciplinare del fatto addebitato, la condotta non è idonea ad assumere gravità tale da giustificare il licenziamento” (Cort. App. Venezia n. 258/2020).

Condotte extra lavorative connesse alla persona del lavoratore

Il terzo gruppo è di certo quello più calzante ai fini della presente nota a sentenza, in quanto attiene a tutte quelle condotte realizzate dal dipendente nella sua sfera strettamente personale: non solo condotte penalmente rilevanti, ma anche comportamenti espressivi della sua personalità. Tuttavia, anche qui è doveroso chiedersi, è opportuno denominarle condotte “extra lavorative”? Si pongono su di un piano che del tutto esula dal rapporto di lavoro?

Ci si accinge ora ad analizzare la casistica più rilevante. Nel 2015 la Suprema Corte ha ritenuto legittima la posizione dell'azienda che aveva licenziato un dipendente in quanto trovato in possesso di 200 grammi di hashish con conseguente arresto e applicazione di misura cautelare. Tuttavia, come d'altronde nella sentenza in commento, nella decisione è stato principalmente valorizzato il contesto ambientale nel quale l'episodio si è realizzato: “La detenzione, in ambito extralavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario, il cui apprezzamento spetta al giudice di merito”. Nella specie, il giudice di merito aveva valutato particolarmente grave la condotta del lavoratore in termini di prognosi futura di affidabilità, in quanto “chef de rang” di un ente termale, normalmente addetto al cd. “room service”, attese le mansioni svolte implicanti contatti con il pubblico, e l'acquisto dello stupefacente da parte di un collega (Cass., n. 16524/2015).

Sempre con riguardo alla detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, curioso appare il radicale contrasto tra quanto deciso dalla Corte d'Appello di Lecce, e quanto alla fine statuito dalla Suprema Corte sul destino di un dipendente bancario, licenziato a seguito di condanna per detenzione e spaccio di marijuana. I giudici di merito avevano ritenuto non sussistere giusta causa, poiché non era risultato alcun collegamento concreto tra attività di detenzione e spaccio e quella lavorativa di addetto allo sportello. Non dello stesso avviso i giudici di legittimità, i quali hanno cassato la pronuncia di merito per “non aver valutato come la specifica illustrazione del fatto in sé (detenzione e spaccio di rilevante quantità di sostanze stupefacenti del tipo marijuana, pari a gr. 1.340,81 suddivisi in due buste di plastica e da cui ricavabili n. 3.212 dosi medie: rinvenuti, al momento dell'arresto, con una bilancia da cucina recante ancora residui di marijuana e con un importo di Euro 23.100,00 in contanti) soddisfi pienamente l'onere datoriale di allegazione della sua incidenza irrimediabilmente lesiva del rapporto di fiducia lavorativo: in quanto di gravità tale, anche per l'evidente sintomaticità di un collegamento non occasionale con ambienti malavitosi in grado di consegnare quantità tanto ingenti di stupefacente confidando nella puntualità di collocazione sul mercato e di pagamento, da connotare la figura morale del lavoratore (Cass. n. 20319/2015), tanto più inserito in un ufficio a contatto con utenti (Cass., n. 17260/2016), per giunta di servizi bancari” (Cass., n. 24023/2016).

Conclusa la parentesi detenzione a fini di spaccio, si veda ora il licenziamento per giusta causa inflitto ad un pubblico dipendente che esercitava pubblicamente l'attività di prostituzione, nella specie omosessuale, offrendo le proprie prestazioni sessuali a pagamento su alcuni siti Internet; in tal caso la legittimità del recesso è stata giustificata sulla base del discredito arrecato all'immagine della pubblica amministrazione datrice di lavoro (Cass., n. 12898/2016).

Osservazioni

Certamente, dalla casistica passata in rassegna, emerge una tendenza della giurisprudenza a dichiarare legittimi solo quei licenziamenti dovuti a contestazioni di condotte del dipendente che in qualche maniera, sia diretta che indiretta, siano idonee ad incidere sul rapporto di lavoro, al punto che definirle condotte “extra lavorative” alle volte risulta fuorviante, in quanto comunque afferenti al rapporto di lavoro, seppure assumano le sembianze di inadempimenti dei cd. obblighi accessori e non dell'obbligazione principale. Ricopre un ruolo principale il giudice di merito, al quale è richiesto un dettagliato accertamento del fatto, un'attenta valutazione della prova e una precisa motivazione in relazione alla contestazione. Se così fosse, ne deriverebbe il corretto corollario secondo cui: il giudizio sulla giusta causa non deve mai celare un giudizio sulla moralità astratta del lavoratore, ma deve essere invece inteso quale giudizio di compatibilità tra lavoratore, le sue mansioni e l'ambiente di lavoro nel quale è inserito.

Tuttavia, non può non farsi un cenno alla recente storia di un dipendente licenziato: una condanna penale, risalente nel tempo, per violenza sessuale su una minore di età. Più nel dettaglio, la società veniva a conoscenza della condanna penale gravante su un proprio dipendente per aver lo stesso, tredici anni prima, attratto a sé con forza la minore costringendola a subire un palpeggiamento. Così la Suprema Corte: “Non v'è dubbio che il comportamento per il quale il lavoratore è incorso in una condanna in sede penale, per quanto risalente nel tempo, rivesta un carattere di gravità che non può essere suscettibile di attenuazione solo per effetto del tempo trascorso, dato del tutto neutro. Né tale condotta può esser considerata meno grave, secondo il diffuso comune sentire, sol perché si è svolta in un luogo deputato al divertimento. Una violenza sessuale ai danni di una minore di età, in qualsiasi contesto sia commessa, è secondo uno standard socialmente condiviso una condotta che per quanto di per sé estranea al rapporto di lavoro è idonea a ledere il vincolo fiduciario a prescindere dal contesto in cui la stessa è stata commessa e dal tempo trascorso dal fatto” (Cass., n. 14114/2023).

Quindi ci si chiede, la violenza su un minore, risalente nel tempo e mai reiterata in tredici anni, priva di qualsiasi incidenza sul rapporto di lavoro, può dirsi più grave secondo gli standard etici e “socialmente condivisi” rispetto a reiterati maltrattamenti contro la propria compagna all'interno delle mura domestiche, ugualmente non incidenti sul rapporto di lavoro?

A parere di chi scrive, non può non osservarsi come seppur le massime giurisprudenziali menzionate siano ormai consolidate, l'applicazione delle regole ai casi concreti mostra notevoli discrepanze, tali da rendere assai ondivaga la valutazione giurisprudenziale, rimettendo ad una troppo accentuata discrezionalità dell'interprete il futuro del rapporto di lavoro.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.