Responsabilità professionale dell'avvocato e danno da perdita di chance

17 Giugno 2024

Con la sentenza n. 3824 del 12 febbraio 2024 la terza sezione della Suprema Corte (Pres. Travaglino – relatore Tatangelo) torna nuovamente a ribadire, in tema della responsabilità professionale dell'avvocato, la natura del danno da perdita di chance patrimoniale, delineando inoltre i contorni dell'onere della prova che incombe sulle parti.

Massima

Nell'ipotesi di responsabilità professionale di un avvocato è risarcibile la perdita di una "chance", a carattere patrimoniale, di conseguire un determinato vantaggio economico, analogamente a quanto avviene per la perdita di chance di genere non patrimoniale, secondo l'insegnamento di questa Corte. Il risarcimento, dunque, non potrà essere proporzionale al "risultato perduto", ma andrà commisurato, in via equitativa, alla "possibilità perduta" di realizzarlo.

La perdita della possibilità, per l'omissione del professionista, di conseguire un risultato utile al quale l'attività era finalizzata, va proporzionato quindi alla stessa possibilità perduta di realizzare il risultato (cioè, la perdita di chance), da liquidare in via equitativa.

Tale "possibilità", per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto.

Il caso

Un cliente agiva contro il proprio avvocato, sostenendo che quest'ultimo non avesse adempiuto all'obbligazione professionale derivante dal mandato ricevuto, riguardante la partecipazione, a nome del cliente, a un'asta per l'aggiudicazione di un immobile. In particolare, l'avvocato aveva omesso di indicare il prezzo offerto dalla parte nella domanda per accedere alla procedura di vendita, causando perciò la decadenza del diritto di partecipazione.

Il legale estendeva il contraddittorio nei confronti della propria Compagnia assicurativa della responsabilità civile per essere da quest'ultima manlevato in caso di condanna.

Tuttavia, la domanda attorea veniva respinta sia in primo grado – poiché il giudice non riteneva dimostrata l'esistenza di un rapporto contrattuale professionale tra le parti – che in sede d'appello – sul diverso presupposto della mancata prova del danno, pur avendo riconosciuto l'esistenza del rapporto professionale e l'inadempimento allegato.

La Corte d'Appello, in primo luogo, dichiarava infondata la pretesa risarcitoria avanzata dall'appellante nella misura pari al valore dell'immobile (non aggiudicato), poiché lo stesso aveva ottenuto la restituzione integrale dell'importo offerto. In secondo luogo, rilevava che, quand'anche avesse potuto partecipare all'asta, non vi era comunque prova che lo stesso avrebbe potuto ottenere l'aggiudicazione del bene. Sulla base di questi presupposti, il gravame veniva rigettato.

Il ricorrente, impugnando la sentenza innanzi alla Suprema Corte, censurava la decisione (ai fini che qui rilevano) per non aver tenuto conto anche della domanda di risarcimento del danno da perdita di chance patrimoniale in relazione alla possibilità di aggiudicarsi l'immobile, per la quale aveva richiesto la liquidazione in via equitativa. Denunciava quindi la violazione o falsa applicazione dell'art. 1218 c.c., degli artt. 1223 e 1224c.c. e dell'art. 1453 c.c. in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c. per aver erroneamente escluso l'esistenza di un danno da inadempimento contrattuale (patrimoniale e non patrimoniale) risarcibile.

La questione

Il ricorrente si doleva dunque del fatto che la Corte di merito avesse escluso l'esistenza di un danno da inadempimento contrattuale risarcibile, pur avendo accertato la condotta del professionista non conforme alla legis artis. Come anticipato, infatti, la Corte di Appello aveva accolto il gravame in relazione all'esistenza di un rapporto professionale e aveva accertato la negligenza del professionista per aver quest'ultimo omesso di indicare il prezzo offerto nella domanda di partecipazione alla vendita, facendo così maturare la decadenza del cliente alla partecipazione dell'asta.

Il rigetto, però, aveva riguardato la sfera del danno risarcibile in caso di inadempimento del professionista, sotto il profilo del pregiudizio riportato dal cliente, ritenuto inesistente per via della mancata prova circa l'effettiva possibilità di aggiudicarsi l'immobile all'asta.

Il tutto senza considerare che l'appellante aveva anche richiesto, in via gradata, il risarcimento per la perdita di chance di aggiudicarsi l'immobile, da liquidarsi in via equitativa, a causa non tanto della mancata aggiudicazione, quanto della opportunità indiscutibilmente persa di ottenere quel risultato. Questo, dunque, l'oggetto della domanda sulla quale la Corte territoriale aveva omesso la decisione, con conseguente violazione o falsa applicazione di norme di legge secondo la censura sollevata dal ricorrente in sede di legittimità ed accolta dal supremo collegio.

La Suprema Corte, esaminata la questione, riteneva fondate le censure sulla base delle argomentazioni che ci si appresta ad offrire. In primo luogo, evidenziava che il ricorrente avesse allegato, quale tipologia di danno risarcibile, proprio il fatto di essere stato escluso dalla gara e che l'aver poi richiesto un importo manifestamente eccessivo (parametrato sull'intero prezzo dell'immobile) non valesse ad escludere il dovere dei giudici di liquidare il minor danno effettivamente spettante in relazione all'evento dannoso (evento, come detto, allegato e provato). Nello specifico, il pregiudizio avrebbe dovuto essere individuato proprio nella perdita della possibilità di partecipare all'incanto e dunque aggiudicarsi l'immobile, in termini di perdita di chance, nei limiti di quanto dovuto a tale titolo.

E, seppur con i limiti appena indicati, la Corte d'appello avrebbe dovuto provvedere mediante liquidazione equitativa, come da domanda proposta in via gradata dall'appellante, dal momento che «tale risarcimento avrebbe potuto, al più, essere escluso solo laddove fosse stato dimostrato (ma, in tal caso, l'onere della prova sarebbe spettato al danneggiante) che il A.A. non avrebbe avuto alcuna seria e concreta possibilità di rendersi aggiudicatario dell'immobile, il che non risulta avvenuto».

Riteneva quindi la Cassazione che la decisione di merito rappresentasse un'infrazione dei consolidati principi espressi dalla stessa Corte sull'argomento (cfr. Cass. 5641/2018), in forza dei quali il risarcimento per la perdita di una “chancea carattere non patrimoniale non può essere proporzionale al “risultato perduto”, dovendo piuttosto essere commisurato in via equitativa alla “possibilità perduta” di realizzarlo. Per determinare l'estensione del danno risarcibile, si devono considerare i parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza, mentre il valore statistico (percentuale) può essere solo un criterio orientativo, data la specificità di ciascun caso concreto (in tal senso anche Cass. civ. nn. 12906/2020, 2261/2022, 25886/2022, 24050/2023).

La Corte si premurava inoltre di precisare come le suesposte coordinate di diritto – delineate con riguardo alla perdita di chance di carattere non patrimoniale – debbano estendersi anche ai pregiudizi di carattere patrimoniale e ciò sul presupposto che, a prescindere dalla natura del danno, ragionando al contrario il danneggiato verrebbe sempre gravato di una probatio diabolica peraltro (nella fattispecie qui esaminata)relativa a un danno diverso da quello nella specie allegato, dimostrato e da liquidare, cioè relativa alla perdita del risultato, ovvero del bene, desiderato, non alla mera perdita della possibilità di conseguirlo.

In definitiva, per la Cassazione il giudice di merito confondeva il risarcimento del danno derivante dal “risultato perduto” con quello legato invece alla possibilità perduta di realizzarlo (c.d. chance) che era stato specificamente allegato e provato con domanda subordinata e che avrebbe pertanto dovuto essere esaminato, accolto e liquidato in via equitativa. La sentenza veniva quindi cassata con rinvio alla Corte di merito, al fine di determinare il risarcimento del danno utilizzando, per l'appunto, i criteri di equità.

Così decidendo, la Cassazione poneva in rilievo un altro aspetto significativo e specificamente esaminato, ossia che la domanda per il risarcimento di perdita di chance fosse stata effettivamente formulata nel giudizio di merito.

Riporta infatti la pronuncia «Nella prospettazione alla base della sua domanda, peraltro è altrettanto certo che egli abbia allegato, in concreto, quale evento dannoso riconducibile all'inadempimento della B.B., il fatto di essere stato escluso dalla gara per l'aggiudicazione dell'immobile. Di conseguenza, la circostanza che egli, quale risarcimento di tale evento dannoso (correttamente individuato nella perdita della possibilità di partecipare all'incanto) abbia richiesto un importo manifestamente eccessivo, in quanto parametrato sull'intero prezzo di aggiudicazione dell'immobile, non escludeva il potere dovere dei giudici del merito di liquidare il minore importo effettivamente dovuto, in relazione al suddetto evento dannoso allegato, in quanto provato sulla base degli atti, cioè la perdita della possibilità di partecipare all' incanto, in termini di perdita di chance, nei limiti di quanto dovuto a tale titolo».

Se ne deduce, in linea con l'orientamento vigente, che, se al contrario tale domanda (subordinata nel nostro caso) di risarcire la sola possibilità perduta non fosse stata formulata, il giudice del merito non avrebbe potuto/dovuto esaminarla né tantomeno accoglierla. È infatti nota la ontologica differenza tra i due tipi di danno-evento (perdita del risultato utile/perdita della chance di conseguire tale risultato).

In un caso, infatti, le “chances” sostanziano il nesso causale stesso, mentre nell'altro (mancato risultato) rappresentano l'oggetto della perdita e, quindi, del danno. È dunque corretto, come anche rilevato dalla giurisprudenza dominante in materia lavoristica, dissociare il danno come perdita della possibilità, dal danno per mancata realizzazione del risultato finale, introducendo così una distinta e autonoma ipotesi di danno emergente, che incide su un diverso bene giuridico: la possibilità del risultato desiderato.

Le soluzioni giuridiche

Nella sentenza in commento la Corte, nell'ottica di ribadire la portata e la natura del danno da perdita di chance patrimoniale, ha invero richiamato (come detto) l'impalcatura concettuale messa a punto dalle numerose pronunce emesse nell'ambito della responsabilità medica, tra le quali, nello specifico, la n. 5641/2018, che ha trovato poi ulteriore compimento in altre successive (da ultimo anche Cass. civ. n. 26851/2023).

Alla stregua di tale ricostruzione la chance rappresenta la possibilità – inevitabilmente incerta - di ottenere un determinato risultato sperato, che nei casi esaminati nell'ambito di tali pronunce si sostanziava nella guarigione o nella migliore condizione di salute del paziente. La soppressione di tale aspettativa, legata alla condotta colposa di un sanitario da un ordinario nesso causale (da ricercarsi secondo il criterio del più probabile che non) è dunque il presupposto dell'evento dannoso. L'incertezza, quindi, non attiene al nesso di causa ma resta strettamente correlata all'evento, la cui soppressione dev'essere «pur sempre conseguente al previo accertamento del nesso eziologico con la corretta condotta omessa» (Cass. civ. n. 25878/2020). Il danno poi individuato secondo i predetti criteri è suscettibile di ristoro, in misura necessariamente equitativa, laddove poi assurga ai caratteri dell'apprezzabilità, serietà e consistenza (Luigi La Battaglia, Il danno da perdita di chance sanitaria nel “gioco di specchi” tra morte e possibilità di sopravvivenza del paziente (ovvero il nuovo statuto teorico dell'evanescenza) (Nota a Cass. civ. n. 35998/2023, Cass. civ. n. 27659/2023, e Cass. civ. n. 26851/2023, in Foro Italiano, 3/2024, 909).

In termini generali, l'evoluzione giurisprudenziale riguardante l'individuazione del nesso di causalità tra l'inadempimento della prestazione dedotta in contratto e il danno ha evidenziato la necessità di superare la concezione tradizionale. In passato, si faceva riferimento al criterio della “certezza morale” o si esitava tra “ragionevole certezza” e “ragionevole previsione”. Tuttavia, oggi si considera il rapporto causale anche quando si può fondatamente ritenere che l'adempimento dell'obbligazione - ove correttamente e tempestivamente posto in essere - avrebbe influenzato la situazione del creditore in termini di ragionevole probabilità. In altre parole, non è necessario avere “certezze” assolute, ma piuttosto semplici probabilità riguardo a un'eventuale diversa evoluzione della situazione (Cfr. Cass. civ. n. 632/2000; Cass. civ. n. 1286/1998; Cass. civ. n. 3362/1977; Cass. civ. n. 5264/1996 e Cass. civ. n. 11287/1993).

Nello specifico ambito medico, con riguardo alla sussistenza del nesso di causalità fra l'evento dannoso e la condotta colpevole (omissiva o commissiva) del medico, è stato evidenziato che «ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti» (Cass. civ. n. 632/2000).

Osservazioni

Così delineate le coordinate del pregiudizio allegato ed esaminato dai giudici di legittimità, possiamo ora esaminare nel dettaglio, seppur per cenni, l'impianto normativo vigente riguardante la responsabilità dell'avvocato.

Le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale rientrano, di regola, nelle obbligazioni di mezzo e non di risultato. Ciò, dal momento che il professionista, nell'assumere l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per far raggiungere al proprio cliente il risultato desiderato, ma non è obbligato a garantirne il conseguimento effettivo (Cass. civ. n. 6967/2006; Cass. civ. n. 2836/2002).

Ne consegue che l'inadempimento del professionista, nella fattispecie avvocato, non potrà derivare, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile sperato dal cliente ma dovrà piuttosto essere analizzato sulla base del rispetto di quelli che sono i doveri inerenti alla professione, primo tra tutti quello speciale di diligenza professionale fissato dal secondo comma dell'art. 1176 c.c. [Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata (art. 2104, 2145 comma 2, 2174,2224 comma 1, 2232,2236)].

La valutazione andrà commisurata alla natura e alla complessità dell'incarico, così che, non potendo il professionista garantire l'esito, comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni (nel caso considerato dalla Cassazione la mancata indicazione del prezzo di vendita) sarà ravvisabile qualora venga accertato, pur sempre in termini probabilistici, che, senza quelle omissioni, il risultato avrebbe potuto essere conseguito (nella specie, l'aggiudicazione dell'immobile).

Contrariamente al passato, in cui i casi di responsabilità professionale riguardavano principalmente l'omissione di impugnazioni, notifiche o atti entro i termini previsti, negli ultimi tempi la responsabilità degli avvocati è stata riconosciuta anche per questioni “di merito”, e segnatamente con riferimento alla diligenza nella valutazione degli interessi del cliente, la scelta dei mezzi di difesa e la conoscenza della legge.

Così, ad esempio, è da considerarsi responsabile nei confronti del cliente l'avvocato che, per negligenza e/o imperizia, comprometta il buon esito del giudizio per ignoranza sull'esistenza di disposizioni di legge. Parallelamente, è esclusa la predetta responsabilità (salvo il caso di dolo o colpa grave) nel caso di interpretazioni di leggi o di risoluzione di questioni di non facile soluzione o comunque dibattute. (Cfr. Cass. civ. n. 10068/1996; Cass. Civ. 11612/1990).

È comunque opportuno precisare come l'obbligo di diligenza da osservare secondo il combinato disposto di cui agli artt. 1176, 2° comma, e  2236 non si limiti invero all'attività principale ma si estenda a tutte quelle attività ancillari e correlate, sicché l'avvocato sarà ad esempio chiamato ad assolvere (anche) ai doveri di sollecitazione, informazione, dissuasione del cliente, rappresentando a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, che possano porsi in termini ostativi al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di soccombenza. Sarà inoltre tenuto a chiedere al cliente gli elementi necessari o utili in suo possesso, indicandogli quelli più rilevanti, a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole e via dicendo. Quanto sopra, durante tutto l'arco temporale di adempimento dell'incarico professionale, che comprende sia la fase iniziale del conferimento del mandato sia l'intero arco di svolgimento del rapporto (Cass. civ. n. 14597/2004 con nota di Perugini, La diligenza imposta al professionista nell'espletamento del suo incarico e l'obbligo d'informazione, in GI, 2005, 1402).

Peraltro incomberà proprio sul professionista l'onere di provare di aver tenuto una condotta diligente e non sarà sufficiente – a tal fine – la produzione delle procure all'esercizio dell'attività rilasciate dal cliente, stante la relativa inidoneità di tali documenti a deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio.

Al riguardo poi l'avvocato, ove la condotta consista nell'adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, non potrà andare esente da responsabilità sostenendo che l'adozione di tali mezzi sia stata sollecitata dal cliente stesso. È infatti compito esclusivo del legale scegliere la linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale (Cfr. Cass. Civ. n. 20869/2004). Enunciando questo principio, la Cassazione, con la pronuncia n. 20869/2004 confermava una decisione con la quale era stata accertata la responsabilità professionale per avere l'avvocato proposto una domanda di risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata (ex art. 96 c.p.c.) innanzi ad un giudice diverso da quello che aveva deciso la causa di merito, così esponendo il cliente alla soccombenza nelle spese.

Resta in ogni caso ferma, a maggior ragione, la responsabilità dell'avvocato per tutte quelle attività formali al quale è chiamato in forza del mandato ricevuto, ad esempio consistenti nel mancato compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del cliente, che di regola non richiedono speciale capacità tecnica (a meno che, in relazione a peculiari fattispecie rimesse al libero apprezzamento del giudice, il calcolo dei termini prescrizionali si presenti particolarmente incerto) o l'omissione di impugnazioni, notifiche o atti entro i termini previsti.

Proprio di recente, d'altronde, la Terza Sezione della Cassazione, con la pronuncia del 19 gennaio 2024 , n. 2109, ha affermato la responsabilità dell'avvocato in caso di inadempimento dell'obbligo di informazione dell'esito sfavorevole del giudizio di primo grado, che ha determinato l'impossibilità di proseguire il giudizio in sede di impugnazione. La Corte, dando seguito a tutti i principi sopra esposti, ha inoltre riportato i criteri specifici – chiaramente variabili a seconda del caso concreto – da tenere in conto ai fini della valutazione prognostica. Si legge infatti: «In tema di responsabilità professionale dell'avvocato, ai fini dell'accertamento di un danno risarcibile derivante dall'inadempimento dell'obbligo di informazione dell'esito sfavorevole del giudizio di primo grado, che ha determinato l'impossibilità di proseguire il giudizio in sede di impugnazione, deve essere effettuata una valutazione prognostica sull'esito che avrebbe potuto avere l'impugnazione preclusa dall'omessa informazione, da svolgersi sulla base della prevedibile strategia difensiva (anche alla luce delle eccezioni proposte e delle difese svolte nel primo grado di giudizio) e della possibilità di ottenere un risultato favorevole (anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali formatisi in materia)».

Un'ultima considerazione va fatta con riferimento al danno che la Corte, con la decisione in commento, mostra di voler riconoscere a favore del cliente patrocinato dall'avvocato inadempiente.

Certamente la “perdita di chance” di ottenere un risultato che, col mandato conferito al professionista, il mandante intendeva raggiungere, finisce con l'ampliare la portata dei danni risarcibili e con essa, l'esposizione patrimoniale che il professionista si trova ad affrontare verso il proprio assistito, dovendo compensare non solo il danno direttamente arrecato con la propria azione od omissione negligente, ma anche la misura patrimonializzabile del minor pregiudizio consistente nella utilità perduta, ove con questo termine deve intendersi la misura patrimoniale di una opportunità (o, appunto, chance).

Se tanto è vero, e con tale considerazione si deve osservare un quasi inedito ampliamento dei margini risarcitori della colpa professionale dell'avvocato, devono restare fissati ed inalienabili i principi di diritto che regolano il perimetro dei danni risarcibili nel nostro ordinamento, secondo il rigido, ed insuperabile, schema proposto dagli artt. 1226 e 2056 c.c.

Del resto, la stessa Corte di Cassazione, come visto in questa sede e nei propri costanti pronunciamenti in tema di “perdita di chance”, ha posto un chiaro “barrage” alla sfera risarcitoria in parola nella "possibilità" che lo stesso danno possa “necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico - percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto”.

Proprio la “specificità del caso concreto” porta ad un'ultima considerazione circa la portata della decisione di rinvio che la corte territoriale sarà chiamata ad emettere recependo il principio espresso con la sentenza in commento. 

La possibilità perduta dal cliente di partecipare ad un evento (azione compromessa dall'errore formale inemendabile del professionista) che avrebbe potuto determinare l'ingresso nel patrimonio dello stesso di un bene materiale, a nostro giudizio potrà raggiungere parametri seri e concreti di valenza risarcitoria solo laddove lo stesso danneggiato proverà le utilità economiche che il possesso del bene avrebbe determinato.

Si pensi, per fare un esempio, alla maggior reddittività del mercato immobiliare, ad esempio, rispetto a quello mobiliare con la perdita (concreta e documentata a cura del danneggiato) di poter godere di maggiori frutti finanziari nel tempo in termini di rivalutazione dell'immobile perduto.

In conclusione, la Corte di cassazione, con la sentenza in commento ha censurato la Corte di Appello per essersi discostata dai consolidati principi di diritto in tema di danno da perdita di chance, ribadendo, alla luce di tutto quanto sopra esposto, i principi già affermati dalle altre pronunce di legittimità sull'argomento e confermando, quindi, la coerenza e la continuità giurisprudenziale riguardante la valutazione delle possibilità perdute (da distinguersi dunque dai risultati perduti) e il loro impatto sulla responsabilità professionale, anche nel campo della attività forense.

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