Danno biologico differenziale incrementativo in R.c.: aspetti medico legali
Enzo Ronchi
09 Gennaio 2024
Con la sentenza n. 18442/2023 la Cassazione è tornata sull'argomento di cui trattasi, dando continuità a precedenti decisioni della stessa sezione (Cass. 26 marzo 2014 n. 6341;Cass. 11 novembre 2019 n. 28986; Cass. 15 gennaio 2020 n. 514; Cass. 21 agosto 2020 n. 17555; Cass. 7 ottobre 2021 n. 27265), tanto che sembra ora potersi affermare che si tratti di giurisprudenza costante.
Ciononostante, risulta che non tutta la comunità scientifica medico-legale si è allineata alla metodologia valutativa del danno biologico differenziale, incrementativo (DDI); ed il caso di cui alla sentenza in esame rivela proprio che alcuni CTU ancora prediligono metodologie tradizionali, risalenti nel tempo e talora recepite pressoché passivamente dal Giudice di merito (così nella fattispecie) quasi fossero ignorate le regole di giudizio indicate dalla S.C.
Dalla sentenza Cass. 28 giugno 2023, n. 18442
Nel caso trattato in 18442/2023 era in esame il risarcimento del danno, per colpa medica, prodotto da asportazione della tuba ovarica di sinistra in giovane signora che nello stato anteriore già era stata privata della tuba di destra, con perdita conseguente della funzione riproduttiva.
In particolare, il giudice di I grado (Tribunale di Palermo) in esito alla CTU espletata, “… considerò che la G., già priva della tuba e dell'ovaio destri per altre cause, avesse subito, in conseguenza dell'asportazione della tuba sinistra, una cd. lesione policrona concorrente ed applicò un coefficiente di maggiorazione al grado di invalidità permanente accertato dal c.t.u., addivenendo a valutare, utilizzando la cd. formula di Gabrielli, il danno sofferto in via equitativa nella misura del 22%, comprensiva anche del danno estetico”; e tenuto conto di altre componenti del danno giungeva a liquidare euro 109.000 all'attrice ed euro 50.000 a favore del coniuge. Si ricorda che in ambito-INAIL, la formula di Gabrielli si applica, per legge, in caso di menomazioni concorrenti, laddove la preesistenza risulti essere extra-lavorativa, o in altri casi particolari.
La formula porta al risultato cercato sottraendo dal valore percentuale di attitudine al lavoro preesistente (A1), il valore percentuale dell'attitudine al lavoro residuato dopo l'infortunio de quo (A2), e dividendo poi per (A1 ).
A fronte dei gravami interposti da ambedue le parti, la Corte d'Appello di Palermo, “Considerando che la G. possedeva, a causa dell'assenza della tuba e dell'ovaio destri, metà della funzionalità riproduttiva, ha ritenuto congrua la percentuale di danno riconosciuto dal CTU (10%) sostanzialmente dimezzando; e considerate le altre voci di danno, pur con massima personalizzazione, riteneva che il danno ammontasse ad euro 38.214,37, avuto riguardo a rivalutazione ed interessi compensativi in misura legale: ai quali aggiungeva euro 10.000,00 per violazione del diritto alla autodeterminazione per “mancato consenso informato” (euro 20.000,00 al coniuge per danno riflesso).
Per parte sua la S.C. cassava la sentenza impugnata, non evincendosi dalla stessa “…che la Corte territoriale avesse effettuato una quantificazione rapportata alla invalidità complessiva successiva al sinistro (comprensiva delle menomazioni preesistenti e di quelle causate dal sinistro che, in rapporto policrono concorrente, aggravavano la precedente condizione della G.) per poi pervenire, tramite sottrazione del valore monetario corrispondente alla patologia originaria, a determinare il differenziale risarcitorio spettante alla danneggiata”.
La S.C., in motivazione richiama il Giudice di merito al “dovere” di dare continuità ai seguenti, sostanziali principi già dalla stessa affermati; in particolare da Cass. n. 28986/2019 secondo cui “In tema del danno alla salute, la preesistenza della malattia in capo al danneggiato costituisce una concausa naturale dell'evento di danno e il concorso del fatto umano la rende irrilevante in virtù del precetto dell'equivalenza causale dettato dall'art. 41 c.p. sicché di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno. Può costituire concausa dell'evento di danno anche la preesistente menomazione, vuoi coesistente vuoi concorrente rispetto al maggior danno causato dall'illecito, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica ai sensi dell'art. 1223 c.c. In particolare, quella coesistente è, di norma, irrilevante rispetto ai postumi dell'illecito apprezzati secondo un criterio controfattuale (vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l'illecito non si fosse verificato), sicché anche di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno; viceversa, secondo lo stesso criterio, quella concorrente assume rilievo in quanto gli effetti invalidanti sono meno gravi, se isolata, e più gravi, se associata ad altra menomazione (anche se afferente ad organo diverso) sicché di essa dovrà tenersi conto ai fini della sola liquidazione del risarcimento del danno e non anche della determinazione del grado di percentuale di invalidità che va determinato comunque in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni.
In tema di liquidazione del danno alla salute, l'apprezzamento delle menomazioni concorrenti in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall'illecito va compiuto stimando, prima, in punti percentuali l'invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall'illecito e poi a quella preesistente all'illecito, convertendo entrambe le percentuali in somma di denaro, con la precisazione che in tutti quei casi in cui le patologie pregresse non impedivano al danneggiato di condurre una vita normale lo stato di invalidità anteriore al sinistro dovrà essere considerato pari al cento per cento; procedendo infine a sottrarre dal valore monetario dell'invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente, fermo restando l'esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del danno concreto (in senso conforme, Cass., sez. III 29 settembre 2022, n. 28327)”.
Aspetti medico legali della problematica
A questo punto, avuto riguardo alla interpretazione, oramai da ritenere costante, della Suprema Corte nello specifico tema, sembra utile mettere a fuoco gli aspetti medico legali della problematica.
Il Giudice (M. Rossetti) della n. 28986/2019 (la più ampiamente motivata), tratta esplicitamente delle menomazioni concorrenti (in 1.8.2) ed espone le ragioni tecnico-giuridiche secondo cui sono da ritenere erronee “le opinioni secondo cui delle preesistenze concorrenti debba tenersi conto variando, attraverso calcoli e conteggi più o meno sofisticati, il grado di invalidità permanente obiettivamente accertato in corpore, e che al giudice non resti altro da fare che convertire in denaro tale percentuale ”: nessuna variazione in aumento o in diminuzione della misura standard suggerita dai barèmes medico legali, e nessuna applicazione di formule proporzionali.
E' qui evidente la censura verso la metodologia valutativa medico legale “tradizionale”. Secondo questa, il CTU dovrebbe stimare, ad es., non al 12% (valore consolidato nei barèmes medico legali) ma al 17% l'anchilosi di caviglia in persona con esiti di poliomielite all'arto inferiore controlaterale, al fine di dar prova di aver tenuto conto del maggior danno subito, rispetto a chi presenti la medesima anchilosi essendo tuttavia integro nello stato anteriore.
E' cassato questo criterio di “equità medico legale”.
E nemmeno si esce dal ginepraio ricorrendo a formule come quella del Gabrielli: cui peraltro è obbligatorio riferirsi, come detto, in specifici casi, nell'ambito della materia-INAIL espressamente regolata dal Legislatore.
Il medico legale non deve ignorare che nello studio della causalità materiale -sua competenza tecnica- deve anzitutto attenersi al precetto della equivalenza delle cause di cui all'art. 41 c.p.
Ciò significa che laddove si tratti di menomazione permanente venuta a cadere in persona con invalidità nello stato anteriore (di seguito si dirà di concorrenza e coesistenza), egli dovrà in prima battuta considerare l'invalidità nella sua globale onnicomprensività; ed in seconda rivolgere la sua attenzione a quella pregressa, per comprendere se abbia contribuito a peggiorare il danno de quo -con maggiori, negative ricadute disfunzionali nel fare quotidiano- o se sia stata ininfluente: e la fattispecie del peggioramento assumerà poi particolare rilievo sul piano della causalità giuridica, dove compito del giudice è “delimitare l'area del danno risarcibile” (1.4.2).
In forza del contributo interpretativo della S.C., non han più ragione d'essere la distinzione fra coesistenze e concorrenze su cui tanto la Medicina Legale ha discusso, dividendosi; ed ora sembra utile soffermarci su questo punto.
Preesistenze coesistenti e concorrenti
Di alcune problematiche inerenti al capitolo “Danno alla Persona”, si è avveduto prima di tutti il medico legale in quanto calato nella pratica quotidiana.
Così già era stato per il danno biologico, elaborato e progressivamente promosso dagli anni '50-'60 del secolo scorso dalla Medicina Legale. Il tecnico si rendeva conto delle ingiustizie liquidative che provocava valutando in termini di riduzione della c.d. capacità lavorativa generica, il solo strumento di cui allora disponeva (il danno biologico veniva successivamente recepito dalla giurisprudenza e dal legislatore).
E' così avvenuto anche per il DDI, quale ulteriore elaborazione tecnica: dapprima sul piano medico legale, poi con intervento della S.C. (ed i contributi medico legali possono dirsi risalenti: Grandi M., Farneti A., Mangili F., Brondolo W., Spunti in tema di danno biologico e danno patrimoniale, Cedam, Padova, 1990, 195-197; Ronchi E., Morini O., Riflessioni in tema di stato anteriore nella valutazione del danno biologico, Rivista Italiana di Medicina Legale, 1992, XIV, 547; Grandi M., Le preesistenze nel danno biologico, Arch Med Leg Ass 1996, 70-79; Ronchi E., Mastroroberto L., Genovese U., Guida alla valutazione medico-legale dell'invalidità permanente in responsabilità civile e nell'assicurazione privata contro gli infortuni e le malattie. Con contributo medico-legale per la quantificazione della sofferenza morale e del danno da perdita di chances, Giuffré, I ed., 2009.
Il medico legale “sul campo” ha sempre incontrato grandi difficoltà di valutazione ogni qual volta si è trovato a dover tener conto anche dello stato anteriore della persona; e seguendo le indicazioni della dottrina (concorde) ha sempre seguito la tradizionale regola secondo cui delle preesistenze si deve tener conto solo se concorrenti e non se coesistenti. Il distinguo, peraltro, mai aveva rappresentato premessa per valutazioni convincenti. Anche e soprattutto perché, una volta stabilita la concorrenza, la percentuale di invalidità de quo veniva maggiorata con criterio del tutto arbitrario, una sorta -come detto- di artigianale “equità medico legale” nient'affatto soddisfacente.
E' in questo contesto che progressivamente, ormai da oltre trent'anni, parte della Medicina Legale milanese ha introdotto la metodologia tecnica del DDI, incontrando peraltro fiera e comprensibile avversione soprattutto riguardo alla sua applicazione nei casi contrassegnati da preesistenze concorrenti.
Di fatto, nella diatriba fra medici legali favorevoli e contrari al DDI, si son visti i primi impegnati nello sforzo di dare una separazione tranchante (come già nella tradizione ed in ambito INAIL) fra preesistenze concorrenti e coesistenti, atta a consentire una “legittimazione” del metodo; ed i secondi giustificatamente concentrati nell'evidenziare come la linea di confine fra le due sia evanescente, anzi inesistente laddove si voglia avere un approccio rigorosamente scientifico e rifiutare l'ennesimo ricorso a convenzioni in ambito “danno alla persona”.
Il nesso di causalità materiale e la prova contro-fattuale
Anche per la S.C., la preesistenza coesistente è, di norma, irrilevante sicché di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno.
Ciò peraltro vale linea generale, posto che nei fatti risulta più agevole tener conto delle preesistenze concorrenti: ma non costituisce regola di valore assoluto. La rilevanza causale di coesistenza e concorrenza, infatti, deve passare al vaglio della prova controfattuale, stabilendo cosa sarebbe accaduto se l'illecito non si fosse verificato: verifica che spetta al medico legale cui compete l'esame della causalità materiale.
Sembra utile, a questo punto, muovere dalla Cass. n. 28986/2019 che potremmo definire capo-stipite sia perché le successive vi si sono allineate, sia perché più ampiamente tratta la problematica. Di seguito i punti salienti.
In 1.3 e 1.4: “Sono la menomazione e le forzose rinunce da essa indotte a rappresentare il vero e proprio danno in senso giuridico. Perché quest'ultimo possa essere risarcito, dovranno dunque accertarsi due nessi di causa: il primo tra condotta lesiva e lesione (causalità materiale); il secondo (causalità giuridica) tra lesione e conseguenze dannose” (vien qui spontaneo accostarvi l'insegnamento di A. Cazzaniga, Maestro di Medicina Legale nella Scuola milanese, che già nel 1928 così sintetizzava i determinanti del danno: causa-lesiva>lesione>menomazione; essendo il danno, la conseguenza economicamente valutabile della menomazione).
Funzione della causalità giuridica è “delimitare l'area del danno risarcibile” (1.4.2).
La causalità giuridica va accertata con criterio controfattuale: “vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l'infortunio non si fosse verificato”. E potranno darsi due eventualità: “o le forzose rinunce patite dalla vittima in conseguenza del fatto illecito sarebbero state identiche, quand'anche la vittima fosse stata sana prima dell'infortunio; oppure quelle conseguenze sono state amplificate dalla menomazione preesistente”. “Poiché si tratta di accertare un nesso di causalità giuridica, quel che rileva è il giudizio controfattuale, e dunque lo stabilire … quali sarebbero state le conseguenze dell'illecito, in assenza della patologia preesistente. Se tali conseguenze possono teoricamente ritenersi pari sia per la vittima reale, sia per una ipotetica vittima perfettamente sana prima dell'infortunio, dovrà concludersi che non vi è alcun nesso di causa tra preesistenze e postumi, i quali andranno perciò valutati e quantificati come se a patirli fosse stata una persona sana…” E poco sopra: “Pertanto non solo la liquidazione del risarcimento, ma anche, prima ancora, la determinazione del grado percentuale di invalidità permanente sofferto da persona già menomata, quando lo stato anteriore della vittima non abbia inciso in alcun modo sui postumi concretamente prodotti dal secondo infortunio, va determinato come se a patire le conseguenze fosse stata una persona sana, in virtù della inesistenza di causalità giuridica fra stato anteriore e postumi”.
Non meno utile, a questo punto, sembra proporre alcune pratiche applicazioni ad evidenziare come il rigido distinguo fra coesistenze e concorrenze di cui alla tradizione medico legale (che ha portato ad insoddisfacenti valutazioni tecniche) sia ora positivamente superato dalla interpretazione della S.C., dovendosi ritenere rilevante la sola prova controfattuale e non quel distinguo tecnico.
Si ponga l'esempio teorico di perdita funzionale (per paralisi cagionata da “colpa medica”) dell'arto superiore destro (valore biologico 60% secondo barèmes), in persona paraplegica nello stato anteriore (valore biologico 80%).
A fronte di un caso siffatto, il medico legale si è sempre trovato ad un bivio. Prendere la strada che tratta la paralisi dell'arto superiore come coesistente rispetto alla paraplegia, e valutare la menomazione al 60% senza tener conto della preesistenza; o vedere concorrenza fra le due menomazioni e valutare il danno de quo come DDI potendo così provocare una liquidazione economica di molto inferiore.
La criticità medico legale, è evidente, sta proprio nel contestato distinguo. In un approccio scientifico (che vuol rifiutare l'ennesima convenzione), le due menomazioni nel caso esemplificato svolgono ruoli interdipendenti, cioè sono concorrenti e ciò porterebbe la fattispecie considerata ad iniqua liquidazione economica che prevede sottrarre dal valore monetario 90% (cioè il lordo attuale composto dalle due menomazioni non-aritmeticamente sommate) il valore del preesistente 80%. Ed invero, a rigore, di preesistenze coesistenti non si dovrebbe mai discorrere posto che, in un modo o nell'altro, sempre si potrebbe trovare interscambio funzionale fra organi/sistemi anche fra loro anatomicamente lontani. Le preesistenze, dunque, sarebbero da considerare sempre concorrenti. Per conseguenza paradossale, deriverebbe che la metodologia del DDI dovrebbe trovare sempre applicazione, e con la stessa si potrebbe arrivare a gravi iniquità liquidative come nell'esempio sopra proposto: francamente sotto-stimato in persona che si vedrebbe precluse residue attività con gli arti superiori che gli risultavano particolarmente preziose in ragione del suo stato anteriore di paraplegico (come, in particolare, spingere a mano la carrozzina).
Ma evitando “avvitamenti senza fine” nel distinguo fra preesistenze coesistenti e concorrenti, il caso sarebbe adeguatamente risolto attraverso esame controfattuale della causalità materiale, ponendo a confronto vittima reale con paraplegia nello stato anteriore e vittima ipotetica sana al momento del sinistro de quo, produttivo della medesima perdita funzionale di arto superiore.
La vittima ipotetica avrebbe le stesse forzose rinunce, gli stessi sostanziali impedimenti di quella reale, in rapporto alla perdita dell'uso di un arto superiore, come consumare pasti, svolgere in genere lavori manuali ed anche manovrare una carrozzina ad auto-spinta ove si volesse cimentare. In altre parole, rispetto a quella ipotetica, la vittima reale non avrebbe diverse rinunce per la seconda menomazione, e la preesistente sarebbe sostanzialmente irrilevante sotto il profilo causale, controfattuale. Ne deriva che, attesa l'assenza di nesso causale per maggiori ricadute disfunzionali, nella vittima reale i postumi per la perdita funzionale dell'arto superiore andranno valutati e quantificati come se a patirli fosse una persona sana: al 60%.
Il giudizio tecnico sulla causalità materiale con ricorso a prova controfattuale, pertanto, permette di evitare il ricorso a convenzioni medico legali e trova corretta applicazione in ogni fattispecie. Concorrenti o coesistenti che siano le due menomazioni in gioco, il DDI si legittima solo attraverso verifica controfattuale che comprovi il nesso causale quanto a maggiori forzose rinunce nella vittima reale.
In altre parole il giudizio intorno al coesistente o concorrente -pur lasciato nelle mani del tecnico- diviene più giuridico, o meglio più propriamente medico legale che non rigorosamente scientifico: e con tutto ciò la S.C. porta il medico legale fuori da quel ginepraio dove si dibatte da anni.
Il Giudice della Cass. n. 28986/2019, tratta esplicitamente anche delle concorrenti (1.8.2) e, come detto, espone le ragioni tecnico-giuridiche secondo cui sono da ritenere erronee “le opinioni secondo cui delle preesistenze concorrenti debba tenersi conto variando, attraverso calcoli e conteggi più o meno sofisticati il grado di invalidità permanente obiettivamente accertato in corpore, e che al giudice non resti altro da fare che convertire in denaro tale percentuale ”: ed è qui evidente, lo si ribadisce, la censura verso la metodologia valutativa medico legale “tradizionale”.
Come evidenziato dalla Suprema Corte, il DDI trova di “regola”, cioè generalmente ma non obbligatoriamente, applicazione nei casi di menomazioni concorrenti; e il medico legale, filtrando analiticamente le preesistenze per decidere se abbiano eventualmente amplificato le conseguenze dannose del sinistro de quo (1.9.3), deve tener ben presente che (1.3) “sono la menomazione e le forzose rinunce da essa indotte a rappresentare il vero e proprio danno in senso giuridico”.
Le forzose rinunce (la ridotta capacità a fare nel quotidiano, secondo più comune espressione medico legale) sono la variabile decisiva di cui si deve tener conto, ad evitare che si giunga a valutazioni medico legali aberranti in termini di DDI che, a loro volta, portino poi a liquidazioni economiche non meno distorte e per di più disallineate rispetto alle stesse regole di giudizio della Suprema Corte.
Alcune pratiche applicazioni
Valgano, a chiarimento, altre esemplificazioni pratiche come di seguito esposte.
Lesione al nervo femorale in corso di impianto protesico d’anca. Le forzose rinunce date dalla protesi avrebbero comportato, ad es., danno biologico del 20% e sono ora amplificate (rispetto al soggetto sano nello stato anteriore) a causa delle conseguenze dell’errore chirurgico, con danno lordo del 30%. Un teorico-sano nello stato anteriore, avrebbe inferiori forzose rinunce per la sola lesione del nervo. Pertanto DDI dal 20 al 30%.
Anchilosi per esiti di frattura di caviglia (12% in soggetto integro nello stato anteriore, secondo consueti barèmes) in preesistente paraplegia di valore 80%. Corretto valutare DDI solo se comprovato incremento delle forzose rinunce. Ad es.: per abbandono di progetto di esoscheletro > DDI dall’80% all’83%. In assenza della prova, mero danno anatomico, ad es. del tre%, senza ricorso al DDI.
Paraplegico nello stato anteriore che nel sinistro de quo subisce amputazione di alluce (in sé 6% secondo DM 03.07.03). Non sono provate aggiuntive forzose rinunce > danno biologico, ad es. dell’1-2% per mero pregiudizio anatomico, senza ricorso al DDI.
Impianto di protesi d’anca che si infetta per r.c. ospedaliera. Rimozione della protesi e successivo re-impianto con buon risultato ma con allungamento della cicatrice chirurgica ed esito di maggiori cruentazioni dei tessuti. Nessuna aggiuntiva forzosa rinuncia.
Mero danno anatomico stimabile al 2-3%. Improponibile DDI dal 20% (per protesi) al 22-23%.
Invalido civile al 100% per oligofrenia da sindrome di Down che subisce lesione cranio-encefalica. Si procede prima col rivalutare la preesistenza con criteri di r.c. (es. 80%) e quindi a definire il lordo determinato dai due stati invalidanti (es. 90%) per concludere con la stima in DDI dall’80% al 90%: sia pure la invalidità permanente in esito a quella lesione cranio-encefalica avrebbe valore ad es. del 30% in soggetto integro nello stato anteriore.
Stato anteriore con protesi all’anca dx e sin. Nel fatto de quo: impianto di protesi al ginocchio sin > infezione protesica trascurata > amputazione di arto inferiore sin. Le forzose rinunce aggiuntive comportano DDI dal preesistente 30% al 70% lordo. Con metodo tradizionale, danno permanente al 60%.
Si ponga ora il caso di persona con esiti di poliomielite infantile all’arto inferiore dx che nel sinistro de quo subisca frattura al terzo medio di gamba sin ed anche frattura ad un polso. Sarebbe paradossale, inaccettabile, affermano i contrari al DDI, che si valuti la menomazione deambulatoria in concorrenza, come DDI (es. dal 25% preesistente al 33% attuale) e, separatamente, con metodo tradizionale gli esiti di frattura di polso, mera coesistenza (ad es. 5% con valore economico nei primi cinque punti). Ma le regole della sentenza Rossetti prescindono dal distinguo “concorrenze/coesistenze” che sempre è stato una costante nella trattatistica medico legale. Chiedono, piuttosto, che si vadano ad esprimere percentualmente le forzose rinunce di cui allo stato anteriore e quelle complessive, lorde, attuali, fornendo i due dati tecnici ed avuto riguardo al ragionamento controfattuale, cioè avendo ipotizzato anche una vittima teorica, sana prima del sinistro: di qui, DDI dal 25% preesistente, all’attuale complessivo del 38% (e va da sé che i numeri sono qui portati ad esempio, con sola finalità di chiarezza).
DDI versus danno biologico temporaneo
Resta da dire a proposito di DDI versus danno biologico temporaneo.
Correttamente, i “contrari” tengono a sottolineare che nella forma temporanea e permanente, il danno biologico non possa che essere ontologicamente eguale, variando solo la “intensità di lesione”; e pertanto si domandano perché, laddove si tratti di “concorrenza” che porti all'applicazione del DDI, nel calcolo dei periodi di inabilità temporanea non si tenga conto della preesistenza la quale porterebbe a vietare il riconoscimento di danno temporaneo nella forma assoluta che invece lo si vede ammesso.
Per un'altra volta, ciò che guasta il ragionamento medico legale è il distinguo “concorrenza/coesistenza” di cui invece si libera la n.28986/19 che ne fa piuttosto una questione di “forzose rinunce e prova controfattuale”. La regola di giudizio non può che valere pure per la inabilità temporanea (peraltro, in argomento neppure è entrata la S.C.). E, ad esempio, di una persona paraplegica nello stato anteriore che finisca ricoverata in un momento successivo per una frattura di gamba, si dirà che nel periodo di degenza ha avuto forzose rinunce rispetto al pre-sinistro (quando possedeva il “suo 100”), atte a configurare totale incapacità: come, allo stesso modo, in via controfattuale, a parità di lesione avviene per la teorica vittima sana nello stato anteriore. In altre parole, non vi è ragione di negare danno temporaneo totale nella fattispecie: fermo restando che dopo la degenza ospedaliera, la temporanea parziale andrà modulata avuto riguardo al diverso decorso che la frattura di gamba comporta in paraplegico.
La stessa valutazione medico legale del danno nell'anziano -su cui è intervenuta la Società Italiana di Medicina Legale con linee guida- trova utile strumento applicativo proprio nell'esame delle forzose rinunce in nesso causale/controfattuale col sinistro de quo rispetto allo stato anteriore di valore 100, senza dover introdurre i distinguo coesistenze/concorrenze. Così, alla persona ottuagenaria che per gli esiti permanenti di una frattura di caviglia abbia perduto definitivamente la sua capacità di vita autonoma e sia costretta alla carrozzina, si dovrà riconoscere un danno biologico corrispondente a tale acquisita grave disabilità e non certo in misura micro-permanente o poco più.
In conclusione, in una materia tanto fluida, talora pressoché “inafferrabile” qual è in genere il danno non-patrimoniale alla persona, la metodologia del DDI come rivista dalla S.C., svincolata dal rigoroso distinguo coesistenze/concorrenze ed ancorata piuttosto ad esame delle forzose rinunce in nesso causale, attraverso prova controfattuale, appare attualmente come la soluzione più appropriata al problema discusso; costituisce un passo in avanti e senza pretese di perfezione (raggiungibile?) migliora il sistema valutativo medico legale appartenente alla tradizione che tuttora provoca distorte applicazioni e per conseguenza inique liquidazione economiche del danno.
E viene al proposito, da ultimo, altra osservazione della S.C.: “…dal momento che si versa pur sempre in tema di liquidazioni equitative ex art. 1226 c.c., sarà sempre possibile per il giudice di merito aumentare e ridurre il risultato finale del calcolo liquidatorio, ove lo impongano le circostanze del caso concreto”.
Vuoi leggere tutti i contenuti?
Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter continuare a
leggere questo e tanti altri articoli.
Sommario
Dalla sentenza Cass. 28 giugno 2023, n. 18442
Il nesso di causalità materiale e la prova contro-fattuale