Condanna imprevedibile per terrorismo: per la Corte Edu è unfair la prova decisiva basata sullo scambio della messaggistica By Lock rimasta inaccessibile

18 Marzo 2024

Ti sento, chiunque, ovunque e comunque ti ascolti. Ti sento, non ti ascolto ma ti giudico (guilty). Ti capisco, non ti risarcisco e Ancora ad Ankara la riapertura suggerisco.

Nota a Grande Camera, Yüksel Yalçinkaya c. Türkіye, 26 settembre 2023, ric. n. 15669/20.

Premessa

La Grande Camera della Corte Edu, con sentenza del 26 settembre 2023, ha dichiarato l'unfairness del procedimento celebrato in Turchia, per violazione (soprattutto) degli artt. 6, § 1 e 7 CEDU. Ciò in quanto il verdetto di condanna emesso a carico del Sig. Yüksel Yalçinkaya per appartenenza a un'associazione terroristica armata – la c.d. “FETÖ/PDY” – si era decisamente basato sull'utilizzo dell'applicazione della messaggistica criptata c.d. “ByLock”, senza un esame motivato in ordine alla (perciò) presunta sussistenza della componente soggettiva (soprattutto) e oggettiva del reato in capo al ricorrente. L'uso (mal e dunque non verificato) della messaggistica predetta era valso, quindi, in modo ciecamente automatico la dichiarazione di colpevolezza; uso ritenuto sufficiente ex se a costituire prova decisiva a causa di una interpretazione estensiva e imprevedibile dell'art. 314, comma 2, c.p., all'epoca del fatto, per la nuance penale del quale era invece richiesta la dimostrazione del dolo specifico. Inoltre, il ricorrente non era stato messo nelle condizioni (di parità rispetto alla Pubblica Accusa) di accedere ai dati “grezzi” intercettivi ottenuti da server non verificati a monte, a valle e non controbilanciati da adeguate garanzie procedurali che consentissero un recupero della equità complessiva del procedimento. Peraltro, le AA.GG. turche non avevano dato alcun motivato riscontro alle esigenze euristiche della difesa, relative anche alla integrità e, di conseguenza, alla reale utilizzabilità dei dati “ByLock”. La Corte ha riconosciuto, altresì, la violazione dell'art. 11 CEDU, poiché valore corroborante era stato attribuito (oltre al deposito di denaro da parte del ricorrente presso la Bank Asya su istruzioni del capofila della “FETÖ/PDY”) anche alla sua adesione a un sindacato e a un'associazione chiusi in forza del decreto legislativo n. 667. Decreto emesso nell'ambito delle misure adottate durante lo stato di emergenza originato dal tentato golpe e addebitato proprio alla “FETÖ/PDY”. Il mancato rispetto dei requisiti di equità così come le ingerenze compiute non erano strettamente richiesti da esso stato di emergenza della Turchia, tenuta invece ad adottare misure generali adeguate per affrontare il problema sistemico relativo all'approccio dei Tribunali nazionali ai dati “ByLock”. Si è ritenuto che la constatazione delle violazioni abbia di per sé valore risarcitorio e la riapertura del procedimento interno rappresenti, se richiesta (e dalla Corte suggerita), il modo più appropriato per porre fine alle violazioni accertate, riparandole.

Il caso (con qualche anticipata osservazione)

Con la sentenza emessa il 26 settembre 2023 nel procedimento n. 15669/20, la Grande Camera della Corte di Strasburgo ha dichiarato, con undici voti contro sei, che vi è stata violazione dell'art. 7 CEDU poiché le AA.GG. turche avevano equiparato l'uso (non provato) dei sistemi di messaggistica “ByLock” all'appartenenza consapevole e volontaria del Sig. Yüksel Yalçinkaya all'associazione terroristica armata “FETÖ/PDY”.

E ciò solo “grazie” a una interpretazione estensiva e non prevedibile all'epoca del fatto dell'art. 314, comma 2, c.p. turco. Ha dichiarato, altresì, con sedici voti contro uno, che vi è stata violazione dell'art. 6, § 1, CEDU, poiché il mero impiego della messaggistica in questione – senza accertare l'identità e la specifica finalità dell'utilizzatore – era stato valutato prova piena e decisiva su cui basare la relativa sentenza di condanna.

Il tutto senza consentire al ricorrente di accedere ai dati integralmente estratti dal server, così come di argomentare efficacemente riguardo al profilo di utilizzabilità in generale e di estraibilità di dati magari utili alla difesa – why not? – ma considerati non rilevanti dalla P.G. e rimasti definitivamente criptati.

Orbene, alla decisione si volgan subito gli sguardi ferventi e al § 307 si giunga, di quel che statuisce la Corte Europea contenti: «Il termine “prove materiali” non può essere interpretato in modo restrittivo, nel senso che non può essere limitato alle prove considerate rilevanti dall'accusa. Si tratta piuttosto di tutto il materiale in possesso delle autorità potenzialmente rilevante, anche se non considerato, o non ritenuto rilevante (…). La mancata comunicazione alla difesa di prove materiali che contengano elementi idonei a consentire all'imputato di scagionarsi o di ottenere una riduzione della pena costituirebbe un rifiuto delle agevolazioni necessarie alla preparazione della difesa (v. Natunen c. Finlandia, n. 21022/04, § 43, 31 marzo 2009 e Matanović c. Croazia, n. 2742/12, § 157, 4 aprile 2017)».

«Pertanto», si aggiunge al § 327, «il fatto che il ricorrente abbia avuto accesso a tutti i rapporti “ByLock” contenuti nel fascicolo non significa necessariamente che egli non avesse alcun diritto o interesse a chiedere l'accesso ai dati a partire dai quali tali rapporti erano stati generati».

Con buona pace dell'art. 6, § 3, lett. b), CEDU.

Anzi, pessima, lo si dica di già – non si resiste alla tentazione di far della decisione un'ulteriore anticipazione – poiché la Corte ai §§ 331 e 333 dirà: «(…) le ragioni addotte dal Governo dinanzi alla Corte (…) per giustificare la mancata divulgazione dei dati rilevanti al ricorrente non sono mai state effettivamente menzionate nelle sentenze dei tribunali nazionali (…). Perciò, (…) la Corte (…) non può non constatare che al ricorrente non è stata fornita alcuna spiegazione da parte dei tribunali nazionali in quanto perché e in base alla decisione di chi gli sono stati tenuti nascosti i dati grezzi, in particolare nella misura in cui lo riguardavano specificamente (…).

A questo proposito, le spiegazioni del Governo riguardo alle misure adottate dalle autorità giudiziarie dopo aver ricevuto i dati dal M İT (…) suggeriscono che esse miravano a preservare l'integrità dei dati alla data della ricezione, piuttosto che a comportare una valutazione sul se la loro integrità fosse stata mantenuta intatta prima della consegna, che costituiva il nocciolo della preoccupazione del ricorrente (…)».    

Giunti a questo punto, le lancette tornino indietro alacremente e si dica che l'antefatto era stato il seguente: le Autorità turche attribuirono la responsabilità del tentativo di colpo di Stato, compiuto il 15 luglio 2016, a membri della “FETÖ/PDY” che si erano infiltrati nelle Forze Armate. Il 16 luglio successivo la Procura Generale di Ankara avviò un'indagine su quanto accaduto, il 20 luglio il Governo dichiarò lo stato di emergenza e il giorno dopo le Autorità turche comunicarono al Segretario Generale del Consiglio d'Europa la deroga alla Convenzione ai sensi dell'art. 15. Sennonché, prima del tentato golpe, la “FETÖ/PDY” – precedentemente nota come “movimento Gülen” – pur nata per motivi religiosi aveva destato sospetti all'opinione pubblica, tant'è che nel 1999 il fondatore era stato accusato di aver fondato e capeggiato un'organizzazione terroristica; accusa che però non resse, tant'è che con sentenza passata in giudicato il 24 giugno 2008, egli fu assolto. Tuttavia, dopo alcuni accadimenti, l'idea che tale associazione rappresentasse un pericolo per la sicurezza nazionale tornò a insinuarsi nel 2014. Parallelamente, la National Intelligence Agency di Türkiye (c.d. “MİT”) cominciò a raccogliere informazioni e all'inizio del 2016 – quindi prima del tentato colpo di Stato avvenuto a luglio – ebbe accesso al server principale dell'applicazione di messaggistica criptata “ByLock”, situata in Lituania. Secondo il servizio di Intelligence, infatti, questa applicazione veniva utilizzata esclusivamente dai membri dell'organizzazione per comunicare in modo riservato e, dunque, inaccessibile all'esterno.

Nel dicembre successivo, il MİT consegnò i dati grezzi in suo possesso alla Procura Generale di Ankara, la quale ordinò la realizzazione di copie e la relativa trascrizione.

Durante l'interrogatorio tenutosi l'8 settembre successivo, il ricorrente negò di aver mai sentito parlare di tale applicazione, di averla utilizzata, men che meno di essere membro della “FETÖ/PDY”. Il 9 settembre il Dipartimento della Pubblica Sicurezza di Kayseri inviò un rapporto alla Procura contenente il nome delle 67 persone, compreso Y.Y., identificate come utilizzatrici dell'applicazione e si specificava che le informazioni ivi riversate erano state ottenute «previo coordinamento con altre Istituzioni». All'interrogatorio seguì l'applicazione della misura cautelare custodiale; alla data di deposito del ricorso alla Corte di Strasburgo – 2020, dunque, circa quattro anni dopo – il ricorrente scontava la relativa pena detentiva.

Nel report era stato indicato il numero di telefono (IP), lo user-ID “ByLock”, insieme a un codice con colore (blu, arancione o rosso) assegnato a ciascun utente. Benché si riferisse che il ricorrente era risultato collegato da un ID numerato e con codice arancione, nella relazione nulla si disse su come fossero stati ottenuti i dati relativi all'utilizzo di “ByLock”, né sul significato dei colori medesimi. Formulato il relativo capo d'imputazione, il carteggio processuale continuò a non fornire ulteriori dettagli sulle caratteristiche di “ByLock”, tranne aggiungere che vi era una funzione di eliminazione automatica dei messaggi e che l'applicazione non poteva scaricarsi da Internet, essendo necessario un file di installazione che poteva essere ottenuto solo da un altro membro. Il che dimostrava, quindi, che l'applicazione era accessibile solo ai membri dell'associazione, donde la peculiare importanza della segretezza delle attività organizzative.

Sennonché, alla prima udienza, la Corte di Kayseri acquisì il report con valore di prova; valore che la difesa contestò, perché i dati “ByLock” erano illegali, tenuto conto del metodo di acquisizione ed elaborazione, con annessa impossibilità materiale di accesso ed esame.

Seguì sentenza di condanna alla pena di sei anni e tre mesi di reclusione. Sentenza la cui terza parte era stata dedicata proprio all'esame dell'applicazione “ByLock”: essa era stata sottoposta a studi tecnici, tra cui «reverse engineering, analisi crittografica, analisi del comportamento web e codici di risposta del server».

Questo, però, senza specificare chi avesse effettuato tale analisi.

Il paragone non è perfetto, dal codice di rito turco – non già italiano – il caso essendo retto.

Eppur la mente vaga e al combinato disposto degli artt. 267, comma 4, 269 e 271 va diretto.

E che dire dell'art. 268, cc. 2 e 3? Al c. 3-bis spesso si ri(n)corre (il cavallo di Trojan) ma in modo scorretto, confondendosi il metodo con l'oggetto.

E si anticipa fin d'ora che di buon auspicio l'annotato arrêt può aver reputazione: la irretroattiva presunzione di affiliazione e l'accesso alla prova decisiva, alla difesa inibito dalla silente motivazione (cfr. §§ 303 e 305), ricorda – e non poco – il ricorso a un mezzo di (intrusiva) acquisizione.

Quando essa acquisizione avviene in Lituania, pardon! A Napoli (si voleva dire), la R.C.S. essendo risultata collocata e per qualunque indagine in Italia sia nata, non è l'impianto installato presso la Procura territorialmente competente a essere utilizzato legittimamente, men che meno consentendo al P.M. o agli Ufficiali di P.G. – tertii non dantur! – di agire in modo codicisticamente coerente. Oltre che costituzionalmente e, of course, convenzionalmente.

La garanzia della correttezza procedurale dovendo sussistere a priori e, dunque, astrattamente.

Curioso che, saltarellando qua e là, al § 286 si rinvenga proprio tale affinità.

Ivi si legge: «I rapporti “ByLock” messi a sua disposizione contenevano (…) informazioni molto generiche, indirette e non verificabili, raccolte da funzionari di cui non erano stati precisati il grado o le funzioni. Inoltre, tali relazioni erano altamente criptiche e non spiegavano come le informazioni rilevanti fossero state raccolte da un punto di vista tecnico, il che le rendeva praticamente impossibili da contestare».

Non solo. Pur quanto scritto al § 316 si vuole e deve apprezzare: «Non spetta alla Corte pronunciarsi se e in quali circostanze le informazioni di intelligence possano essere ammesse come prova nel procedimento penale (…).

Riconosce, tuttavia, che nei casi in cui la raccolta o il trattamento di tali informazioni non sono soggetti a previa autorizzazione o supervisione indipendente, o a un controllo giudiziale post factum, o laddove non siano accompagnati da altre garanzie procedurali o corroborati da altre prove, è più probabile che la loro affidabilità venga messa in discussione».

Già nel lontano 1973 la nostra Corte costituzionale iniziava a chiosare: «(…) il rispetto della norma costituzionale di raffronto non trova soddisfazione solo nell'obbligo della puntuale motivazione del decreto dell'autorità giudiziaria. Altre garanzie sono richieste:

a) garanzie che attengono alla predisposizione anche materiale dei servizi tecnici necessari per le intercettazioni telefoniche, in modo che l'autorità giudiziaria possa esercitare anche di fatto il controllo necessario ad assicurare che si proceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solo nei limiti dell'autorizzazione;

b) garanzie di ordine giuridico che attengono al controllo sulla legittimità del decreto di autorizzazione ed ai limiti entro i quali il materiale raccolto attraverso le intercettazioni sia utilizzabile nel processo (…). La Corte osserva che il legislatore gode di un ampio margine di discrezionalità nell'organizzazione del servizio, ma sente il dovere di formulare l'auspicio che si realizzino opportuni interventi legislativi idonei ad attuare anche sul piano tecnico le condizioni necessarie all'effettivo controllo (…). A questo proposito la Corte sente il dovere di mettere nella dovuta evidenza il principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito».

E fra gli atti processuali non v'è dubbio su quale spicchi: la sentenza, frutto del rito.

Essa si nutre – deve esser così – della meditazione spasmodica di e su ogni singolo dettaglio.

A maggior ragione se di condanna, donde il peso per chi deve giudicare.

«Ispezioni della terribilità».

Nessuna più bella definizione si potrebbe coniare.

Solo un'analisi logicamente, tecnicamente e umanamente compiuta libera e salva dal giogo invisibile di memoria sciasciana. Un giogo che, diversamente, è assai ben difficile da sopportare.

Buffo, poi, che di affiliazione si argomenti. Se non v'è prova (B.A.R.D. e su di un piano di recuperata parificazione) che causalmente a un'organizzazione si sia stati serventi, i modelli della mera organizzazione – quale che sia la bandiera sotto i cui colori sventoli la esigenza di prevenire l'emergenza – son destinati a esser perdenti.

Legame organico e disponibilità ai comandi sono i concetti che sub § 67 noteranno i Lettori attenti.

È la tesi della “oggettivizzazione del dolo specifico” a spalancare i propri meravigliosi battenti.

Interessante che a proposito dell'art. 270-bis c.p. la Cassazione abbia elaborato i primi fondamentali rudimenti.

Lo si evidenzi in modo pacifico: Cass. pen., sez. VI, 1° marzo 1996, n. 973, Ferdjani e altri, in Foro it., 1996, II, p. 578, coglie il segno, elevandolo a leit motiv di ogni fattispecie caratterizzata dal dolo specifico: «La mancanza della citata finalità, risolvendosi in una mancanza della qualità della associazione, si risolve in una mancanza dell'elemento costitutivo del reato. La componente soggettiva in questo senso da una parte realizza l'anticipazione della soglia di punibilità e dall'altra connota e qualifica l'elemento materiale».

Anche il reato addebitato a Y.Y. era di tal tenore, trattandosi di reato doloso (özel kast) caratterizzato dal grado maggiore; ebbene, la consapevolezza e la volontà in capo allo stesso, specificamente diretta a far parte e contribuire a tale organizzazione, è rimasta presunta, non provata e oggetto di assai grave, giudiziale disattenzione.

Anche perché, evidenzierà il ricorrente, l'applicazione era stata scaricata – senza contare i download effettuati dai diversi siti APK – circa 600.000 volte già dagli App store solamente (v. § 225). 

Si legge al § 73: «Per quanto riguarda le prove relative all'utilizzo dell'applicazione “ByLock”, l'applicant ha sostenuto che (tali) dati non erano stati acquisiti nel rispetto delle procedure previste dagli artt. 134 e 135 c.p.p.; infatti, le circostanze di tale acquisizione non erano chiare. In base alle informazioni fornite dal M İ T, quest'ultimo aveva condotto un'operazione di intelligence per ottenere i dati dal server principale dell'applicazione situato in Lituania; tuttavia, i dettagli tecnici su come esattamente avesse avuto accesso e analizzato questi dati sono rimasti sconosciuti. In tali condizioni, non vi era alcuna possibilità di visionare i dati e di verificare se fossero stati modificati».

Sembrerà una esagerazione, ma sempre più calzante appare l'italico paragone.

In grado di appello, la difesa si era opposta alla utilizzabilità della perizia trascrittiva, poiché si basava su prove ottenute illegalmente; ragion per cui chiese (quella che da noi si chiama) la rinnovazione della istruzione, per acquisire un nuovo elaborato redatto da tre esperti.

Sennonché, la Corte di Ankara rigettò l'appello per le ragioni sintetizzate ai §§ 83 e segg.

Innanzitutto, dato che l'associazione “FETÖ/PDY” era stata fondata per uno scopo ben preciso – quello terroristico – l'autore del reato, id est: il partecipe non poteva che essere a conoscenza di tale scopo ed esser sorretto dallo stesso intento.

Tranchant l'affinità, le SS.UU. Chioccini sul vecchio art. 7 essendosi pronunciate similmente sulla volontà: l'aggravante della mafiosa finalità si applica al concorrente, pur non animato da tale scopo, ma che risulti consapevole dell'altrui intenzionalità.

Inoltre, l'assenza di un precedente giurisprudenziale che avesse designato la “FETÖ/PDY” come organizzazione terroristica non escludeva, per i reati commessi in relazione alla stessa, la penale responsabilità.

Ohibò! Le somiglianze sembravan finite e invece no.

L'affair Contrada riecheggia all'infinito, perché solo le e, dunque, solo a partire dalle Sezioni Unite Demitry il concorso esterno fu puntualmente definito. E quindi Bruno Contrada ingiustamente, perché retroattivamente, punito.

Venendo alla questione (anch'essa) fondamentale dell'acquisizione dei dati “ByLock”, la Corte di Ankara sciolse il dubbio in modo (giuridicamente) assai banale.

All'inizio del § 86, la Corte E.d.u. ha proceduto a riportare: «(…) qualora sia accertato sulla base di prove concrete che tale rete di comunicazione è stata creata per commettere reati e viene utilizzata esclusivamente da membri di un'organizzazione criminale, l'adesione e l'utilizzo di tale rete (…) deve essere considerata come prova della intraneità all'associazione, anche se il contenuto della comunicazione non viene scoperto».

Men che meno reso noto.

Mai silenzio fu più eloquente, la prova della colpevolezza dovendo emergere positivamente, al fine di consentire – prima di ogni timore panciuto – di difendersi efficacemente. È l'art. 6 CEDU a garantirlo inderogabilmente a chi nei meandri processuali (soprattutto se intercettivi) sia caduto, senza nessuno dei rimedi interni effettivi.

Degno di nota è quanto Y.Y. fece poi notare anche alla Corte di Cassazione e riferito sub § 92: «il fatto che il Tribunale di Ankara abbia successivamente rilasciato il 9 dicembre 2016 un'autorizzazione per l'esame del materiale consegnato dal MİT non ha “regolarizzato” retroattivamente tale prova, come sostenuto dalle AA.GG. di grado inferiore, tenendo presente in particolare che egli era stato arrestato per l'uso di “ByLock” tre mesi prima dell'ordine del Magistrato».

Nulla da fare: la Corte di Cassazione confermò la condanna, senza esprimersi sulle sue richieste di ulteriori chiarimenti o provvedimenti.

Adita quindi la Corte costituzionale, il ricorrente censurò l'illegittimità della sua condanna (v. § 104) ai sensi dell'art. 7 CEDU: era fondamentale dimostrare quando (se) costui avesse acquisito la “consapevolezza” necessaria riguardo alla trasformazione dell'ex movimento “Gülen” nella organizzazione terroristica armata “FETÖ/PDY”. Infatti, il primo atto di violenza attribuito al sodalizio era stato il tentativo di colpo di Stato del 15 luglio 2016 e, dunque, la mancata conoscenza della natura terroristica della “FETÖ/PDY” avrebbe dovuto condurre a negare la sussistenza del dolo specifico di tale reato.     

Si ricordi quanto evidenziato sopra: la National Intelligence Agency di Türkiye (c.d. “MİT”) aveva cominciato a raccogliere informazioni e all'inizio del 2016 – quindi prima del tentato golpe avvenuto a luglio – aveva avuto accesso al server principale dell'applicazione di messaggistica criptata “ByLock”, situata in Lituania. Sicché, si aggiunge adesso, i messaggi acquisiti in data antecedente al tentato colpo di Stato non avrebbero potuto fornire prova della consapevolezza e volontà (specifica) del ricorrente di fare ed essere parte attiva dell'organizzazione medesima.              

La Corte costituzionale rispose (v. § 185) che le nozioni di “terrore” e “terrorismo” non hanno una definizione universalmente accettata e che i tribunali avevano l'obbligo di interpretare la legge nazionale in modo prevedibile e, quindi, tale da non pregiudicare l'essenza del principio nullum crimen, nulla poena sine lege.

È a questo punto che la Consulta turca entra in contraddizione con sé stessa (v. § 186): pur riconoscendo che, secondo la legge interna, la classificazione di una struttura come organizzazione terroristica era possibile solo tramite una decisione giudiziaria, ribadì tuttavia che, prima che la “FETÖ/PDY” fosse identificata in tal modo, la minaccia che essa rappresentava era già stata riconosciuta nelle decisioni del Consiglio di sicurezza nazionale e  nel documento sulla politica di sicurezza nazionale del 2014. Inoltre, molte indagini erano state avviate prima del tentativo di colpo di Stato per sospetta appartenenza alla “FETÖ/PDY”.

Ed è a questo punto che l'allarmismo prende il sopravvento sull'art. 7 (v. § 187): la Corte costituzionale sottolinea che l'assenza di una sentenza dichiarativa della matrice terroristica di una organizzazione non escluderebbe la responsabilità dei suoi membri, poiché un approccio differente porterebbe alla impunità di tutti i membri nel periodo precedente alla sentenza stessa.

Esito che già sol per questo (a chi scrive) appare stravagante, trattandosi (a parer della Corte E.d.u., non solo per questo) di uno strano bilanciamento dal sacro canone convenzionale straripante.

La decisione

Il cuore della decisione emessa dalla Corte Edu inizia a pulsare a partire dal § 239: «In qualsiasi ordinamento giuridico, compreso il diritto penale, per quanto chiaramente possa essere redatta una disposizione giuridica, vi è un inevitabile elemento di interpretazione giudiziaria. Ci sarà sempre bisogno di chiarire i punti dubbi e di adattarsi alle mutevoli circostanze. Negli Stati aderenti alla Convenzione, infatti, il progressivo sviluppo del diritto penale attraverso la legislazione giudiziaria è una parte ben radicata e necessaria della tradizione giuridica. L'articolo 7 della Convenzione non può essere letto nel senso che vieta il graduale chiarimento delle norme sulla responsabilità penale attraverso l'interpretazione giudiziaria caso per caso, a condizione che lo sviluppo che ne deriva sia coerente con la sostanza del reato e possa essere ragionevolmente previsto».

E anima ancor di più il corpo della sentenza, grazie all'ensemble dei §§ 242 e 247-248, ove si legge, rispettivamente: «(…) in linea di principio, una misura può essere considerata una sanzione ai sensi dell'articolo 7 solo qualora sia accertato un elemento di responsabilità personale dell'autore del reato. Pertanto, l'art. 7 richiede, ai fini sanzionatori, l'esistenza di un nesso psichico attraverso il quale possa rilevarsi un elemento di responsabilità nella condotta della persona che ha materialmente commesso il reato [v. GIEM Srl e altri con Italia – GC – (…) §§ 242 e 243, 28 giugno 2018]».

Una lieve aritmia – essa si palesa solo agli occhi della scrivente e che, dunque, può soffrire di miopia – si nota nell'inciso finale: «Questo requisito non esclude l'esistenza di alcune forme di responsabilità oggettiva derivante da presunzioni di responsabilità (…)».

Evidente appare con la presunzione di innocenza la distonia.

Ma ecco il focus schiarirsi e della citata miopia rimaner solo la scia: «(…) a condizione che siano conformi alla Convenzione. Più specificamente, una presunzione non dovrebbe avere l'effetto di rendere impossibile per un individuo scagionarsi dalle accuse mosse contro di lui (ibid., § 243)».   

Quindi, sub §§ 247-248, si rileva: «La disciplina normativa del reato di appartenenza a un'associazione terroristica armata è completata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che fornisce ulteriore chiarezza sia sulla struttura che sul requisito di intraneità (…). La Corte di Cassazione ha ulteriormente chiarito che la condanna per tale reato può essere emessa solo quando sia accertato il legame organico dell'imputato all'associazione stessa, fondato sulla continuità, diversità e intensità delle sue attività, e quando sia dimostrato che egli ha agito consapevolmente e volontariamente nel suo ambito».

Dopo aver evidenziato che (come sostenuto dal ricorrente e non negato dal Governo, v. § 252) gli atti su cui si era basata la condanna erano effettivamente precedenti alle sentenze con cui le Autorità turche definirono terroristica l'organizzazione “FETÖ/PDY”, la Corte di Strasburgo ha negato tuttavia che ciò bastasse per rendere la condanna incompatibile con l'art. 7.

In buona sostanza (v. § 254), la Corte ritiene che «la questione rilevante per l'oggetto della presente causa non è se la FETÖ/PDY” fosse stata prevista e punita come organizzazione terroristica al momento degli atti imputati al ricorrente . Si tratta della questione se la sua condanna per appartenenza a tale associazione fosse sufficientemente prevedibile alla luce dei requisiti del diritto interno, in particolare riguardo agli elementi costitutivi materiali e psicologici del reato, così come previsto dall'articolo 314, § 2, c.p., dalla legge sulla prevenzione del terrorismo e dalla pertinente giurisprudenza della Corte di Cassazione».

Ergo: il divieto di retroattività di una norma penale non rimane ristretto alla “sola” definizione, per diritto codicistico e vivente, del reato, richiedendosi qualcosa di più, donde il bellissimo salto di qualità che la Corte E.d.u. ha certamente compiuto.

Per onestà!

Ciò che deve essere sufficientemente tipizzato, dunque, prevedibile, pertanto rimproverabile, deve attenere anche alla struttura della fattispecie delittuosa e, cioè, alle sue componenti: oggettiva e soggettiva.

Soprattutto laddove quest'ultima, come in tal caso, richieda uno sforzo più intenso: la prova della specificità del fine.

Prova che era stata ricavata principalmente dall'uso della messaggistica “ByLock” e dalla quale il ricorrente non era riuscito a scagionarsi, suo malgrado. E in nessun grado.

L'accesso e la critica alle risultanze male acquisite gli erano state ostinatamente impedite.

Dunque, la cennata miopia – e con essa il timor di una responsabilità oggettiva, anche dalla Corte E.d.u. non totalmente esclusa ma ammessa – non ha davvero più senso che ci sia.

Splendida è la presa in carico in capo alla Corte che, pur rispettosa del principio di sussidiarietà, riconosce – esercitandoli – tutti i suoi poteri di controllo sull'operato delle locali Autorità: essi sono, infatti, «necessariamente maggiori quando il diritto stesso della Convenzione, come l'articolo 7 nel presente contesto, richiede che ci fosse una base giuridica sufficientemente chiara e prevedibile per una condanna e una sentenza (…).

La Corte ritiene che il requisito secondo cui i reati sono rigorosamente definiti dalla legge sarebbe vanificato se i tribunali nazionali dovessero eludere la legge nella sua interpretazione e applicazione ai fatti specifici di un caso».

Ed è con i §§ 262, 265 e 266 che la presente questione trova la sua risoluzione: «La Corte rileva (…) che, sebbene i tribunali nazionali avessero fatto riferimento all'adesione del ricorrente a un sindacato e a un'associazione, in uno alla accensione di un conto corrente presso la Bank Asya, si è ritenuto che tutti gli elementi costitutivi del reato in questione si manifestassero attraverso il presunto utilizzo di “ByLock”, che è stato ritenuto sufficiente di per sé a dimostrare la sua intraneità all'associazione e, in particolare, la componente psicologica necessaria per accertare la sua responsabilità penale.

È vero che la valutazione della rilevanza o del peso attribuito a un determinato elemento di prova non rientra, in linea di principio, nella competenza della Corte ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione.

Ritiene , tuttavia che, al di là del suo valore probatorio, la constatazione relativa all'uso di “ByLock” abbia effettivamente sostituito una constatazione individualizzata relativa alla presenza degli elementi costitutivi materiali e psicologici del reato, aggirando così i requisiti dell'art. 314, § 2, c.p.come interpretato dalla stessa Corte di Cassazionecontravvenendo al principio di legalità e riconducendo la questione nell'alveo dell'art. 7».

E infatti, «non è solo imprevedibile, ma anche contrario al principio di legalità e di responsabilità penale individuale trarre conclusioni decisive dal profilo e dagli scambi di tali utenti (…), in assenza di contenuti concreti o altre informazioni pertinenti relative a un determinato utente posto sotto accusa per il reato in esame (…)».

«La stessa Corte di Cassazione», d'altronde, «ha ammesso che non tutti i membri dell'associazione potevano essere considerati in possesso della consapevolezza e dell'intento diretto richiesti al fine di dichiarare la colpevolezza ai sensi dell'art. 314, § 2, c.p.».

Eppure, il diritto alla conoscenza è stato offeso effettivamente e in radice; a chiare lettere la Corte E.d.u. (sub § 341) lo dice: «Inoltre, la mancata risposta da parte dei tribunali nazionali alle richieste e alle obiezioni specifiche e pertinenti del ricorrente ha sollevato il legittimo dubbio che essi fossero impermeabili agli argomenti della difesa e che il ricorrente non fosse stato veramente “ascoltato”».

«Queste mancanze – (v. § 344) – hanno avuto l'effetto di minare la fiducia che i tribunali in una società democratica devono ispirare al pubblico e di violare l'equità dei procedimenti».

Si consenta un rapido come back e si vada ai §§ 269-270, poiché ivi si trova la vera chicca finale che il Lettore si appresta a gustare: «La Corte è profondamente consapevole delle difficoltà associate alla lotta contro il terrorismo (…). Ha inoltre già riconosciuto le sfide uniche affrontate dalle autorità e dai tribunali turchi nel contesto dei loro sforzi contro la “ FETÖ/PDY”, tenendo conto della natura atipica di tale organizzazione che, secondo gli stessi, perseguiva i suoi obiettivi segretamente piuttosto che attraverso metodi terroristici tradizionali.

Va anche sottolineato, però, che nessuna di tali considerazioni implica che le garanzie fondamentali sancite dall'art. 7 della Convenzione, diritto inderogabile al centro del principio dello Stato di diritto, possano essere applicate in modo meno rigoroso quando si tratta di perseguire e punire i reati terroristici, anche quando presumibilmente commessi in circostanze pericolose per la vita della Nazione.

La Convenzione richiede il rispetto delle garanzie dell'art. 7, anche nelle circostanze più difficili ».

Et de hoc, satis, perché ogni commento sarebbe un ultroneo tocco di lapis.

I rimedi previsti e le osservazioni di alcuni parzialmente dissenzienti “opinionisti”

Fermo restando il carattere dichiarativo delle proprie decisioni e il margine di discrezionalità riservato ai singoli Stati (nel quomŏdo della esecuzione, non già nell'an, il Vertice di Reykjavík avendo recentemente espresso inequivocabilmente – non già ad abundantiam, purtroppo ed evidentemente – la natura vincolante delle sentenze emesse definitivamente), la Corte E.d.u. ritiene comunque «utile indicare allo Stato convenuto il tipo di misure che potrebbero essere adottate per porre fine alla situazione – spesso sistemica – che ha dato luogo alla constatazione di una violazione (…).

Per quanto riguarda in particolare la riapertura del procedimento, la Corte ha chiaramente dichiarato di non essere competente a ordinare tali misure (…). Tuttavia, quando un individuo è stato condannato a seguito di un procedimento che ha comportato la violazione dei requisiti dell'articolo 6 della Convenzione» e dell'art. 7, come aggiungerà poco dopo, «la Corte può indicare che un nuovo processo o la riapertura del caso, se richiesti, rappresentano in linea di principio un modo adeguato per riparare la situazione (…)».

Ciò è in linea con gli orientamenti del Comitato dei Ministri, che nella Raccomandazione n. R (2000) 2 aveva invitato le Parti contraenti della Convenzione a introdurre meccanismi di riesame del caso e di riapertura del procedimento a livello interno, ritenendo che in circostanze eccezionali tali misure rappresentino “il mezzo più efficiente, se non l'unico, per raggiungere l'obiettivo della restitutio in integrum” (…) (v. §§ 405-407)».

Riecheggia l'art. 628-bis, c. 2, c.p.p. italiano: La richiesta di cui al comma 1 contiene l'indicazione specifica delle ragioni che la giustificano.

Chissà perché riaffiorano costantemente i pensieri già vergati che, per chi li evoca, restano immutati: «Richiederne la esplicitazione delle ragioni è corretto, effettivamente. Rafforzarne (quanto?) l'onere giustificativo è ciò cha fa riflettere, onestamente. Iura novit curia è un concetto che ritorna alla mente. D'altronde, la Corte di Strasburgo è chiara e diretta nell'argomentare se e perché la violazione c'è stata. Notoriamente. Ad ogni modo, la norma è ben articolata e ragionevole. Soprattutto a fronte del ventaglio di opzioni indicate dal comma 1. Sarà preciso dovere del difensore applicarla puntualmente, fornendo alla Corte l'assist migliore. E de-voluto esclusivamente? Bizzarro pensare: se la richiesta fosse sbagliata, ma i presupposti corretti, la Corte potrebbe decidere di applicare un rimedio diverso, proprio tenuto conto della clausola di salvaguardia o, comunque, di adottare i provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli? Leggendo la Relazione n. 68 stesa dall'Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione il 7 novembre 2022, quello introdotto dalla Riforma Cartabia è “un unico rimedio impugnatorio polivalente di natura straordinaria che affidi sempre alla Corte di cassazione la valutazione del dictum europeo, con un vaglio preliminare sul vizio accertato dalla Corte di Strasburgo”. Sic!» (Si consenta il rinvio ad A. Caruso, Il var, i calci di rigore e il nuovo golden goal, Focus del 21 novembre 2022).

Si è stabilito, poi, che costi e spese lo Stato Turco debba sopportare, essendo stata invece respinta la domanda di equa soddisfazione: nulla s'ha da dare.

Eppure, scrivono (anche) i parzialmente dissenzienti Schembri Orland, Pastor Vilanova e Šimáčkova: «Nonostante l'aspetto discrezionale dell'articolo 41, siamo comunque della comune opinione che in questo caso si sarebbe dovuta accordare l'equa soddisfazione individuale. Si deve rilevare che non vi era alcun dubbio che il ricorrente avesse subito un danno morale derivante dalla violazione dei pertinenti articoli della Convenzione».

Trauma, ansia e rabbia sono stati i sentimenti da Yüksel Yalçinkaya indubbiamente nutriti, per essere stati traditi i principali baluardi convenzionali: di una società giusta veri e propri alimenti.

Come tali a violazioni così gravi, umanamente e innegabilmente immanenti.

Cosa dire, infine, della carcerazione? Il black hole della disperazione essendo elemento di innegabile nitore.

Chissà (se e) cosa diranno le AA.GG. interne nuovamente investite, a fronte della inutilizzabilità patologica e insanabile dei dati intercettivi.

Perché, giovi ribadirlo, solo essi alla condanna son risultati decisivi.

Volesse il Legislatore – e chi nelle Aule la norma fa agire – l'Europeo verdetto effettivamente eseguire.

Sì, pure in Turchia.

La revoca secca risultando a chi scrive e in questi casi il rimedio (davvero) più adatto che ci sia.

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