Tardivo riconoscimento del figlio: la madre può testimoniare nel giudizio?
17 Giugno 2024
Massima In tema di incapacità a testimoniare nel processo civile, tale incapacità sussiste quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell'interesse ad agire e a contraddire di cui all'art. 100 c.p.c., con riferimento alla domanda in concreto formulata, e non ad un ipotetica analoga domanda esperibile, sicché nel giudizio volto all'accertamento del pregiudizio lamentato dal figlio, oramai maggiorenne, conseguente al consapevole tardivo riconoscimento della paternità da parte del padre biologico, va esclusa l'incapacità a testimoniare dalla madre, ove oggetto del giudizio sia la violazione degli obblighi morali e materiali derivanti dalla filiazione, riferiti esclusivamente al rapporto tra padre e figlio. Il caso Tizia citava in giudizio Caio per sentirlo condannare al pagamento in suo favore di una somma una tantum di a titolo di mantenimento per il periodo di 25 anni intercorso tra la nascita e il riconoscimento, al pagamento di un assegno mensile a far data dal riconoscimento fino al raggiungimento dell'indipendenza economica, oltre al risarcimento del danno biologico ed esistenziale derivante dalla deprivazione del rapporto genitoriale. Il Tribunale accoglieva tutte le domande proposte. La Corte di Appello accoglieva parzialmente il gravame proposto da Caio. In particolare, la Corte riteneva fondato il primo motivo di gravame, rilevando che l'onere della prova, relativo alla conoscenza da parte di Caio della sua paternità naturale, in quanto fatto costitutivo del diritto al risarcimento fatto valere in giudizio dalla figlia, gravava su quest'ultima e non era stato adeguatamente assolto. Ciò in quanto i giudici di appello ritenevano inammissibile ex art. 246 c.p.c. la testimonianza della madre Sempronia, attesa l'eccezione tempestivamente sollevata dal convenuto in primo grado già al momento dell'indicazione del teste da controparte e reiterata all'udienza di escussione della medesima, tenuto conto dell'interesse personale – attuale e concreto – della teste Sempronia, in quanto madre dell'appellata e coobbligata in riferimento alle domande tutte proposte dalla medesima figlia, non fosse altro in quanto lei era certamente a conoscenza fin dalla nascita di Tizia di chi fosse il vero padre della medesima, circostanza che sola avrebbe legittimato una sua partecipazione al giudizio. Avverso tale sentenza Tizia proponeva ricorso in Cassazione. La questione La questione esaminata dalla Corte di cassazione afferisce alla capacità a testimoniare della madre nel giudizio volto all'accertamento del pregiudizio prospettato dal figlio maggiorenne come conseguente al consapevole tardivo riconoscimento da parte del padre naturale. Le soluzioni giuridiche L'art. 246 c.p.c., secondo cui non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, viene tradizionalmente considerato espressione del principio nemo testis in causa propria, principio di origine romanistica: esso afferma l'incompatibilità della posizione processuale di parte con quella di testimone, in forza di una valutazione compiuta a priori, poiché la confusione tra i due ruoli inficia la credibilità del teste, perché privo della condizione di terzietà che ne caratterizza, o meglio ne caratterizzerebbe, la figura. Secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, l'incapacità prevista dall'art 246 c.p.c. si verifica quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell'interesse ad agire e a contraddire di cui all'art. 100 c.p.c., sì da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia che ivi è in discussione (Cass. civ., sez. III, 17 luglio 2002, n. 10382; Cass. civ., sez. III, 29 aprile 2022, n. 13501). Non ha, invece, rilevanza l'interesse di fatto a un determinato esito del giudizio stesso - salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell'attendibilità del teste - né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto dell'attuale controversia, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia controversa non determini già attualmente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio (Cass. civ., sez. II, 5 gennaio 2018, n. 167). In tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, e con riferimento all'ipotesi in cui l'azione sia esperita dal figlio oramai maggiorenne, la Suprema Corte ha più volte affermato che non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre naturale, ai sensi dell'art. 276, ultimo comma, c.c., potendo semmai essa svolgere un intervento adesivo dipendente, allorché sia ravvisabile un suo interesse di fatto tutelabile in giudizio. In ogni caso, alla stregua della disciplina normativa della legittimazione ad agire in tale giudizio, contenuta nell'art. 276 c.c., correlata all'interpretazione dell'art. 269, comma 2 e 4, c.c., i giudici di legittimità hanno precisato che le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integrativo ex art. 116 c.p.c., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l'apprezzamento ai fini della decisione, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell'art. 246 c.p.c. (Cass. civ., sez. I, 25 marzo 2015, n. 6025; Cass. civ., sez. I, 17 luglio 2012, n. 12198). Nella pronuncia in commento viene, di conseguenza, evidenziato che nel giudizio relativo all'accertamento della paternità del figlio maggiorenne, la madre non è, in sé, portatrice di un interesse alla partecipazione al processo, potendo semmai far valere un eventuale interesse di fatto a farvi ingresso, con un intervento adesivo dipendente (in tal senso v. anche Cass. civ., sez. I, 28 novembre 2022, n. 34950). L'accertamento del rapporto di filiazione, in sintesi, attiene solo al genitore e al figlio, senza coinvolgere neppure l'altro genitore. Pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto che nel giudizio volto all'accertamento del pregiudizio lamentato dal figlio, oramai maggiorenne, conseguente al consapevole tardivo riconoscimento della paternità da parte del padre biologico, va esclusa l'incapacità a testimoniare dalla madre, ove oggetto del giudizio sia la violazione degli obblighi morali e materiali derivanti dalla filiazione, riferiti esclusivamente al rapporto tra padre e figlio. Osservazioni Giova ricordare che le Sezioni Unite hanno recentemente ribadito il consolidato principio giurisprudenziale per cui l'incapacità a testimoniare, prevista dall'art. 246 c.p.c., determina la nullità della deposizione e non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata a farla valere al momento dell'espletamento della prova o nella prima difesa successiva, restando altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., sez. un., 6 aprile 2023, n. 9456). L'eccezione di incapacità a testimoniare va necessariamente formulata prima dell'ammissione della prova testimoniale, atteso che, in mancanza di essa, il giudice, che non può rilevare d'ufficio l'incapacità, non ha il potere di applicare la regola di esclusione prevista dall'art. 246 c.p.c., sicché è tenuto ad ammettere il mezzo, in concorso, ovviamente, coi normali requisiti dell'ammissibilità e rilevanza, sottoposti al suo controllo. Ove il giudice ammetta la prova, nonostante l'eccezione di incapacità, in violazione dell'art. 246 c.p.c., la prova assunta è affetta da nullità relativa (Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2020, n. 8528), pertanto l'interessato ha l'onere di eccepire subito dopo l'escussione del teste ovvero, in caso di assenza del difensore della parte alla relativa udienza, nella prima udienza successiva, determinandosi altrimenti la sanatoria della nullità ex art. 157, comma 2, c.p.c. L'imposizione di un duplice onere di eccezione, prima dell'ammissione e dopo l'assunzione del mezzo cionondimeno ammesso si spiega, ad avviso delle SU, non soltanto in ragione dell'impossibilità logica di configurare un'eccezione di nullità di un atto futuro - con la conseguenza che una eccezione d'incapacità a testimoniare non può ritenersi inclusiva dell'eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione (Cass. 19 agosto 2014, n. 18036) -, ma, soprattutto, a tutela dell'interesse della stessa parte che abbia formulato l'eccezione di incapacità a testimoniare, la quale, pure oppostasi inizialmente all'ammissione della testimonianza, deve essere posta in condizione di valutare l'esito dell'assunzione, che ben potrebbe rivelarsi ad essa favorevole (Cass. civ., sez. VI, 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass. civ., sez. II, 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. civ., sez. VI, 23 maggio 2013, n. 12784). L'eccezione di nullità della testimonianza resa da teste incapace ai sensi dell'art. 246 c.p.c. va, infine, coltivata con la precisazione delle conclusioni (Cass. civ., sez. I, 25 gennaio 2022, n. 2129; Cass. civ., sez. II, 10 novembre 2021, n. 33103; Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2020, n. 26523). Riferimenti Costabile, Le Sezioni Unite sulla non rilevabilità di ufficio della incapacità a testimoniare, in IUS Processo civile (ius.giuffrefl.it), 16 maggio 2023; Frisina, Incapacità di testimoniare ai sensi dell’art. 246 c.p.c. e onere della «duplice eccezione» secondo le Sezioni Unite, in Riv. Dir. Proc., 2023, 4, 1795. |