Due interventi delle Sezioni Unite in materia di procedura cautelare
15 Aprile 2024
Va subito detto che non si tratta di profili nodali della tematica, dovendosi ritenere, pur nel loro rilievo, evidenziato dal contrasto di opinioni che ha sollecitato l'intervento del Collegio riunito, che si configurino come residuo di decisioni già intervenute in materia ma che però non avevano “coperto” alcuni aspetti della disciplina della materia. La prima decisione – n. 15403/2024 (informazione provvisoria n. 16/2023) – ha riguardato la possibilità che l'imputato appellante in materia cautelare nei confronti di un rigetto di una richiesta di sostituzione della misura restrittiva possa presentare al tribunale adito ex art. 310 c.p.p. nuovi elementi probatori sopravvenuti. Com'è noto, la questione, per quanto attiene al pubblico ministero, era stata definita dalle Sez. Unite n. 18339/2004, Donelli, RV 224357-01. La questione si prospettava, pur nel riconoscimento della natura di appello anche del gravame cautelare, in considerazione dei limiti cognitivi del rito dibattimentale, nel mancato richiamo dell'art. 309, comma 9, c.p.p., da parte dell'art. 310 c.p.p., contestati da chi invece faceva leva sulla presenza nella disciplina dell'appello dibattimentale dei diritti riconosciuti alle parti dall'art. 603, commi 2 e 3, c.p.p. Facendo leva su quest'ultimo elemento, giù posto a fondamento della sentenza Donelli e considerata la fluidità della materia cautelare, la Cassazione ha ritenuto di condividere la tesi favorevole al recupero del materiale probatorio, naturalmente nei limiti del devolutum, ed ha fissato il seguente punto di diritto: «Nel giudizio di appello cautelare, celebrato nelle forme e con l'osservanza dei termini previsti dall'art. 127 c.p.p., possono essere prodotti dalle parti elementi probatori “nuovi” nel rispetto del contraddittorio e del principio di devoluzione, contrassegnato dalla contestazione, dalla richiesta originaria e dai motivi contenuti nell'atto d'appello». Con la seconda decisione – n. 15069/2024 (informazione provvisoria n. 14/2024) – le Sezioni unite affrontano il tema delle conoscenze linguistiche da parte del soggetto destinatario di una misura cautelare. Prescindendo dal considerare gli sviluppi del caso singolo, ma innestandosi su di essi, il Collegio riunito affronta due questioni della materia: le implicazioni della mancata o tardiva conoscenza in una lingua a lui conosciuta da parte dell'imputato alloglotta del contenuto dell'ordinanza cautelare generico, e le implicazioni per le quali la mancata conoscenza della lingua possa emergere in un momento successivo. Affrontando in termini approfonditi la questione, anche con riferimento ai precedenti in materia, nel delineare la questione la Cassazione muove da quanto detto dalle Sez. Unite n. 5052/2003, Zalagaitis, RV 226717-01, ritenendo che in caso di conoscenza dell'ignoranza della lingua, prevale il momento dell'adozione dell'atto, sicché il deficit linguistico si configura come vizio riconducibile ad una nullità a regime intermedio. Su questo punto si evidenziava il contrasto che è all'origine dell'intervento delle Sezioni Unite. Prospettandosi la possibilità di annullare la citata sentenza Zalagaitis, si sottolinea la necessità di chiarire le implicazioni dell'emergere della consapevolezza della mancata conoscenza della lingua in un momento successivo, ove si sottolinea che appare sufficiente effettuare la traduzione in un termine “congruo”, come previsto dall'art. 143, comma 2, c.p.p. Risolvendo la questione, ribadita la validità della predetta citata sentenza Zalagaitis, quanto al profilo residuale, le Sezioni Unite ritengono che deve richiamarsi il seguente principio di diritto: «L'accertamento relativo alla conoscenza da parte dell'imputato della lingua italiana spetta al giudice di merito, costituendo un'indagine di mero fatto non censurabile in sede di legittimità se motivato in termini corretti ed esaustivi». Conseguentemente, viene fissato il seguente punto di diritto: «L'ordinanza di custodia cautelare personale emessa nei confronti di un imputato o indagato alloglotta, ove sia già emerso che questi non conosca la lingua italiana, è affetta, in caso di mancata traduzione, da nullità ai sensi del combinato disposto degli artt. 143 e 292 c.p.p. Ove, invece, non sia già emerso che l'indagato o imputato alloglotta non conosca la lingua italiana, l'ordinanza di custodia cautelare non tradotta emessa nei suoi confronti è valida fino al momento in cui risulti la mancata conoscenza di detta lingua, che comporta l'obbligo di traduzione del provvedimento in un congruo termine; la mancata traduzione determina la nullità dell'intera sequenza di atti processuali compiuti sino a quel momento, in essa compresa l'ordinanza di custodia cautelare». *Fonte: DirittoeGiustizia |