NASPI: spetta al lavoratore costretto a dimettersi a causa di un legittimo ma rilevante mutamento della sede di lavoro, senza ulteriori oneri probatori

17 Gennaio 2024

Per l'accesso alla prestazione NASpI la legge richiede solamente l'involontarietà della perdita dell'occupazione, ma non anche l'ingiustizia della determinazione del terzo cui si riferisce la risoluzione del rapporto o l'estraneità del lavoratore rispetto alla fattispecie risolutiva, tanto che la prestazione è sicuramente dovuta anche in caso di licenziamento legittimamente intimato per giusta causa. Ne discende che l'esercizio anche legittimo dello jus variandi datoriale può determinare modifiche essenziali dei contenuti del rapporto tali da rendere sostanzialmente impossibile per il lavoratore la prosecuzione dell'attività, come tipicamente può avvenire in caso di mutamento rilevante della sede o dei turni di lavoro, da cui consegue la spettanza dell'indennità in parola  alla lavoratrice che si sia dimessa per tale impossibilità, adduncendo l'esistenza della giusta causa ed in assenza dell'impugnativa del trasferimento, senza ulteriori oneri probatori.

Massima

L'esercizio anche legittimo dei poteri datoriali può determinare modifiche essenziali dei contenuti del rapporto tali da rendere sostanzialmente impossibile per il lavoratore, nella concreta situazione di fatto, proseguirne l'esecuzione, come tipicamente può avvenire appunto in caso di mutamento rilevante della sede o dei turni di lavoro. In tali casi, la risoluzione del rapporto è in effetti causalmente riferibile al potere organizzativo datoriale e quindi la disoccupazione è involontaria, senza che rilevi, ai fini previdenziali, la legittimità o meno dell'atto di esercizio dello jus variandi (esattamente come non rileva la legittimità del licenziamento).

Il caso

Il trasferimento ad altra sede dell'azienda distante più di 50 km dalla residenza e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici, determina il riconoscimento del diritto alla NASpI

Con sentenza del febbraio 2022, il Tribunale di Firenze aveva respinto il ricorso di una lavoratrice volto ad ottenere l'accertamento del proprio diritto a percepire l'indennità NASpI e la condanna dell'INPS a pagarle la prestazione, nella misura e con la decorrenza di legge.

A seguito della ricezione della comunicazione del suo trasferimento presso altra sede aziendale, invero, la dipendente, ritenuta tanto l'impossibilità a trasferirsi nella nuova sede di lavoro per ragioni e economiche e familiari, quanto la possibilità di recarsi giornalmente presso la nuova sede (in ragione della distanza eccessiva, del tempo che avrebbe impiegato negli spostamenti da casa al lavoro e del costo giornaliero dei mezzi pubblici, che avrebbe dovuto necessariamente utilizzare non avendo la patente) aveva rassegnato le proprie dimissioni per asserita giusta causa, senza provvedere all'impugnativa del trasferimento.

 Senonchè, a fronte del rigetto della domanda di accesso all'indennità NASpI da parte dell'INPS, sul presupposto ostativo della mancata contestazione del trasferimento, la lavoratrice aveva deciso di rivolgersi al Giudice del lavoro, ritenendo l'illegittimità del diniego, posto che, in primo luogo, la sua situazione sarebbe stata del tutto analoga a quella del lavoratore o della lavoratrice che avesse risolto consensualmente il rapporto di lavoro in esito a un trasferimento ad altra sede dell'azienda distante più di 50 km dalla sua residenza e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici, un'ipotesi in cui l'INPS, con diverse sue circolari, aveva invece riconosciuto il diritto alla NASpI.

In secondo luogo ed in ogni caso, la pretesa dell'istituto di subordinare il riconoscimento della prestazione all'impugnazione del trasferimento sarebbe risultata altresì in contrasto con la nozione di giusta causa ritenuta dalla Corte Costituzionale, ricomprendente “le ipotesi in cui le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore, in quanto indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione della improseguibilità del rapporto”.

L'Istituto aveva resistito e concluso per il rigetto del ricorso, ribadendo la correttezza della decisione assunta in sede amministrativa, evidenziando come la ricorrente non avrebbe contestato giudizialmente il trasferimento (né avrebbe manifestato la volontà di farlo), limtandosi oltretutto a solamente affermare l'impossibilità di eseguire la prestazione presso la nuova sede di lavoro e quindi l'improseguibilità del rapporto, senza alcuna dimostrazione al riguardo. La stessa, pertanto, non avrebbe diritto alla prestazione, non rientrando la fattispecie in alcuna delle altre ipotesi nelle quali il beneficio era riconosciuto dall'Istituto. 

Il Tribunale, in primo grado, provvedeva dunque a respingere il ricorso, assumendo l'inesistenza della dedotta giusta causa, in quanto la lavoratrice non aveva negato l'esistenza delle esigenze tecnico produttive poste a base del trasferimento, la cui legittimità infatti non aveva contestato, nè avrebbe dato alcuna prova dell'impossibilità di svolgere la prestazione presso la nuova sede di lavoro, così che la risoluzione del rapporto non sarebbe stata conseguenza di un comportamento illegittimo del datore di lavoro, ma frutto unicamente di una libera scelta della lavoratrice.

La lavoratrice, nondimeno, decideva di proporre appello avverso la sentenza di prime cure

La questione

La decisività o meno dell'illegittimità dell'atto di esercizio dello jus variandi datoriale ai fini del riconoscimento della prestazione NASpI

La questione sottesa alla pronuncia in esame riguarda il quesito se, per l'accesso alla prestazione NASpI, sia necessaria la sola involontarietà della perdita dell'occupazione, ovvero anche l'ingiustizia della determinazione del terzo (datore di lavoro) cui si riferisce la risoluzione del rapporto o l'estraneità del lavoratore rispetto alla fattispecie risolutiva, in ipotesi di trasferimento rilevante della sede di lavoro del dipendente e della derivata impossibilità o disagevolezza della prestazione.

La soluzione giuridica

Diritto di accesso alla NASpI a seguito di dimissioni per trasferimento della sede di lavoro oltre i 50 km

La Corte d'appello di Firenze, con la decisione in esame, evidenza la propria contrarietà al percorso argomentativo assunto nella sentenza impugnata ed alle relative conclusioni, ritenendo come le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice non fossero affatto frutto di una libera scelta della stessa, risultando documentalmente dimostrato in causa come lo svolgimento della prestazione presso la nuova sede di lavoro fosse per la lavoratrice materialmente impossibile o comunque estremamente disagevole.

Ed invero, stante la pacifica indicazione della residenza della ricorrente, la conclamata distanza  chilometrica tra la sua residenza e la sede di lavoro che le era stata assegnata, i tempi medi (circa due ore) di percorrenza di tale distanza con i mezzi pubblici (che l'appellante avrebbe dovuto necessariamente usare risultando pacifica l'assenza di patente) e la produzione del contratto di assunzione e dell'estratto contributivo attestanti la retribuzione percepita dall'assicurata (con una disponibilità netta mensile di poco superiore ai mille euro), appare evidente come la lavoratrice avrebbe dovuto aggiungere al proprio ordinario orario contrattuale circa quattro ore giornaliere di viaggio, oppure decurtare in maniera assai considerevole il suo reddito (verosimilmente ben oltre il limite della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost.) per sostenere i costi di un'abitazione in locazione presso la sede di trasferimento.

Ecco che, allora, deve valutarsi se, ai fini del riconoscimento della prestazione NASpI, l'illegittimità dell'atto di esercizio dello jus variandi sia necessariamente decisiva, come assume la difesa dell'INPS.

Ebbene, la Corte rileva come l'art. 3 del d.lgs. 22/2015 garantisca la prestazione di cui è causa ai lavoratori “che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione” e, dunque, che la risoluzione del rapporto di lavoro sia riferibile, non a una libera determinazione del lavoratore, ma un fatto altrui, normalmente del datore di lavoro, idoneo a non consentire comunque la prosecuzione del rapporto.

La legge non richiede tuttavia l'ingiustizia della determinazione del terzo cui si riferisce la risoluzione del rapporto o l'estraneità del lavoratore rispetto alla fattispecie risolutiva, tanto che la prestazione è sicuramente dovuta anche in caso di licenziamento legittimamente intimato per giusta causa.

Non può, invero, dubitarsi che l'esercizio anche legittimo dei poteri datoriali possa determinare modifiche essenziali dei contenuti del rapporto, tali da rendere sostanzialmente impossibile per il lavoratore, nella concreta situazione di fatto, proseguirne l'esecuzione, come tipicamente può avvenire appunto in caso di mutamento rilevante della sede o dei turni di lavoro.

In tali casi, ad avviso della Corte, la risoluzione del rapporto è in effetti casualmente riferibile al potere organizzativo datoriale e, quindi, la disoccupazione è involontaria, senza che rilevi, ai fini previdenziali, la legittimità o meno dell'atto di esercizio dello jus variandi (esattamente come non rileva la legittimità del licenziamento).

A medesima conclusione, del resto, è pervenuto lo stesso Istituto di previdenza, dato che, con la propria circolare 142/2012, ha ritenuto sussistere i presupposti per il pagamento dell'indennità di disoccupazione (ma la previsione è pacificamente applicata anche alla NASpI) anche quando il rapporto di lavoro sia stato risolto consensualmente all'esito di trasferimento del lavoratore assicurato verso una sede distante oltre 50 km dalla sua residenza o situata in un luogo raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici.

Tale ipotesi casistica, a ben vedere, risulta del tutto identica a quella in disamina, posto che in entrambe le situazioni a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro risulta essere l'esercizio dei poteri organizzativi datoriali, mentre la circostanza che il fatto giuridico produttivo della risoluzione sia un accordo o invece una manifestazione di volontà riferibile al lavoratore non muta la relazione causale, comunque esistente tra la fine della relazione negoziale (e quindi la disoccupazione del lavoratore) e l'atto di esercizio dello jus variandi.

La Corte, definitivamente decidendo, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, in riforma della decisione impugnata, ha quindi connato l'INPS a corrispondere alla lavoratrice l'indennità NASPI, nella misura e con la decorrenza di legge, maggioramdola di interessi legali dalle singole scadenze a decorrere dal 120° giorno successivo alla presentazione della domanda amministrativa e fino al saldo.

Osservazioni

Sulla NASpI a seguito di dimissioni per giusta causa la giurisprudenza sconfessa l'INPS

La pronuncia in esame assume una particolare rilevanza, ponendosi nel solco riformatore di un novello orientamento giurisprudenziale, inaugurato a partire dalla sentenza n. 429 del 27 aprile 2023 del Tribunale di Torino e teso alla sostanziale disattenzione della prassi consolidata dell'INPS in materia di accesso al trattamento NASpI a seguito di dimissioni per giusta causa del lavoratore.

L'Istituto Nazionale di Previdenza sociale, invero, già a partire dalla propria circolare Circolare n. 163 del 20 ottobre 2003, più di recente richiamata e confermata nel messaggio 368/2018, ha sempre ritenuto come, nel caso di dimissioni per giusta causa a causa del trasferimento ad altra sede dell'azienda, distante più di 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici, fosse necessario che il dipendente provasse anche che il trasferimento non risultasse sorretto da ragioni tecniche, organizzative e produttive, indipendentemente dalla distanza tra la residenza del lavoratore e la nuova sede di lavoro, corredando la domanda di accesso all'indennità con una documentazione idonea a far emergere la volontà di difendersi in giudizio dal datore di lavoro, con l'impegno a comunicare l'esito della controversia.

La conseguenza di siffatta impostazione dell'Istituto Previdenziale comportava che, laddove l'esito della lite avesse escluso la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, l'INPS avrebbe dovuto procedere al recupero di quanto pagato a titolo di indennità di disoccupazione, così come avviene nel caso di reintegra del lavoratore nel posto di lavoro successiva a un licenziamento illegittimo che ha dato luogo al pagamento dell'indennità di disoccupazione.

Senonché, tale prassi è stata ritenuta illegittima dal Tribunale di Torino (prima) e della Corte d'Appello di Firenze poi (con la sentenza in esame), sul presupposto dell'assenza di un riferimento normativo diretto in tal senso, in uno alla sostanziale sovrapponibilità piena, per identità di situazioni, con l'potesi della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro a seguito di trasferimento ad altra sede distante oltre 50 km dalla sede abituale di lavoro o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici, che ha sempre consentito l'accesso alla NASpI.

Il punto di partenza della diversa valutazione giurisprudenziale affonda, invero, le proprie radici nella ratio legis sottesa all'istituzione dell'indennità in parola e nel tenore letterale del disposto dell'art. 3 del d.lgs. n. 22/2015, che, nel testo vigente all'epoca dei fatti, prevedeva come: “1. La NASpI è riconosciuta ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che presentino congiuntamente i seguenti requisiti: a) siano in stato di disoccupazione ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni; b) possano far valere, nei quattro anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione; c) possano far valere trenta giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l'inizio del periodo di disoccupazione.

2. La NASpI è riconosciuta anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dall'articolo 1, comma 40, della legge n. 92 del 2012”. 

Ebbene, ad avviso dell'Autorità Giudiziaria il requisito fondamentale per l'accesso al trattamento NASpI (oltre a quello lavorativo e contributivo) è rappresentato dalla perdita involontaria dell'occupazione, dovendosi a tal fine verificare se la scelta dimissionaria del lavoratore sia frutto di una decisione spontanea dello stesso, oppure appaia indotta da notevoli variazioni delle condizioni di lavoro conseguenti al trasferimento ad altra sede imposto dal datore di lavoro.

Senonché, i giudici di merito hanno rilevato come sia stato lo stesso Istituto a rispondere positivamente alla domanda, in quanto, nel garantire il trattamento NASpI nell'ipotesi di risoluzione consensuale per trasferimento del lavoratore ad altra sede distante 50 km dalla sede abituale o raggiungibile in 80 minuti con mezzi pubblici, avrebbe implicitamente ma chiaramente confermato come tale situazione comporti una notevole variazione delle condizioni di lavoro, così da rendere di fatto involontaria la perdita dell'occupazione.

Subire un trasferimento ad altra sede distante oltre 50 km dalla sede abituale di lavoro o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici, invero, impatta in misura rilevante sulle condizioni di vita personali, lavorative e familiari del lavoratore a tal punto da rendere la decisione di interrompere il rapporto di lavoro non volontaria.

Se, dunque, in tali ipotesi l'adesione del lavoratore alla proposta risolutiva del datore di lavoro viene equiparata alle dimissioni per giusta causa (come fosse intervenuta in presenza di una giusta causa di recesso) non vi è chi non veda come, per le medesime ragioni, la decisione del lavoratore di dimettersi dopo aver subito un trasferimento di tale natura, a prescindere dalla legittimità o meno della scelta organizzativa datoriale, debba ritenersi una scelta imputabile a terzi, non volontaria ed a cui consegue il diritto di percepire l'indennità NASpI.

Del resto, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, non essendoci alcuna differenza concettuale tra la dichiarazione di volontà con cui il lavoratore pone unilateralmente termine al rapporto di lavoro e la dichiarazione di volontà che confluisce, unitamente ad analoga dichiarazione del datore di lavoro, nell'accordo oggetto di risoluzione consensuale.

Sarebbe pertanto ingiustificato riservare un diverso trattamento ad ipotesi del tutto analoghe.

Ne consegue, in conclusione, come l e dimissioni rassegnate dalla lavoratrice nelle condizioni di cui al caso di specie debbano ritenersi involontarie, perché determinate da una condotta datoriale che ha reso obbligata la scelta della dipendente, da cui la ricorrenza nella fattispecie in esame del requisito della "perdita involontaria" dell'occupazione e l'emersione del diritto all'indennità di disoccupazione “Naspi”, senza aclun obbligo di dimostrazione dell'ingiustificatezza o illegittimtà del trasferimento nella sede di lavoro distante più di 50 km dalla residenza.

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