Pubblicazioni on line e responsabilità dell’avvocato per l’attività di web marketing
03 Gennaio 2024
I principi La Legge n. 247/2012 (Legge Professionale Forense), nel rispetto dei principi costituzionali, della normativa comunitaria e dei trattati internazionali, disciplina la professione di avvocato. L'ordinamento forense, stante la specificità della funzione difensiva e in considerazione della primaria rilevanza giuridica e sociale dei diritti alla cui tutela essa è preposta, regolamenta l'organizzazione e l'esercizio della professione di avvocato e, nell'interesse pubblico, assicura la idoneità professionale degli iscritti onde garantire la tutela degli interessi individuali e collettivi sui quali essa incide. Allo scopo di tutelare il superiore affidamento della collettività e della clientela, l'art. 1 della L.P.F. prescrive l'obbligo della correttezza dei comportamenti, la cura della qualità ed efficacia della prestazione professionale, nonché l'indipendenza e l'autonomia degli avvocati. La professione forense, in tal guisa, deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza. E nell'ottica della corretta e leale concorrenza, l'art. 10 della L.P.F. consente all'avvocato la pubblicità informativa sulla propria attività professionale, sull'organizzazione e struttura dello studio, sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici / professionali posseduti, a condizione che la pubblicità e tutte le informazioni diffuse pubblicamente siano trasparenti, veritiere e corrette. Per converso, costituisce illecito disciplinare la pubblicazione e/o la diffusione con qualunque mezzo, anche informatico, di dati, notizie e informazioni comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive. Oltre alle norme dell'ordinamento giuridico e alle leggi speciali, l'avvocato è parimenti tenuto all'osservanza del Codice Deontologico Forense, costituito dall'insieme di regole etico-sociali che disciplinano l'esercizio dell'attività professionale ed approvato dal Consiglio Nazionale Forense, nella veste di Organismo apicale istituzionale dell'Avvocatura e rappresentante dell'intera classe forense. Il Codice Deontologico Forense, il cui testo è suddiviso in 6 parti (oltre al titolo contenente le disposizioni finali), al I Titolo annovera tutti i suddetti principi fondamentali (dignità, probità, indipendenza, competenza, etc.), nonché segretezza, riservatezza ed aggiornamento professionale, che devono essere osservati dal Professionista nell'esercizio dell'attività, nel rapporto con la parte assistita e nei rapporti con i terzi. Il Codice non eccettua i praticanti dal rispetto delle regole deontologiche e dispone anche per essi, in caso di violazione, l'assoggettamento al potere disciplinare degli Organi forensi. Le sanzioni Le violazioni alle norme che presiedono il corretto e leale svolgimento dell’azione forense espongono l’avvocato al giudizio dei Consigli Distrettuali di Disciplina, quali organi preposti alla verifica delle infrazioni e alla comminatoria di sanzioni. Le infrazioni ai doveri e alle regole di condotta dettate dalla legge o dalla deontologia sono sottoposte al giudizio del competente Consiglio Distrettuale di Disciplina nel cui distretto è iscritto l'avvocato (o il praticante), ovvero quello nel cui territorio è stato compiuto il fatto oggetto di indagine o di giudizio disciplinare. L’art. 52 della L.P.F. stabilisce che dalla notizia di illecito scaturisce un procedimento disciplinare che può essere definito con le seguenti deliberazioni: a) proscioglimento, con la formula: «non esservi luogo a provvedimento disciplinare»; b) richiamo verbale, non avente carattere di sanzione disciplinare, nei casi di infrazioni lievi e scusabili; c) irrogazione di una delle seguenti sanzioni disciplinari: avvertimento, censura, sospensione dall'esercizio della professione da due mesi a cinque anni, radiazione. Occorre tenere in considerazione che oggetto di valutazione è il comportamento complessivo dell’incolpato e la sanzione, che è unica anche in caso di più infrazioni, deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all’eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell’incolpato precedentemente e successivamente al fatto, alle circostanze soggettive ed oggettive nel cui contesto è avvenuta la violazione. Ai fini della determinazione della sanzione assume preminente rilevanza l’entità del pregiudizio subito eventualmente dalla parte assistita, la compromissione dell’immagine della professione forense e l’esistenza o meno di precedenti disciplinari. Il successivo art. 53 della L.P.F., in coordinamento con l’art. 22 del Codice Deontologico Forense, presenta il contenuto delle sanzioni, id est: a) Avvertimento: consiste nell’informare l’incolpato che la sua condotta non è stata conforme alle norme deontologiche e di legge, con invito ad astenersi dal compiere altre infrazioni; può essere deliberato quando il fatto contestato non è grave e vi è motivo di ritenere che l’incolpato non commetta altre infrazioni. b) Censura: consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell’infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un’altra infrazione. c) Sospensione: consiste nell’esclusione temporanea, da due mesi a cinque anni, dall’esercizio della professione o dal praticantato e si applica per infrazioni consistenti in comportamenti e in responsabilità gravi o quando non sussistono le condizioni per irrogare la sola sanzione della censura. d) Radiazione: consiste nell’esclusione definitiva dall’albo, elenco o registro e impedisce l’iscrizione a qualsiasi altro albo, elenco o registro, fatto salvo quanto previsto dalla legge; è inflitta per violazioni molto gravi che rendono incompatibile la permanenza dell’incolpato nell’albo, elenco o registro. Le sanzioni, avuto riguardo alle summenzionate circostanze del caso, sono irrogate in via edittale, attenuata o aggravata. Come già evidenziato, nei casi di infrazioni lievi e scusabili è possibile applicare il richiamo verbale, non avente carattere di sanzione disciplinare. Il potere disciplinare Il potere disciplinare appartiene ai Consigli Distrettuali di Disciplina, che svolgono la propria opera con sezioni composte da cinque titolari e da tre supplenti, dal momento che non possono fare parte delle sezioni giudicanti membri appartenenti all'ordine a cui è iscritto il professionista nei confronti del quale si deve procedere. L’art. 51 L.P.F. prevede che è competente il Consiglio Distrettuale di Disciplina del distretto in cui è iscritto l'avvocato o il praticante oppure del distretto nel cui territorio è stato compiuto il fatto oggetto di indagine o di giudizio disciplinare. Quando è presentato un esposto o una denuncia a un consiglio dell'ordine, o vi è comunque una notizia di illecito disciplinare, il consiglio dell'ordine deve darne notizia all'iscritto, invitandolo a presentare sue deduzioni entro il termine di venti giorni, e trasmettere immediatamente gli atti al consiglio distrettuale di disciplina, che è competente, in via esclusiva, per ogni ulteriore atto procedimentale. Il procedimento è altresì regolato dal Regolamento CNF 2014 n. 2. In sintesi, qualora non venga disposta l’archiviazione immediata o non venga deliberato il richiamo verbale, il Presidente del Consiglio distrettuale di disciplina assegna il fascicolo alla sezione competente secondo le modalità previste dall’art. 2 del succitato Regolamento. In ogni caso, in ipotesi di infrazioni lievi e scusabili la sezione designata, su proposta del consigliere istruttore, inaudita altera parte, può deliberare il richiamo verbale che deve essere formalizzato con lettera del Presidente del Consiglio distrettuale di disciplina. Il richiamo verbale deve essere immediatamente comunicato via PEC o con raccomandata riservata all’incolpato, al Consiglio dell'Ordine di appartenenza ed eventualmente a quello che abbia inviato la segnalazione iniziale. L’iscritto, nel termine di 30 giorni dal ricevimento della predetta comunicazione, potrà opporsi alla definizione del procedimento attraverso il richiamo verbale formulato e chiedere che si proceda all’istruttoria preliminare ai sensi degli articoli 15 e seguenti del Regolamento. In tale ultimo caso, e del pari in assenza di valutazione sulla lievità dell’infrazione, il Consigliere Istruttore comunica senza ritardo all'iscritto l'avvio della fase istruttoria preliminare, a conclusione della quale, il Consigliere Istruttore propone alla sezione richiesta motivata di archiviazione o di approvazione del capo di incolpazione, depositando il fascicolo in segreteria. Qualora la sezione approvi il capo d'incolpazione, il Consigliere Istruttore ne dà comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, al Pubblico Ministero presso il Tribunale ove ha sede il Consiglio distrettuale di disciplina, nonché all’incolpato che ha termine per proporre memorie e scritti. Decorso il termine concesso all’incolpato per il compimento degli atti difensivi, sulla base del contenuto delle difese il Consigliere Istruttore può chiedere alla sezione competente per il procedimento: a) di disporre l’archiviazione; b) di disporre la citazione a giudizio dell’incolpato. Con la citazione a giudizio si determina l’apertura del dibattimento che termina con una decisione del CDD competente, avverso la quale è ammesso ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense nel termine di trenta giorni dalla notifica del provvedimento. Sentenza CNF 177/2023 Il fatto storico La vicenda sottoposta al vaglio del Consiglio Nazionale Forense trae origine da un disastro ferroviario, verificatosi nel 2018 in Lombardia. Il treno sui cui erano a bordo diversi passeggeri, molti dei quali lavoratori pendolari che quotidianamente utilizzavano quella tratta ferroviaria, deragliava, provocando l'uscita dai binari di tre vagoni, uno dei quali si schiantava contro due pali della linea elettrica. In conseguenza della strage perdevano la vita tre persone ed altre quarantasei rimanevano ferite. Pochissime ore dopo l'incidente, sulla pagina Facebook di uno studio legale associato appariva un post che riportava dapprima la notizia del disastro ferroviario, tratta da un quotidiano on-line, per poi proseguire con l'invito rivolto indistintamente alle persone danneggiate e ai superstiti delle vittime di contattare lo studio legale per ottenete una valutazione preventiva del caso, in via del tutto gratuita. Lo studio legale si rivolgeva alle numerose persone investite a vario titolo dall'accadimento attestando il loro diritto al giusto risarcimento e, a tal fine, dichiarandosi perfettamente in grado di fornire assistenza altamente qualificata alle incolpevoli vittime della sciagura, con la garanzia del pagamento di spese e compensi legali solo a risarcimento ottenuto. Conseguentemente alla pubblicazione giungevano agli Ordini di appartenenza degli incolpati molte comunicazioni e segnalazioni da parte di COA, Associazioni forensi, avvocati singoli, professionisti e persino privati cittadini che, censurando pesantemente il post, chiedevano procedersi nei confronti dei responsabili per la rilevanza disciplinare delle condotte. La pubblicazione del post destava una tale risonanza da attirare l'attenzione dei media e della stampa, inoltre comparivano on-line anche numerosi commenti critici ed ugualmente finalizzati, esprimenti sdegno e riprovazione per la pubblicità di offerta di prestazioni professionali alle vittime nella stretta imminenza della tragedia. Nel pomeriggio dello stesso giorno il post veniva rimosso e nella giornata successiva i due avvocati dello studio legale associato presentavano lettere di scuse e di giustificazioni ai rispettivi COA, imputando l'accaduto ad un errore involontario, cagionato a loro dire da una bozza pubblicata per errore da un'addetta dello Studio Legale, rispetto al quale si assumevano la responsabilità dell'attività di web marketing dello studio. Il procedimento disciplinare Dalla diffusa indignazione per l'accadimento e dai numerosi esposti presentati scaturivano altrettanti procedimenti disciplinari. I capi di incolpazione risiedevano nella violazione delle seguenti norme:
modalità non conformi al decoro della professione, identificandosi esse nell'accostamento degli eventi che hanno causato la morte di tre persone ed il ferimento di altre decine, nonché per l'offerta di prestazioni professionali in favore delle vittime o dei loro congiunti con espressioni di contenuto autoreferenziale e con prospettazione di forme e termini di assistenza, anche con riferimento ai compensi professionali, suggestive;
Gli avvocati, dal loro canto, manifestavano estraneità al fatto, dal momento che lo studio legale era solito avvalersi per l'attività di web marketing di un consulente esterno, mentre l'impostazione dei contenuti e dei messaggi era effettuata da una dipendente sotto la diretta supervisione di uno dei due procuratori. Proseguivano nella loro tesi difensiva dichiarando, altresì, che il post incriminato veniva impostato da una loro dipendente che curava simile compito, la quale tuttavia, anziché salvarlo nella cartella bozza in attesa del placet dell'avvocato di riferimento, a causa di un disguido tecnico, inavvertitamente lo pubblicava sulla pagina social dello Studio. Gli incolpati ribadivano il proprio rammarico, confermando le scuse e dichiarandosi seriamente dispiaciuti per l'accaduto, tanto da aver tentato immediatamente di porre rimedio allo sgradevole episodio sia attraverso la tempestiva rimozione del post ad avvenuta segnalazione, sia presentando scuse formali ai rispettivi COA di appartenenza. Il competente Consiglio Distrettuale disponeva il rinvio a giudizio disciplinare degli avvocati, ossia la loro citazione a giudizio. La decisione resa dal Consiglio Distrettuale di Disciplina Il competente CDD, dopo aver valutato attentamente i fatti, riteneva deontologicamente riprovevoli le condotte degli incolpati sia sotto il profilo della realizzazione di un modello organizzativo, in punto di web marketing dello Studio, carente e inadeguato, siccome non in grado di prevenire ed evitare accadimenti del tipo e della natura di quelli poi in concreto verificatisi nella fattispecie, sia per culpa in eligendo e per culpa in vigilando. Le censure muovevano dall'affidamento di servizi fondamentali alla gestione di uno Studio Legale in difetto di adeguate limitazioni e indicazioni, quanto meno per il caso di messaggi di particolare importanza e delicatezza (come per il post de quo) e conseguenti meccanismi di allerta. In ordine alla culpa in vigilando, l'addebito ascrivibile agli incolpati era quello di non aver predisposto un sistematico ed efficace controllo preventivo sull'operato della dipendente, in grado di funzionare anche in assenza dell'ultimo (nella catena delle deleghe) soggetto di riferimento, ossia in assenza dell'avvocato addetto al consenso finale. Secondo il CDD, la connotazione del modello adottato, siccome strutturato in modo tale da non impedire il possibile verificarsi dell'evento per cui era per l'appunto sorto il procedimento, rendeva il fatto direttamente attribuibile agli incolpati per aver colposamente assunto il rischio che esso potesse prodursi. Facendo applicazione dell'art. 4, comma 1 C.D.F., secondo cui “La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni”, il CDD concludeva per la riferibilità dell'accaduto ai procuratori ed escludeva l'esimente di cui all'ultima parte dell'art. 7 C.D.F. (“L'avvocato è personalmente responsabile per condotte, determinate da suo incarico, ascrivibili a suoi associati, collaboratori e sostituti, salvo che il fatto integri una loro esclusiva e autonoma responsabilità”), sul rilievo che nella fattispecie in esame non era affatto rinvenibile un modello organizzato e preparato idoneo a prevenire l'accadimento, alla cui realizzazione e organizzazione avrebbero dovuto provvedere gli avvocati attraverso formazione e istruzioni adeguate, nonché mediante un'attività di controllo efficace sull'operato dei dipendenti. Stando così le cose, il CDD disponeva la sanzione disciplinare della sospensione per mesi tre. La decisione del CNF Il Consiglio Nazionale Forense, con la decisione n. 177/2023, ha ritenuto immune da vizi logici e giuridici il ragionamento condotto dal CDD, ripercorrendo le varie infrazioni commesse. L'affermazione di responsabilità non può che discendere dalla violazione dell'art. 37 C.D.F. sul divieto di accaparramento di clientela, pacificamente sussumibile al post in questione in cui è stata offerta senza richiesta (circostanza assodata), l'assistenza (per inciso, definita “altamente qualificata”) nelle azioni da promuovere in favore delle persone coinvolte e danneggiate, direttamente o indirettamente, nell'incidente ferroviario. L'informativa non è stata rivolta ad un pubblico indefinito o ad una pluralità indistinta e non identificabile di persone, ma ad uno specifico e ristretto segmento di soggetti, vale a dire le persone danneggiate, direttamente o indirettamente, dall'incidente ferroviario de quo, definite nel post «I prossimi congiunti delle vittime e le numerose persone che hanno subito lesioni». La riprovevolezza di una simile condotta, oltre ad essere stata già oggetto di disamina in precedenti pronunce dell'organo forense, è stata, a fortiori, vagliata anche dalla Corte di Cassazione, che con la nota pronuncia a Sezioni Unite (8 marzo 2022, n. 7501) ha confermato che costituisce violazione disciplinare l'inosservanza dell'espresso divieto ex art. 37, 5° comma, CDF di offrire, senza esserne richiesto, una prestazione rivolta a potenziali interessati per uno specifico affare. A tal proposito, corre l'obbligo di specificare che la norma in esame non postula, quale elemento costitutivo dell'illecito deontologico, che l'accaparramento di clientela sia effettivamente e concretamente avvenuto e che, dunque, la violazione sia “consumata”, essendo invece bastevole per la sua configurabilità l'utilizzo di modi non improntati a correttezza e decoro, idonei anche solo potenzialmente a realizzare il “tentato” illecito deontologico. E difatti, si legge nella sentenza come “la giurisprudenza del CNF ha affermato che costituisce illecito deontologico il comportamento dell'avvocato che, al fine di acquisire potenziali clienti , “pubblicizzi” il proprio studio legale mediante l'offerta di assistenza legale a “zero spese di anticipo”, trattandosi di informazione non ispirata al rispetto dei doveri di dignità e decoro e comunque contraria alle prescrizioni normative (artt. 17 e 35 CDF), anche in violazione del divieto di accaparramento di clientela (art. 37 CDF)» (CNF 13 maggio 2022 n. 65; in senso conforme, CNF 23 aprile 2019 n. 23)”. Analogamente, costituisce illecito deontologico il comportamento dell'avvocato che, al fine di acquisire potenziali clienti, “pubblicizzi” il proprio studio legale con la propaganda di prestazioni professionali gratuite, a prezzi simbolici o comunque bassamente commerciali. Ad avviso del CNF, il caso in esame è innegabilmente grave per l'indubbia compromissione arrecata all'immagine della professione forense, di conseguenza il CDD incaricato ha correttamente applicato l'art. 22, comma 2, lett. b, CDF, con conseguente inasprimento della sanzione edittale della censura (prevista per tutte le ipotesi di cui all'art. 35 CDF e all'art. 37 CDF) in quella della sospensione dall'esercizio della professione non superiore ad un anno. Tuttavia, mette conto precisare in pari tempo che, quanto alla concreta e finale “dosimetria” della sanzione, l'art. 21 CDF impone di tenere conto di una serie di criteri di valutazione (gravità del fatto, grado della colpa, eventuale sussistenza del dolo e sua intensità, comportamento dell'incolpato, precedente e successivo al fatto) avuto riguardo alle circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione. Nella fattispecie vagliata, il CNF ha ritenuto di valorizzare in favore degli incolpati alcuni elementi, quali la resipiscenza immediata, la pronta e tempestiva cancellazione del post, la brevissima durata di pubblicazione (qualche ora), le scuse prestate, l'assenza di precedenti disciplinari, e così procedendo, in tal guisa, ha rimodulato la sanzione disciplinare applicata della sospensione dall'esercizio della professione, riducendone la durata a mesi due. In conclusione La sentenza del CNF è di indubbio tenore contenutistico per le questioni che affronta e, soprattutto, per l’intreccio tra profili di responsabilità oggettiva e cd. “suitas”. Assume rilievo e coglie decisamente nel segno il concetto di “suitas”, più propriamente inteso come elemento psicologico che consente di ascrivere il fatto illecito - che nella questione in esame, ribadiamo, è da ricondursi in via sinottica alla pubblicazione di un post suggestivo, di dubbio decoro, finalizzato al procacciamento di incarichi legali per l’assistenza e la difesa delle vittime di un noto disastro ferroviario - direttamente agli avvocati titolari dello studio legale, ancorché commesso da collaboratori. L’art. 4 CDF affronta il requisito della coscienza e volontà delle azioni o omissioni ma è la giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense, espressamente richiamata nella sentenza in argomento, che ha avuto modo di meglio definirne l’interpretazione e la portata, affermando che “ai fini della sussistenza dell’illecito disciplinare, è sufficiente la volontarietà del comportamento dell’incolpato e, quindi, sotto il profilo soggettivo, è sufficiente la «suitas» della condotta intesa come volontà consapevole dell’atto che si compie, dovendo la coscienza e volontà essere interpretata in rapporto alla possibilità di esercitare sul proprio comportamento un controllo finalistico e, quindi, dominarlo. L’evitabilità della condotta, pertanto, delinea la soglia minima della sua attribuibilità al soggetto, intesa come appartenenza della condotta al soggetto stesso, a nulla rilevando la ritenuta sussistenza da parte del professionista di una causa di giustificazione o non punibilità”. In altri termini, in materia di illeciti disciplinari, la “coscienza e volontà delle azioni o omissioni” di cui all’art. 4 del nuovo Codice deontologico consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, che possa essere impedita con uno sforzo del volere e sia quindi attribuibile alla volontà del soggetto. L’agente resta scriminato solo se vi sia errore inevitabile, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza, oppure se intervengano cause esterne che escludono l’attribuzione psichica della condotta al soggetto. Ne deriva che non possa parlarsi d’imperizia incolpevole ove si tratti di professionista legale, perché trattasi di persona in grado di conoscere e interpretare correttamente l’ordinamento giudiziario e forense. (Cass. sez. un., 28 aprile 2020 n. 8242). La culpa in vigilando, pertanto, non esclude la sussistenza dell’elemento psicologico perché ciò che rileva, ai fini dell’addebito dell’infrazione disciplinare, non sono il dolo specifico e/o generico bensì la colpa del professionista. È appena sufficiente il requisito dell’omesso adempimento dell’obbligo di controllo del comportamento di collaboratori e dipendenti affinché venga ad integrarsi la responsabilità dell’avvocato, sotto forma di volontarietà. L’omesso controllo costituisce piena e consapevole manifestazione della volontà di porre in essere una sequenza causale che già in astratto potrebbe inverare effetti diversi da quelli voluti che, per tale negligenza quindi, ricadono sotto forma di volontarietà sul soggetto che avrebbe dovuto vigilare. Conclusivamente, ricade sul dominus la responsabilità disciplinare per fatti compiuti da associati o collaboratori, e pertanto è da escludere l’esimente di cui all’ultimo periodo dell’art. 7 CDF (…salvo che il fatto integri una loro esclusiva e autonoma responsabilità), quando la condotta omessa, qualora fosse stata invece tenuta, avrebbe impedito l’evento. |