Il potere discrezionale della Commissione UE nella scelta del metodo per individuare il profitto di riferimento nelle misure antidumpig
07 Novembre 2023
Massima Nella causa C-747/21 la Corte UE, chiamata ad interpretare la “regola del dazio inferiore” prevista dalla normativa UE in tema di misure antidumping, ha ribadito che in assenza di un metodo specifico previsto dalla norma UE di riferimento per individuare il “margine di pregiudizio”, calcolato confrontando il prezzo delle importazioni oggetto di dumping con un “prezzo di vendita indicativo” dell’industria UE, la Commissione dispone di un ampio potere discrezionale circa la scelta del metodo di calcolo per individuare il “profitto di riferimento”, purché rispetti le garanzie normative UE, potendo calcolare le aliquote del dazio antidumping con il metodo delle “vendite sottocosto”. Il caso A seguito dell'inchiesta sul dumping e sul pregiudizio per l'industria UE, nel corso della quale le società interessate fornivano risposte al questionario ricevuto e consentivano visite di verifica in loco nei propri locali ed in quelli di operatori commerciali a queste collegati, la Commissione decideva di applicare l'art. 18 del Reg. 1225/2009 di base vigente ratione temporis (abrogato e sostituito dall'attuale Reg. 1036/2016), ritenendo che le società non avessero fornito nelle risposte “le informazioni necessarie entro i termini previsti” oltre ad aver “ostacolato il corretto svolgimento dell'inchiesta omettendo di fornire la documentazione sollecitata all'inizio della visita di verifica”. Nel luglio 2016 la Commissione UE ha adottato il Reg. UE 2016/1328 (il reg. controverso) istitutivo del dazio antidumping definitivo sulle importazioni dei prodotti in epigrafe, stabilendo le distinte aliquote per le due società interessate dal provvedimento. Respinti i ricorsi da parte del Tribunale, le società ricorrenti ne chiedevano la riforma alla Corte UE sostenendo che il primo avesse snaturato gli elementi di prova o avesse svolto accertamenti di fatto materialmente inesatti ed avesse altresì male applicato le regola del “dazio inferiore” di cui all'art. 9, par. 4, del regolamento di base. La questione La disciplina normativa unionale in tema di dumping Per dumping si intende (v. il primo meccanismo antidumping di cui al Reg. CEE 459/1968, da allora più volte modificato; v. anche COM(2013) 890 final, p. 1.1.2) la vendita di un prodotto su un mercato d’esportazione ad un prezzo inferiore (prezzo adeguato sul mercato del paese importatore, noto come “prezzo all’esportazione”) al suo valore normale (prezzo appropriato sul mercato del paese esportatore). A fronte di tale situazione l’UE può metter in campo degli strumenti di difesa commerciale (come ad es. i dazi antidumping di cui al Reg. UE 2016/1036 di base), al fine di proteggere la produzione industriale unionale dalle distorsioni del commercio internazionale. Come evidenziato dall’Avv. gen. N. Emiliou nelle proprie conclusioni in C-747/2021 (v. p. 51 e 52), in presenza di dumping, quale forma di discriminazione in materia di prezzi considerata iniqua qualora causi (o minacci di causare) un pregiudizio all’industria nazionale, l’UE può reagire adottando misure antidumping contro tale concorrenza sleale al fine di “impedire o rendere economicamente prive di interesse eventuali importazioni in dumping”, con il fine futuro di “porre rimedio a uno squilibrio nel mercato interno” (v. in sentenza p. 73, nonché C‑362/20, p. 67; C‑371/14, p. 26; C‑638/11, p. 60; C‑458/98, p. 91). In base all’art. 1 del Reg. 1036/2016, un dazio antidumping può essere imposto su qualsiasi prodotto oggetto di dumping la cui immissione in libera pratica nell’UE causi un pregiudizio all’industria locale. Di qui la previsione normativa per cui (art. 1, par. 2) un prodotto è considerato oggetto di dumping quando il suo prezzo all’esportazione (art. 2, lett. B) verso il territorio doganale dell’UE risulti inferiore ad un prezzo comparabile di un prodotto simile, applicato nel paese esportatore nell’ambito di normali operazioni commerciali. La soluzione giuridica Come emerge dal considerando n. 2 del regolamento di base, la legislazione unionale in materia è di diretta derivazione dell’Accordo relativo all'applicazione dell'articolo VI dell'accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT 1994), noto come «accordo antidumping del 1994», che contiene norme riguardanti “il calcolo del dumping, la procedura relativa all'apertura e allo svolgimento successivo delle inchieste, compresi gli aspetti inerenti all'accertamento e all'esame dei fatti, l'istituzione di misure provvisorie e l'imposizione e la riscossione dei dazi antidumping, la durata e il riesame delle misure antidumping e la divulgazione delle informazioni relative alle inchieste antidumping”. Ai sensi dell'articolo VI del GATT 1994 e dell’accordo antidumping, i membri dell’OMC (Organizzazione mondiale del commercio) possono imporre misure antidumping se, dopo un’indagine condotta ai sensi dell’accordo, si accerta che a) è in corso un dumping, b) l’industria nazionale che produce il prodotto simile nel paese importatore subisce un grave pregiudizio e c) esiste un nesso causale tra i due. Ad una misura daziaria anti dumping può giungersi attraverso una denuncia contro il dumping presentata alla Commissione UE dai produttori unionali o tramite un’inchiesta diretta da parte della stessa Commissione, denuncia che “deve contenere elementi di prova relativi all’esistenza del dumping, del pregiudizio e del nesso di causalità tra le importazioni asseritamente oggetto di dumping e il presunto pregiudizio” (v. art. 5, par. 2, del Reg. 1036/2016). La denuncia, contenente tutte le informazioni di cui il denunciante può disporre, viene esaminata dalla Commissione per verificare “l’esattezza e l’adeguatezza degli elementi di prova” nonché per determinare se questi siano sufficienti per giustificare l’apertura di un’inchiesta la quale, se avviata, indica il prodotto e i paesi interessati e fissa i termini entro i quali le parti interessate possono comunicare per iscritto le loro osservazioni e presentare le informazioni necessarie affinché queste siano prese in considerazione nel corso dell’inchiesta. Perché la Commissione UE possa imporre dazi antidumping sulle importazioni nell’UE, occorre che siano soddisfatte alcune condizioni: - il prezzo all’esportazione verso l’UE sia inferiore al suo valore normale (v. art. 2, lett. A, Reg. 1036/2016), generalmente considerato come il prezzo di mercato del prodotto nel paese di esportazione. Tuttavia, se non vi sono vendite o se vi è un basso volume o se le stesse vengono effettuate in perdita nel mercato di provenienza, tale valore è calcolato sulla base del costo di produzione nel paese di esportazione più un importo ragionevole per le spese generali, amministrative e di vendita e il margine di profitto. - esiste un pregiudizio grave (ad es. perdita di quote di mercato, riduzione dei prezzi e/o della redditività) per l’industria UE che produce un prodotto simile; - esiste un nesso di causalità fra le importazioni oggetto di dumping e il pregiudizio grave; - le misure antidumping non siano contrarie agli interessi dell’UE, nel senso che le misure non dovrebbero causare più danni all’economia complessiva dell’UE rispetto al sollievo portato all’industria che soffre a causa delle importazioni. Nel corso del procedimento o al termine dell’inchiesta, la Commissione può istituire rispettivamente dazi provvisori (non prima di 60 giorni e non oltre otto mesi dall’inizio del procedimento, v. art. 7 Reg. 1036/2016) o definitivi, il cui importo non deve superare il margine di dumping (provvisoriamente) accertato, dato dalla differenza fra il valore normale ed il prezzo che l’esportatore applica al prodotto sul mercato dell’Unione, qualora un dazio inferiore sia sufficiente per eliminare il pregiudizio arrecato all’industria unionale (v. artt. 7 e 9). La previsione contenuta nell’art. 9, par. 4, del Reg. 2016/1036 prevede, in particolare, la “regola del dazio inferiore” (“lesser duty rule”), la cui applicazione nei casi di dumping è stata oggetto di modifica da parte del Reg. 2018/825 (v. Com(2023) 294 Final del 7.6.2023 sulla regola del dazio inferiore riveduta nelle inchieste antidumping e anti sovvenzioni nell’UE). Fino al giugno 2018 l’UE applicava sempre tale regola (“opportuna ma non obbligatoria”, v. concl. Avv. gen., nota 21), nelle inchieste antidumping e anti sovvenzioni, laddove un livello inferiore (il cd «margine di pregiudizio») era sufficiente per eliminare il pregiudizio subìto dall’industria unionale. Con la modifica citata, tesa a modernizzare e rafforzare gli strumenti di difesa commerciale dell’UE, si è ritenuto che in presenza di distorsioni significative relative alle materie prime, la Commissione possa imporre misure al livello dell’intero margine di dumping e non al livello del margine di underselling (calcolato confrontando i prezzi all'importazione con il costo di produzione dell'industria dell'UE e un margine di profitto ragionevole) potenzialmente inferiore. È richiesto a tal fine che (v. COM(2023) 294 final): - vi siano distorsioni significative relative alle materie prime (ad es. regimi di doppia tariffazione, tasse all’esportazione, sovrattasse all’esportazione, contingenti all’esportazione, divieti di esportazione, royalties sulle esportazioni, obblighi di licenza, prezzo minimo all’esportazione, etc); - tali distorsioni riguardino almeno una materia prima che rappresenta da sola più del 17% del costo di produzione del prodotto interessato nel paese esportatore; - il prezzo distorto della materia prima sia notevolmente inferiore ai prezzi stabiliti nei mercati internazionali rappresentativi; - la Commissione stabilisca che un livello superiore di misure è nell’interesse dell’UE esaminando tutte le informazioni pertinenti (capacità inutilizzate nel paese esportatore, concorrenza per le materie prime, effetto sulle catene di approvvigionamento per le imprese UE). Evidenzia al riguardo l’Avv. gen. N. Emiliou (p. 33 e ss.) che il Reg. 2016/1036 “non prevede un metodo né un insieme di criteri per determinare il cosiddetto «margine di pregiudizio». Ne consegue che le autorità dell’Unione dispongono di un’ampia discrezionalità a tal riguardo. Di conseguenza, esse sono libere di scegliere il metodo che ritengono più appropriato alle circostanze del caso”, purché sia applicato in modo oggettivo e coerente e conduca a risultati plausibili. Nel caso in commento la Commissione ha fatto ricorso al metodo delle “vendite sottocosto” (v. il Considerando 154 del Reg. 2016/1328 controverso nonché C-273/85, p. 41 e 42), il cui margine di pregiudizio è calcolato confrontando i prezzi reali all’importazione con un “prezzo indicativo” che rappresenta il prezzo che l’industria UE potrebbe ragionevolmente attendersi di praticare sul mercato interno in assenza di importazioni oggetto di dumping. Le contestazioni delle ricorrenti, inerenti alla modalità con cui è stato applicato il metodo del dazio inferiore per l’errata individuazione del periodo specifico preso in considerazione dalla Commissione per determinare il profitto di riferimento, sono state derubricate dall’Avv. gen. (v. p. 25-46). Egli ha sostenuto, (argomentazioni poi riprese dalla Corte in sentenza) come non sia “affatto irragionevole … che in talune circostanze, il periodo in esame e gli anni più rappresentativi non coincidano”, dato che “tali nozioni svolgono una funzione differente e, dunque, la loro individuazione impone alla Commissione di considerare parametri diversi” (p. 53). Da un lato il «periodo in esame» mira ad individuare tendenze significative nel mercato unionale esaminando l’andamento delle sorti della sua industria e la correlazione tra l’accertamento di un pregiudizio ed il deterioramento della situazione dell’industria nel corso di un determinato periodo “sulla base di informazioni il più possibile attuali e relative a un periodo sufficientemente lungo” (v. C‑458/98, p. 92; C‑69/89, p. 87; concl. Avv. gen. G. Tesauro in C-121/86). Dall’altro, invece, gli «anni più rappresentativi» per la determinazione del profitto di riferimento (v. l’art. 7, par. 2 quater, Reg. 1036/2016) non devono fondarsi necessariamente su dati recenti, qualora questi non forniscano un’immagine adeguata di quanto è necessario per ripristinare una concorrenza leale nel periodo successivo all’inchiesta. È ragionevole, quindi, esaminare i “dati storici del mercato interno”, ovvero un periodo “nel corso del quale il dumping non aveva ancora dispiegato i suoi effetti”, alla luce delle considerazioni per cui il margine di profitto “per calcolare il prezzo indicativo atto ad eliminare il pregiudizio di cui trattasi deve essere limitato al margine di profitto che l'industria comunitaria potrebbe ragionevolmente prevedere in normali condizioni di concorrenza, in assenza delle importazioni oggetto di dumping” (v. T-210/1995, p. 60, nonché COM(2013) 890, final, p. 1.1.2). Del resto è il medesimo art. 9, par. 4, c. 2, del Reg. 1036/2016 che, come ricorda l’Avv. gen. (p. 57), rinvia espressamente al proprio art. 7, par. 2 quater, per il quale qualora il margine di pregiudizio sia calcolato in base ad un prezzo indicativo, il profitto di riferimento è stabilito considerando il livello di redditività precedente all’aumento delle importazioni, nonché quello necessario a coprire tutti i costi e quello atteso in condizioni di concorrenza normali. Osservazioni Le argomentazioni della Corte UE Le eccezioni delle ricorrenti avverso la sentenza del Tribunale sono state integralmente respinte dalla Corte UE. Quanto alla prima censura, la Corte ha evidenziato che l’eccezione delle parti per cui il Tribunale non aveva correttamente interpretato ed applicato l’art. 18, par. 1, oltre ad aver snaturato alcuni elementi di prova ed effettuato accertamenti di fatto materialmente inesatti, non solo “non espone a sufficienza l’asserito errore di diritto che il Tribunale avrebbe commesso”, ma soprattutto introduce una “nuova valutazione dei fatti e delle prove”, senza indicare con precisione le inesattezze materiali o gli snaturamenti contestati al Tribunale, né dimostrare gli errori di analisi. L’impugnazione dinnanzi alla Corte deve limitarsi alle questioni di diritto, non essendo questa competente ad accertare i fatti (v. C‑211/20, p. 55; C‑44/16, p. 31 e C‑2/01, p 47). Quanto alla seconda censura, relativa all’applicazione del dazio inferiore (art. 9, par. 4, Reg. 1036/2016) le ricorrenti hanno contestato il diritto, da parte della Commissione, di prendere in considerazione il 2008 come anno rappresentativo più recente, al fine di stabilire il margine di profitto di riferimento dell’industria unionale, sebbene tale anno non facesse parte del periodo in esame (tra l’1.1.2011 ed il 31.3.2015). Hanno eccepito che con la scelta di escludere gli anni della crisi finanziaria in quanto non rappresentativi per l’industria UE ai fini del calcolo del margine di profitto, in favore di un anno di riferimento così vecchio (2008), in cui i profitti erano ad un livello non più raggiungibile in futuro dall’industria unionale, la Commissione avesse violato i limiti temporali di tale valutazione, di fatto prorogandoli retroattivamente. A ben vedere, è proprio il Reg. (controverso) 2016/1328 che evidenzia come (v. i considerandi 155-157) gli anni dal 2005 al 2008 siano risultati rappresentativi per stabilire un profitto di riferimento, perché non colpiti dalla crisi economica e non caratterizzati da condizioni di mercato eccezionalmente favorevoli, di talché il 2008 (anno rappresentativo più recente e anno con condizioni di concorrenza normali) ha costituito una base più adeguata per stabilire un profitto di riferimento. Per calcolare le aliquote del dazio antidumping definitivo, la Commissione è qui ricorsa al metodo della “sottoquotazione dei prezzi indicativi”, calcolando il margine di pregiudizio confrontando il prezzo delle importazioni oggetto di dumping con un prezzo di vendita indicativo dell’industria UE (quello che tale industria poteva ragionevolmente attendersi di praticare in assenza di dette importazioni). In assenza di un metodo specifico o di un insieme di criteri previsto dal regolamento di base per calcolare il margine di pregiudizio considerato dalla regola del dazio inferiore, la Commissione dispone di un ampio potere discrezionale circa la scelta del metodo di calcolo, purché rispetti le garanzie della normativa unionale e si assicuri che la sua scelta conduca a risultati plausibili, senza eccedere nel fine di porre rimedio ad uno squilibrio causato dalle importazioni oggetto di dumping. Con l’ultima censura si contestava l’applicazione analogica dell’art. 2, par. 9, del regolamento di base, sulla base del quale era stato determinato il prezzo all’esportazione dei rivenditori collegati al produttore-esportatore. Per tale norma, se non esiste un prezzo all’esportazione o questo non è attendibile (per l’esistenza di un rapporto d’associazione o di un accordo di compensazione tra l’esportatore e l’importatore o un terzo), tale prezzo può essere costruito in base a quello al quale il prodotto importato è rivenduto per la prima volta ad un acquirente indipendente, oppure, se il prodotto non è rivenduto ad un acquirente indipendente o nello stato della sua importazione, su qualsiasi altra base equa. Al riguardo la Corte UE ha osservato che (v. C-260/20, p. 99) l’esame dell’esistenza di una sottoquotazione dei prezzi, in quanto “questione economicamente complessa per la quale il regolamento di base non impone alcun metodo specifico”, dà alla Commissione un ampio potere discrezionale, purchè l’analogia si inserisca nel “contesto giuridico del regolamento di base e non porti ad un risultato manifestamente erroneo”. Dovendo valutare l’esistenza o meno del pregiudizio al momento dell’immissione in libera pratica nell’UE delle merci oggetto di dumping, è lecito che la Commissione “costruisca” il prezzo all’esportazione, nel caso in commento correlato all’Incoterms CIF (costo, assicurazione e nolo), “detraendo le spese generali, amministrative e di vendita (SVAG) e un margine di profitto dal prezzo di rivendita di tale prodotto a clienti indipendenti” (richiama C-260/20, p. 102 e 105). |