La violazione del dovere di gestione conservativa dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società

27 Novembre 2023

Un punto significativo della disciplina dell'art. 2486 c.c., per il quale al verificarsi di una causa di scioglimento gli amministratori mantengono il potere di gestire la società a soli fini conservativi, è rappresentato dal superamento del divieto di nuove operazioni imposto dall'art. 2449 c.c. prev. L'agire in funzione conservativa ben può esprimersi anche attraverso il mantenimento delle capacità funzionali e produttive dell'azienda, prospettiva questa che autorizza il compimento di ulteriori atti gestori. Tuttavia, non convincono i passaggi della decisione che si annota ove si afferma che spetta all'attore in responsabilità l'onere di allegare e provare il compimento di specifici atti di gestione non rivestenti una finalità meramente conservativa.

Massima

La prosecuzione dell'impresa sociale ed il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori dopo il verificarsi di una causa di scioglimento non costituisce in quanto tale violazione dell'art. 2486 c.c., sicchè essa non può definirsi di per sé “indebita” o addirittura illegittima: lo diventa solo qualora non si sia svolta in termini conservativi, ossia in funzione della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale. E' onere dell'attore allegare e provare il compimento, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, di specifici atti gestori non aventi una finalità meramente conservativa; sorgerà poi in capo agli amministratori l'onere di provare, quale fatto impeditivo, che tali atti abbiano una avuto una finalità conservativa del patrimonio sociale.

Il caso

Il curatore fallimentare proponeva un'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei componenti dell'organo di controllo di una società fallita, deducendo tra l'altro che l'indebita prosecuzione dell'attività sociale, dopo il verificarsi della causa di scioglimento prevista dall'art. 2484 c.1 n. 4 c.c., avesse cagionato un danno al patrimonio sociale apprezzabile nei termini di un significativo aggravamento del dissesto.

La curatela, dopo aver fatto risalire contabilmente la perdita del capitale sociale in epoca anteriore all'accertamento giudiziale dello stato di insolvenza (all'esito di rettifiche e valutazioni contabili ex post come spesso accade in questo tipo di giudizi) allegava a fondamento della pretesa risarcitoria la prosecuzione dell'attività di impresa nell'indifferenza del principio di gestione conservativa di cui all'art. 2486 c.c.

Il Tribunale di Trento rigettava la domanda affermando che l'attore non avesse allegato e provato il compimento di specifici e ben individuati atti di gestione in violazione dell'obbligo di cui all'art. 2486 c.c., sicché si gravava la sentenza innanzi alla Corte Appello lamentando che, al cospetto di una complessa gestione aziendale protrattasi per un considerevole lasso di tempo dopo la perdita del capitale sociale, non fosse possibile né tanto meno proficuo procedere ad una valutazione analitica dei singoli atti di gestione, dovendosi al contrario tenere conto del risultato complessivo. La Corte trentina, tuttavia, confermava con qualche correzione la statuizione impugnata.

Le questioni

La questione centrale, vista la frequenza e l'ampia rilevanza che assumo nell'esperienza concreta le azioni di responsabilità (declinate sia come azione sociale di responsabilità sia come azione dei creditori sociali) nei confronti degli organi di gestione e di controllo (nonché dei terzi a vario titolo concorrenti) soprattutto nel contesto di situazioni di crisi e di insolvenza, è rappresentata dalla perimetrazione degli oneri assertivi e probatori gravanti in capo all'attore che alleghi di aver subito un pregiudizio in conseguenza dell'indebita prosecuzione dell'attività sociale dopo l'inverarsi di una causa di scioglimento (per lo più, nella casistica giurisprudenziale, si tratta della causa di scioglimento prevista dall'art. 2484 c 1 n. 4 c.c., che riconnette la vicenda dissolutiva alla riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, salvo quanto disposto, rispettivamente, dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c.).

Strettamente connessa al tema, da ragioni prima ancora logiche che giuridiche, è l'esatta individuazione dei poteri e degli obblighi posti a carico degli organi gestori nella fase di c.d. liquidazione sostanziale, e cioè nel periodo intercorrente fra il verificarsi della causa di scioglimento e quello della consegna ai liquidatori dei documenti di cui all'art. 2487-bis c.c. c. 2.

E tale questione è resa ancor più attuale da un assai discusso recente pronunciamento della Corte di Cassazione (Cass. 8 marzo 2023, n. 6893, in Le Società, 2023, 8-9, 947, con nota di Civerra, Divieto di nuove operazioni vs gestione conservativa: una storia infinita) rispetto alla quale la Corte distrettuale che si annota si pone in espresso dissenso.

In quella occasione, infatti, la Corte di legittimità, valorizzando la sovrapponibilità della disposizione di cui all'art. 2486 c.c. con il previgente art. 2449 c.c., quanto meno come interpretato nel diritto vivente, ha avallato un'interpretazione della norma secondo criteri ermeneutici elaborati e raffinati nella vigenza dell'abrogato art. 2449 c.c. Da questa premessa il giudice delle leggi ha tratto una conclusione del tutto opposta a quella propugnata dalla Corte di Appello di Trento, poiché ha affermato, in punto di distribuzione dell'onere della prova, che spetta all'attore in responsabilità allegare e provare soltanto la novità delle operazioni compiute, dimostrando il compimento di atti negoziali in epoca successiva all'evento dissolutivo, mentre è preciso onere del convenuto provare i fatti estintivi o modificativi del diritto azionato, mediante dimostrazione che quegli atti erano giustificati da finalità conservative.

Osservazioni

Se è pur vero come è stato notato (Bianchi e Strampelli, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, 2016), e come correttamente afferma la pronuncia in commento, che la norma risultante dalla riforma segna una netta cesura con la precedente e, superando il divieto di nuove operazioni (divieto seppur fortemente mitigato dall'interpretazione giurisprudenziale), dischiude ad una nuova prospettiva che autorizza la prosecuzione dell'attività d'impresa, non convincono le conclusioni alle quali è giunta la Corte di Appello di Trento.

L'inverarsi di una causa di scioglimento, e si badi bene qualsiasi causa di scioglimento, produce un effetto diretto sulla finalizzazione dell'attività d'impresa anche a prescindere dall'adempimento degli obblighi pubblicitari che pure fanno capo agli amministratori ex art. 2485 c.c. (Dimundo, Art. 2486, in La riforma del diritto societario, a cura di Lo Cascio, 2003; Pintus, Lo scioglimento, in La nuova s.r.l., a cura di Farina, Ibba, Racugno, Serra, 2004).

La gestione continua ad essere affidata agli amministratori ma con prerogative residuali, e cioè ai soli fini della salvaguardia dell'integrità e del valore del patrimonio sociale (art. 2486 c.c.).

Le regole della fase dissolutiva sono state ridisegnate dalla riforma con l'obiettivo di garantire, nell'interesse dei soci e dei creditori sociali, la massima valorizzazione del patrimonio sociale, ed i vincoli funzionali previsti dall'art. 2486 c.c. introducono una nuova gerarchia negli obiettivi e nelle strategie aziendali. E' indubbio, tuttavia, che la fattispecie dissolutiva che si realizza all'esito della perdita qualificata del capitale sociale (art. 2484, c.1, n. 4 c.c.) ed alla quale si accosta, nella quasi totalità dei casi una situazione di crisi se non di vera e propria insolvenza, intercetta, più delle altre ipotesi di scioglimento, l'esigenza  di tutelare l'interesse dei soci e dei creditori sociali ad ottenere nel minor tempo possibile e nella misura più cospicua o satisfattiva possibile la liquidazione della propria partecipazione o il pagamento del proprio credito.

Onde, l'insorgenza di una causa di scioglimento, e soprattutto l'erosione rilevante del capitale sociale, determina un mutamento di prospettiva nella quale sono preminenti gli interessi dei creditori sociali e dei soci, e la funzione degli amministratori passa da una gestione dinamica, e discrezionalmente orientata al perseguimento dello scopo sociale, ad un gestione conservativa (Giannelli – Dell'Osso, Art. 2486Poteri degli Amministratori,  in Comm. del Codice Civile, diretto a Gabrielli, 2015) rispetto alla quale le maglie che caratterizzano la discrezionalità dell'attività gestoria inevitabilmente si restringono (sul punto diffusamente Vicari, I doveri degli organi sociali e dei revisori in situazioni di crisi d'impresa, in Giur. Comm, 2012, I,128).

L'art. 2486 c.c., invero, pone al centro la gestione del patrimonio e non dell'impresa onde, anche se si può correttamente sostenere, come ha fatto il giudice distrettuale, che la norma autorizzi una gestione dinamica (a differenza dell'ingessatura che si ricavava da un interpretazione letterale dell'abrogato art. 2449 cc) anche attraverso nuove operazioni, occorre riconoscere che le residuali prerogative gestorie vengono mantenute in capo agli amministratori in via, per così dire, provvisoria ed in attesa del passaggio di consegne ai liquidatori (si legge nella norma sino al momento della consegna di cui all'art. 2487 bis c.c.) di modo che gli stessi hanno il compito di traghettare la società sino alla formale procedura di liquidazione (salvo i rimedi di cui agli artt. 2447 c.c. e 2482-ter c.c.)

Donde, se è pur vero che l'agire in funzione conservativa ben può esprimersi anche nel mantenimento delle capacità funzionali e produttive dell'azienda (certamente l'azienda non è solo un complesso funzionalmente coordinato di beni, ma include anche rapporti giuridici, attività intangibili e soprattutto know how) secondo una prospettiva che può legittimare il compimento di ulteriori atti gestori, deve tuttavia ritenersi che la prosecuzione dell'attività possa legittimamente includere l'assunzione di nuovo rischio d'impresa e di ulteriori impegni di spesa  solo alla ricorrenza di determinate condizioni, e soprattutto per evitare che la brusca interruzione dell'attività disperda l'integrità del patrimonio sociale (inclusivo dell'avviamento aziendale).

Benchè non sia agevole la ricognizione concrea delle direttive, si può ipotizzare che nel caso di azienda performante, con gestione corrente positiva e comportante, in una prospettiva ex ante, un incremento prospettico del patrimonio sociale, sia lecito attendersi il mantenimento dell'impresa in esercizio, non solo proseguendo i rapporti pendenti ma anche assumendo nuovi impegni contrattuali. Si può sostenere che l'opzione sia legittimamente percorribile anche nel caso di gestione economica corrente negativa, per lo meno ove sussistano valide ragioni per ritenere che l'azienda conservi un certo grado di attrattiva, e ciò nell'ottica della conservazione e della valorizzazione dell'avviamento aziendale ai fini della più proficua collocazione sul mercato.

Viceversa qualora, come nel caso sottoposto al vaglio della Corte distrettuale di Trento, vi sia un processo di degrado e l'attività d'impresa venga proseguita per anni senza l'assunzione di iniziative in discontinuità, e con una gestione corrente che restituisce risultati economici negativi senza concrete prospettive di cessione dell'azienda in esercizio, deve ritenersi sufficiente l' l'allegazione (e la prova) della prosecuzione dell'attività d'impresa nel suo complesso, senza che l'attore sia gravato dall'onere di allegare (e provare) il singolo atto o fatto di gestione atomisticamente considerato.

Peraltro, talvolta la complessità del business concretamente praticato non consente di scomporre l'attività dell'amministrare nelle singole ad autonome decisioni correnti, che includono sia quelle più minute e quotidiane che quelle più straordinarie e strategiche

Conclusioni

La riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale si lega alla compromissione degli assetti patrimoniali della società, e normalmente ad essa si accompagna la perdita della continuità aziendale, o comunque la sussistenza di segnali di crisi che dovrebbero essere immediatamente colti e gestiti (art. 2086 c.c.).

L'evento dissolutivo produce immediate ricadute sul piano endosocietario, poiché l'assemblea è chiamata ad assumere le decisioni contemplate dagli artt. 2447 c.c. e 2482-ter c.c. e, salvo che siano deliberate le operazioni straordinarie conservative indicate dalle citate norme, la gestione prosegue in mano agli amministratori in attesa della consegna ai liquidatori dei documenti ex art. 2487-bis cc.  

Nella fase di liquidazione sostanziale diventa preminente l'interesse dei soci e dei creditori sociali ad ottenere nel minor tempo possibile e nella misura più cospicua o satisfattiva possibile, rispettivamente, la liquidazione della propria partecipazione ed il pagamento del proprio credito, e tale nuova gerarchia negli obbiettivi è particolarmente avvertita nel caso in cui l'evento dissolutivo sia generato dall'erosione del capitale sociale.

In questa prospettiva, la continuazione dell'attività d'impresa richiede che le iniziative siano coerenti con l'obiettivo del miglior realizzo e, quindi, del miglior soddisfacimento dei creditori sociali ovvero della più proficua ripartizione del residuo a beneficio dei soci e, se alla perdita del capitale è associata come spesso accade la perdita della continuità aziendale, con le linee ed i programmi pianificati per conseguire l'ipotetico risanamento. Il che implica, in ogni caso, delle più o meno intense iniziative in discontinuità con la precedente gestione, un'attenta pianificazione ed un aggiornamento delle strategie aziendali talvolta implicanti interventi sulla struttura finanziaria ed industriale dell'ente.

Allora, se così stanno le cose, l'agire in funzione conservativa si atteggia come elemento qualificante il contenuto di un obbligo specifico (Conforti, La responsabilità civile degli amministratori di società per azioni, 274, 2012) e l'onere assertivo e probatorio può dirsi sufficientemente assolto attraverso la deduzione (e la prova) della prosecuzione, a valle dell'erosione qualificata del capitale sociale, dell'attività complessiva di gestione aziendale  senza che la stessa sia stata riprogrammata in funzione conservativa, dovendosi viceversa escludere che occorra individuare in modo più o meno analitico i singoli atti di gestione non conformi ai principi di cui all'art. 2486 c.c.

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