La responsabilità degli arbitri nell’arbitrato rituale

25 Giugno 2024

La particolare natura dell'attività svolta dall'arbitro nelle procedure arbitrali rituali, che è giurisdizionale ed è sostitutiva del giudice, giustifica una speciale disciplina che – individuando le ipotesi di responsabilità e regolando con una disposizione ad hoc sia  l'azione risarcitoria sia le conseguenze – rappresenti un equilibrato contemperamento tra la necessità di garantire all'arbitro la piena libertà di giudizio ed alle parti di poter confidare nel ristoro del danno in caso di esecuzione della prestazione inesatta. 

Inquadramento 

Per inquadrare esattamente la responsabilità degli arbitri nell'arbitrato rituale è necessario preliminarmente dare conto della natura del rapporto che si instaura tra le parti e l'arbitro e della natura della prestazione cui è tenuto l'arbitro.

Quanto al primo profilo, non può seriamente dubitarsi che l'arbitro, accettando l'incarico, stabilisce una relazione contrattuale (contratto di arbitrato) dalla quale discendono diritti e doveri sia per le parti che per gli arbitri.

La inosservanza di questi dovere, ed in particolare l'inadempimento o l'inesatto adempimento, espone l'arbitro all'azione di responsabilità ed alle eventuali conseguenze risarcitorie.

Non si può entrare nel vivo della questione senza prima però avere speso qualche considerazione sul secondo aspetto, la natura della prestazione.

Secondo consolidata giurisprudenza, la attività degli arbitri ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice (Cass. civ., sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24153), pur trattandosi comunque di attività di natura privata (Cass. civ., sez. I, 30 ottobre 2024, n. 23074).

Nell'arbitrato rituale, quindi, l'arbitro esercita una attività giurisdizionale di natura privata che giustifica, per la peculiarità della prestazione, un regime speciale della responsabilità che rappresenti un soddisfacente punto di equilibrio tra la necessità di assicurare la libertà  di giudizio degli arbitri e il diritto delle parti ad avere garantita la esecuzione di una prestazione improntata a diligenza.

Regime speciale che, con la riforma del 2006, ha trovato una sua collocazione nell'art. 813-ter c.p.c., all'esame del quale è dedicato questo contributo.

La clausola di salvaguardia

Ai sensi del secondo comma dell'art. 813-ter c.p.c., “fuori dai precedenti casi, gli arbitri rispondono esclusivamente per dolo o colpa grave entro i limiti previsti dall'art. 2 commi 2 e 3 della legge 13 aprile 1988 n. 117”.

Il comma 2 dell'art. 2 della legge n. 117/1988 a sua volta così recita: “fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

Dunque, anche all'arbitro si estende la clausola di salvaguardia che mette  a riparo la libertà di valutazione e giudizio dei magistrati nell'esercizio della giurisdizione, sottraendo a responsabilità la loro attività tipica, e cioè l'interpretazione delle norme di diritto e la valutazione dei fatti e delle prove.

Clausola di salvaguardia che, tuttavia, ammette limitate eccezioni.

Innanzitutto, non si sottraggono a responsabilità il giudice o l'arbitro che agiscano con dolo.

In secondo luogo, l'interpretazione della legge può costituire fonte di responsabilità quando l'arbitro ha agito con colpa grave.

Tanto discende dal rinvio operato dal richiamato secondo comma dell'art. 813 ter c.p.c. al comma 3 della L. 117/1988, a mente del quale “costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione”.

Il codice di rito non richiama invece il comma 3 bis dell'art. 2 della legge n. 117/1988, che specifica cosa debba intendersi per “violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea”.

Si tratta, a mio modo di vedere, di un mero problema di coordinamento tra le due disposizioni perché l'art. 813-ter c.p.c. è stato inserito nel codice di rito dal d.lgs. n. 40/2006 mentre il comma 3-bis dell'art. 2 della legge n. 117/1988 è stato inserito dalla legge n. 18/2015.

Tuttavia, poiché comunque la fattispecie delineata dal comma 3 bis dell'art. 2 della legge n. 117/1988 è presa in considerazione dal comma 2 della medesima disposizione, al quale espressamente rinvia l'art. 813-ter c.p.c., a me pare che valga anche per l'arbitro – quando si deve stabilire se costui è incorso nella violazione manifesta della legge – la definizione che ne dà il comma 3-bis.

Ebbene, a mente del comma 3 bis, per determinare se sussiste la violazione manifesta si deve tenere conto di alcuni specifici “indicatori”: a) il grado di chiarezza e precisione delle norme violate; b) l'inescusabilità e la gravità dell'inosservanza.

Se poi la violazione riguarda una norma del diritto europeo, si deve tenere conto anche della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 – terzo paragrafo – del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (che tuttavia non è applicabile al giudizio arbitrale per CGUE, Sez. VII, 13 febbraio 2014 n. 555) nonché del contrasto dell'atto o del provvedimento con la interpretazione espressa della Corte di giustizia dell'Unione europea, sebbene non sia così pacifico se gli arbitri, ai quali è stata demandata la decisione della controversia, debbano adeguarsi alla interpretazione del diritto europeo da parte della Corte di Giustizia e dunque possano essere chiamati a rispondere ove se ne discostino, se non nei limitati casi in cui la decisione si ponga in contrasto con i principi di “ordine pubblico comunitario”  (Gregori M., L'applicazione del diritto dell'Unione da parte degli arbitri, in Ricerche giuridiche, Vol. 3 – Num. 2 – Dicembre 2014, Edizioni Ca'Foscari).

La colpa grave nella interpretazione della legge

Per comprendere quando in concreto si possa parlare di colpa grave dell'arbitro che abbia deciso in contrasto con una specifica norma di legge, e quindi come debbano interpretarsi i commi 3 e 3-bis della legge n. 117/1988, è utile richiamare la giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Ebbene, per la Suprema Corte tre sono le ipotesi in cui l'errore del giudice è sottratto alla clausola di salvaguardia.

Invero esula dalla attività interpretativa: a) l'errore sulla individuazione della disposizione ovvero sulla individuazione del significante; b) l'errore sulla applicazione della disposizione; c) l'errore sul significato della disposizione ovvero la attribuzione alla disposizione di un significante non compatibile con il significato, ossia un non significato. (Cass. civ., sez. un., 3 maggio 2019 n.  11747).

Con la ulteriore precisazione che in un sistema, come quello italiano, in cui il “precedente” non è vincolante, non “integra grave violazione di legge una interpretazione che si discosti dalla giurisprudenza, anche consolidata, della Corte di Cassazione”, purché questa sia la conseguenza di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile che trovi adeguato fondamento nella motivazione.

Questi principi, enunciati in una fattispecie disciplinata – ratione temporis – dall'art. 2 della legge n. 117/1998 ante riforma del 2015, sono stati recentemente richiamati dalla Cassazione, ritenendoli ancora validi anche dopo la detta riforma.

Pertanto, “la grave violazione di legge, fonte di responsabilità, va individuata nella ipotesi in cui la decisione appaia non essere frutto di un consapevole processo interpretativo, ma contenga affermazioni ad esso non riconducibili perché sconfinanti nel provvedimento abnorme o nel diritto libero” (Cass. civ., sez. III, 15 novembre 2023 n. 31837).

È interessante il caso portato all'attenzione della Suprema Corte per comprendere la “elasticità” della norma presa in esame.

Invero, la Cassazione ha ritenuto immune da censure la decisione della Corte dei Conti che, dovendo valutare la tempestività di un appello alla luce del principio giurisprudenziale della c.d. ripresa del procedimento di notificazione, si è discostata dal più recente orientamento di legittimità che aveva ritenuto tempestiva la riattivazione del procedimento di notificazione se questo era stato ripreso e completato entro e non oltre quindici giorni dalla notizia dell'esito negativo del primo tentativo.

E ciò perché “la legge, infatti, non ha ritenuto di dover regolare le condizioni di validità della reiterazione di una notifica fuori termine in conseguenza dell'incolpevole mancato perfezionamento della prima (tempestiva); per cui assume rilievo decisivo la circostanza che la sentenza della Corte dei Conti rimane nel perimetro dell'attività interpretativa e non può dare luogo, pertanto, a responsabilità civile dei magistrati contabili, tanto più che la seconda pronuncia delle Sezioni Unite era del 2016, per cui la Corte dei conti, celebrando il giudizio di appello a maggio 2018, era ragionevolmente in diritto di ritenere la questione almeno opinabile, richiamando l'orientamento del 2009” (Cass. civ., sez. III, 15 novembre 2023 n. 31837).

Quanto appena detto, necessita di una indispensabile precisazione quando questi principi debbono applicarsi alla responsabilità dell'arbitro privato.

L'art. 813-ter c.p.c., infatti, subordina l'azione di responsabilità ad una “condizione di proponibilità”.

Questa azione – fatta eccezione per il caso in cui l'arbitro sia stato dichiarato decaduto per avere omesso o ritardato atti dovuti con dolo o colpa grave ovvero abbia rinunciato all'incarico senza un giustificato motivo, che ammette il giudizio di responsabilità anche in pendenza del giudizio arbitrale – può essere proposta dopo che è stato pronunciato il lodo e che questo sia stato impugnato e sia stato annullato con sentenza passata in giudicato, ma soltanto per i medesimi motivi per cui l'impugnazione è stata accolta.

Orbene, l'art. 829 c.p.c. non contempla anche la violazione della legge tra i casi tipici (nel senso che sono stati espressamente previsti dal legislatore) di nullità del lodo suscettibili di essere fatti valere con il rimedio dell'impugnazione, che è ammessa solo se espressamente previsto dalle parti o dalla legge (tra i casi ammessi dalla legge, pare opportuno richiamare l'art. 838 quater in materia di arbitrato societario recentemente introdotto dalla Riforma Cartabia).

Sicché, se la clausola arbitrale prevede la impugnazione del lodo anche per violazione delle regole del diritto, si potrà astrattamente parlare di responsabilità dell'arbitro derivante dalla interpretazione della legge; in difetto, e stante la condizione di proponibilità stabilita dall'art. 813-ter c.p.c., non si potrà configurare questa particolare fattispecie di responsabilità.

La colpa grave nella valutazione del fatto e delle prove

Diversa sarà la regola se invece la colpa grave dell'arbitro è consistita nella erronea valutazione del fatto.

Infatti, sebbene l'art. 2 della legge n. 117/1988 preveda, tra le ipotesi di responsabilità civile del magistrato, la colpa grave consistente nella affermazione di un fatto la cui esistenza è incontestabilmente esclusa dagli atti del procedimento ovvero nella negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrovertibilmente dagli atti del procedimento – che altro non sono i motivi per cui una sentenza non più appellabile può essere impugnata per revocazione ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c.  – l'erronea valutazione del fatto, anche quando essa si sostanzi nella affermazione di un fatto inesistente o nella negazione di un fatto esistente, non dovrebbe esporre l'arbitro (a differenza del giudice statale) al giudizio di responsabilità perché non sarebbe soddisfatta la condizione di proponibilità della azione.

Il lodo, invero, non sarebbe impugnabile per questi motivi, neppure per revocazione stante il tenore dell'art. 831 c.p.c. che non richiama l'ipotesi di cui al n. 4 della norma in esame, e dunque non sarebbe soddisfatto il presupposto del passaggio in giudicato della sentenza di appello che ha dichiarato nullo il lodo arbitrale.

Sarebbe una conseguenza per certi versi paradossale che però trova valido appiglio nella vigente normativa e soprattutto nell'art. 829 c.p.c. che, elencando i casi di nullità del lodo, sottrarrebbe al rimedio dell'appello il lodo fondato sull'errore in punto di fatto, a meno che non si voglia individuare il presupposto del giudizio di impugnazione nel vizio di cui al n. 9 del primo comma dell'art. 829 c.p.c., ossia quando il lodo contiene disposizioni contraddittorie.

Quanto invece alla ulteriore ipotesi di travisamento delle prove, una lettura restrittiva dei casi di nullità elencati dall'art. 829 c.p.c. dovrebbe parimenti portare a concludere per la esclusione della possibilità di configurare una responsabilità dell'arbitro che abbia deciso travisando le emergenze istruttorie.

Quindi, e volendo tirare le prime conclusioni, sarà censurabile l'errore commesso con colpa grave dall'arbitro nella attività di interpretazione della legge nei limiti – ristretti – definiti dall'art. 2 commi 2 e 3 della legge n. 117/1988 se e quando la violazione di legge sia stata dedotta – in quanto vizio espressamente previsto dalle parti nella clausola compromissoria o dalla legge – quale motivo di nullità del lodo ed il giudice dell'appello abbia accolto il gravame ritenendo fondato il motivo con sentenza passata in giudicata.

Ovviamente, è appena il caso di aggiungere, laddove il travisamento del fatto o delle prove sia doloso, a me pare che la responsabilità dell'arbitro sia sempre configurabile perché dovrebbe ritenersi senz'altro soddisfatta la condizione di proponibilità prevista dall'art. 813 ter comma 4.

Invero, laddove la disposizione subordina l'azione di responsabilità all'accoglimento dell'impugnazione con sentenza passata in giudicato per i motivi per cui l'impugnazione è stata accolta, non vi è motivo di ritenere che il legislatore abbia voluto fare riferimento solo alla sentenza resa nel giudizio di impugnazione del lodo per nullità ex art. 829 c.p.c. e non anche alla ipotesi di impugnazione del lodo per revocazione ex art. 831 c.p.c., che tra i casi di revocazione del lodo non menziona il n. 4 dell'art. 395 c.p.c. ( revocazione per errore sul fatto) ma richiama il n. 6 dell'art. 395 c.p.c., che ammette la revocazione della sentenza (in questo caso del lodo) che sia effetto del dolo del giudice (in questo caso, dell'arbitro).

I casi tipici di responsabilità 

Passando adesso a trattare le ipotesi tipiche di responsabilità dell'arbitro, e cioè quelle contemplate dal comma 1 dell'art. 813-ter c.p.c., occorre immediatamente avvertire che la applicazione di questa disposizione è fortemente condizionata dal suo coordinamento con altre disposizioni del codice di rito di volta in volta chiamate in causa.

Tanto premesso, a mente dell'art. 813-ter, comma 1, c.p.c., risponde dei danni cagionati alle parti l'arbitro che: 1) con dolo o colpa grave ha omesso o ritardato atti dovuti ed è stato perciò dichiarato decaduto ovvero ha rinunciato all'incarico senza giustificato motivo; 2) con dolo o colpa grave ha omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine fissato a norma degli artt. 820 o 826 c.p.c..

LA PRIMA IPOTESI TIPICA DI RESPONSABILITA'

La fattispecie delineata dall'art. 813-ter, comma 1, n. 1, c.p.c. in effetti individua due distinte ipotesi di responsabilità: invero sanziona l'inerzia dell'arbitro, che ritarda o omette atti dovuti, e la decisione dell'arbitro di rinunciare all'incarico.

Le due ipotesi sono accomunate dal fatto che sono le uniche in cui la azione di responsabilità può essere promossa anche in pendenza del giudizio arbitrale e non occorre attendere l'esito della eventuale impugnazione del lodo.

La ragione è abbastanza intuibile: solo nel caso in cui l'arbitro è stato sollevato dalle funzioni, l'azione di responsabilità non ne può più condizionare l'operato e la libertà di giudizio; viceversa, in tutti gli altri casi il legislatore ha voluto opportunamente garantire il regolare svolgimento della procedura arbitrale mettendo l'arbitro al riparo da ogni tipo di condizionamento psicologico che la pendenza del giudizio di responsabilità certamente eserciterebbe.

Prima ipotesi: l'arbitro che con dolo o colpa grave omette o ritarda atti dovuti

Si tratta di casi assai rari che vengono in evidenza quando l'arbitro rimane inerte o addirittura tiene un atteggiamento ostruzionistico.

In via meramente esemplificativa, si può ravvisare la omissione o il ritardo di atti dovuti quando: a) la clausola compromissoria prevede la deliberazione in conferenza personale ovvero questa è richiesta da uno degli arbitri ed uno dei componenti del collegio arbitrale diserta ripetutamente la riunione, b) l'arbitro omette o ritarda di esprimere il proprio voto, impedendo così la deliberazione che è a maggioranza ma con la partecipazione di tutti gli arbitri; c) l'arbitro non trasmette il lodo entro dieci giorni dalla sottoscrizione; d) l'arbitro non esprime o esprime con ritardo il suo assenso (necessario al pari di quello delle altre parti e del terzo) all'intervento volontario di un terzo o alla chiamata in arbitrato, quando si esuli da una ipotesi di litisconsorzio necessario; d) l'arbitro, se le parti hanno stabilito le norme da osservare nel procedimento ovvero se ciò è stabilito dalla convenzione di arbitrato, omette di adottare gli atti di sua competenza nei termini previsti dalle regole del procedimento.

Ma non sarebbe sufficiente il mero ritardo o la omissione affinché l'arbitro possa essere chiamato a rispondere del suo “inadempimento”.

Occorre, infatti, che il comportamento omissivo sia stato accertato all'esito di un procedimento – disciplinato dall'art. 813-bis c.p.c. – che si sia concluso con la dichiarazione di decadenza dell'arbitro.

La norma in esame, tuttavia, solleva qualche problema interpretativo.

L'azione di responsabilità, infatti, sembrerebbe essere subordinata alla preventiva decadenza dell'arbitro, che può essere pronunciata dal presidente del Tribunale che sia stato adito da una delle parti del procedimento arbitrale quando l'arbitro non sia stato sostituito dalle parti di comune accordo o dal terzo a ciò incaricato dalla convenzione di arbitrato.

Stabilisce invero l'art. 813-bis c.p.c. che, in mancanza di accordo delle parti sulla sostituzione dell'arbitro, quest'ultimo deve essere diffidato al compimento dell'atto entro quindici giorni dal ricevimento della detta diffida.

Spirato inutilmente il termine assegnato, ciascuna delle parti può ricorrere al presidente del Tribunale, che provvede con ordinanza non impugnabile e dichiara decaduto l'arbitro, contestualmente sostituendolo, se accerta la omissione o la decadenza.

Vi è da chiedersi, a questo punto se possa essere avviata l'azione di responsabilità anche quando l'arbitro non sia stato dichiarato decaduto per avere omesso o ritardato un atto dovuto, ma sia stato sostituito dalle parti di comune accordo.

La formulazione letterale dell'art. 813-ter c.p.c., laddove richiede che l'arbitro sia stato dichiarato decaduto, sembrerebbe presupporre la formale decadenza all'esito del procedimento disciplinato dall'art. 813-bis e che dunque in assenza di ciò l'azione di responsabilità sarebbe preclusa.

Tuttavia, poiché la responsabilità dell'arbitro discende dalla mera omissione e/o ritardo e poiché, peraltro, la procedura ex art. 813-bis c.p.c. è meramente eventuale, dovendosi attivare solo se non vi è accordo delle parti alla sostituzione del giudice privato, sembrerebbe irragionevole una interpretazione letterale e restrittiva dell'art. 813-ter c.p.c.  che precluda l'azione di responsabilità quando il ritardo e/o la omissione sono stati “attestati” dalla comune volontà delle parti.

Offre un ulteriore argomento alla tesi meno restrittiva anche l'oggetto del procedimento strumentale dalla decadenza dell'arbitro, essendo sottratta al presidente del Tribunale ogni valutazione sulla sussistenza del dolo e/o della colpa, dovendo la decadenza ascriversi al mero fatto del ritardo, e comunque non potendo confluire nel giudizio di responsabilità l'eventuale accertamento dello stato soggettivo compiuto nel procedimento di decadenza: dunque, se il provvedimento di decadenza costituisce il mero presupposto ma non condiziona l'esito dell'azione di responsabilità, dovendosi accertare in tale sede anche se la omissione o il rifiuto sono stati conseguenze di un comportamento doloso o colposo, a me pare che debba ritenersi sufficiente, ai fini della proponibilità della relativa azione, che la omissione dell'atto dovuto sia stata constatata e che a tanto possa essere sufficiente la mera sostituzione dell'arbitro per comune accordo delle parti, senza che occorra necessariamente la dichiarazione di decadenza.

Seconda ipotesi: l'arbitro che ha rinunciato all'incarico senza giustificato motivo.

La fattispecie non richiede particolari sforzi esplicativi, esponendo a responsabilità l'arbitro che, dopo avere accettato l'incarico, vi rinuncia immotivatamente.

Occorre però capire quando la rinuncia dell'arbitro è lecita, ossia quando ricorre il giustificato motivo.

Si ha giustificato motivo, ed è dunque legittima la rinuncia dell'arbitro:

  • Quando sopravviene la incapacità di agire: l'art. 812 c.p.c., infatti, preclude la possibilità di essere arbitro a chi è privo, in tutto o in parte, della capacità legale di agire;
  • Quando sopravviene una malattia
  • Quando sopravviene un impegno incompatibile a cui non si possa rinunciare
  • Quando sopravviene una ipotesi di ricusazione
  • Quando gli arbitri non possono rispettare il termine per il deposito del lodo per fatto a loro non imputabile e le parti si rifiutano immotivatamente di prorogarlo
  • Quando è rimesso agli arbitri il potere di determinare le regole del procedimento e la lingua e le parti non usano la lingua dell'arbitrato
  • Quando sopravviene una modifica soggettiva che riguardi il collegio, le parti o i difensori e rispetto a questa novità l'arbitro accampa motivate ragioni ostative alla originaria accettazione dell'incarico qualora quella fosse stata sin dall'inizio la composizione del procedimento.

Ai casi appena indicati se ne aggiungono altri due che potremmo definire tipici, perché al verificarsi dei presupposti contemplati dalle norme è lo stesso legislatore che autorizza l'arbitro a rinunciare all'incarico, e cioè:

  • Quando le parti non anticipano le spese come determinate dall'arbitro: l'art. 816 septies c.p.c. prevede infatti che gli arbitri possono subordinare la prosecuzione dell'arbitrato al versamento delle spese prevedibili
  • Quando una delle parti viene a mancare e le altre parti non ottemperano alle disposizioni impartite dagli arbitri ai sensi dell'art. 816-sexies c.p.c. per la prosecuzione del giudizio arbitrale.

Mi pare opportuno soffermarmi brevemente anche su una ulteriore ipotesi di modificazione soggettiva delle parti, e cioè quella che sia la conseguenza dell'intervento volontario ovvero della chiamata di un terzo.

L'art. 816-quinquies c.p.c. disciplina sia l'intervento del terzo che la successione nel diritto controverso.

Stabilisce la norma in esame che l'intervento o la chiamata in arbitrato di un terzo sono ammessi solo con l'accordo delle parti e con il consenso degli arbitri; consenso che non è richiesto se il terzo interviene ai sensi del secondo comma dell'art. 105 c.p.c. (intervento adesivo dipendente) ovvero se è litisconsorte necessario.

Ebbene, laddove abbia dato il preventivo assenso, non sarebbe giustificato l'arbitro che successivamente rinunci all'incarico motivandolo con sopravvenute ragioni che, ad esempio, sarebbero state causa di ricusazione, qualora queste ragioni non potessero non essere conosciute nel momento in cui aveva espresso il consenso.

Ben diversa, invece, sarà la posizione dell'arbitro quando il mutamento soggettivo sia dipeso dall'intervento nel giudizio arbitrale di un litisconsorte necessario: invero, alla libertà di ingresso di un terzo nella procedura arbitrale dovrà corrispondere la libertà dell'arbitro di rinunciare all'incarico.

Prima di esaminare gli altri casi di responsabilità, pare opportuno chiedersi se nell'azione di responsabilità promossa ai sensi dell'art. 813 ter comma 1 n. 1 c.p.c. la legittimazione attiva spetti alla parte che, con la sua iniziativa, ha determinato la decadenza dell'arbitro ovvero anche a quella che è rimasta inerte.

Orbene, a me pare dal tenore letterale dell'art. 813-bis c.p.c. che si possa desumere che ciascuna delle parti sia legittimata a promuovere l'azione di responsabilità, a condizione – ovviamente – che quel fatto imputabile all'arbitro le abbia arrecato un danno.

Invero, anche nel caso di decadenza dichiarata dal presidente del Tribunale, la norma attribuisce il potere di attivazione del procedimento a “ciascuna delle parti” e non solo a quella che abbia preventivamente diffidato l'arbitro.

Tuttavia, questa conclusione potrebbe non essere così pacifica.

Stabilisce infatti l'art. 813 bis che ciascuna delle parti può proporre ricorso al presidente del Tribunale a norma del secondo comma dell'art. 810 c.p.c., il quale prevede che il presidente si sostituisce alla parte che, invitata a nominare il proprio arbitro, non vi abbia provveduto.

Il potere sostitutivo del presidente del tribunale, però, può essere attivato dalla parte che ha fatto l'invito: sicché, si potrebbe ritenere che anche nel caso di decadenza, essendo espressamente richiamato il secondo comma dell'art. 810 c.p.c., solo la parte che abbia diffidato l'arbitro sia legittimata a chiederne la decadenza e, conseguentemente, ad esperire la eventuale azione di responsabilità.

Se l'arbitro ha rinunciato all'incarico senza giustificato motivo, invece non dovrebbero esserci particolari problemi sulla legittimazione attiva, giacché ciascuna delle parti che da ciò abbia subito un pregiudizio potrebbe agire per fare affermare la responsabilità dell'arbitro.

LA SECONDA IPOTESI TIPICA DI RESPONSABILITA'

La fattispecie delineata dall'art. 813-ter, comma 1, n. 2, c.p.c. contempla invece il caso – certamente ben più frequente – di responsabilità dell'arbitro che con dolo o colpa grave “ha omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine fissato a norma degli art. 820 e 826 c.p.c.”, ossia – ed in breve – quando non ha rispettato il termine legale o convenzionale stabilito per la decisione (art. 820 c.p.c.) o quello legale per la correzione (art. 826 c.p.c.).

A differenza della responsabilità dell'arbitro che abbia omesso o ritardato un atto dovuto o abbia rinunciato all'incarico senza giustificato motivo, che a mente dell'art. 813 ter comma 1 n. 1 c.p.c. può essere proposta in pendenza del giudizio arbitrale, l'azione di responsabilità per inosservanza del termine ai sensi dell'art. 813-ter, comma 1, n. 2, presuppone: a) che il lodo sia stato pronunciato; b) che il lodo sia stato impugnato per il vizio di cui all'art. 829 comma 1 n. 6 c.p.c., e cioè per essere stato pronunciato dopo la scadenza del termine; c) che questo vizio abbia costituito oggetto dei motivi di impugnazione; d) che questo motivo di impugnazione sia stato accolto con sentenza passata in giudicato.

L'applicazione della disposizione in esame solleva non pochi problemi interpretativi.

Invero, non basterebbe  la mera inosservanza del termine  affinché il lodo possa essere impugnato ed essere conseguentemente annullato per questo vizio.

L'art. 829 comma 1 n. 6 c.p.c., infatti, fa salvo il disposto dell'art. 821 c.p.c., a mente del quale il decorso del termine non può essere fatto valere come causa di nullità del lodo se la parte, prima della deliberazione del lodo risultante dal dispositivo sottoscritto dalla maggioranza degli arbitri, non abbia notificato alle altre parti ed agli arbitri che intende fare valere la loro decadenza.

 Pertanto, in difetto della dichiarazione di cui all'art. 821 c.p.c., la eventuale e tardiva decisione sarà priva di concreta rilevanza, non potendo costituire fonte di responsabilità per l'arbitro.

Vi è da chiedersi a questo punto se tutte le parti siano legittimate a promuovere l'azione di responsabilità dell'arbitro ricorrendo questa ipotesi ovvero se sia legittimata solo quella che abbia dichiarato di voler fare valere la scadenza del termine.

Poiché la responsabilità dell'arbitro per inosservanza del termine è una fattispecie che potremmo definire a formazione “progressiva”, dovendosi ricavare la relativa disciplina dalla lettura combinata degli artt. 813-ter, 820,821 e 829 c.p.c., se ne dovrebbe dedurre che sia preclusa l'azione di responsabilità alla parte che abbia fatto acquiescenza non insorgendo contro la inosservanza del termine.

Vi è poi da approfondire un ulteriore aspetto.

L'art. 821 comma 2 c.p.c. stabilisce che gli arbitri, verificato il decorso del termine, dichiarano estinto il procedimento.

Orbene, se l'arbitro pronuncia ugualmente il lodo, la parte che abbia dichiarato di voler fare valere la inosservanza del termine potrà impugnarlo e potrà poi proporre l'azione di responsabilità, se accolta l'impugnazione con sentenza passata in giudicato.

Ma cosa accade se l'arbitro, in conformità all'art. 821, comma 2, si limita a dichiarare la estinzione del procedimento?

In tal caso, astrattamente non vi sarebbe un lodo pronunciato fuori termine ma, semmai, un provvedimento che abbia preso atto della impossibilità che il procedimento arbitrale si concluda con la pronuncia di un lodo.

Si potrebbe dunque ritenere che in assenza del lodo non si possa configurare la responsabilità dell'arbitro perché la parte che ha denunciato la inosservanza del termine non potrebbe fare valere la nullità di cui all'art. 829 comma 1 n. 6 c.p.c., che la pronuncia di un lodo richiede sempre.

In realtà credo che si tratti di un falso problema perché l'arbitro che dichiara estinto il procedimento arbitrale dovrà pur sempre pronunciare un lodo che non decide il merito della controversia, e cioè un provvedimento che sarà suscettibile di essere impugnato per nullità ai sensi dell'art. 829, comma 1, n. 10, c.p.c., ossia quando “il lodo conclude il procedimento senza decidere il merito della controversia e il merito della controversia dovrà essere deciso dagli arbitri”.

Vi è semmai un altro aspetto che merita maggiore approfondimento.

Si è visto che l'art. 813-ter, comma 1, n. 2, c.p.c. prevede la responsabilità dell'arbitro che abbia omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine fissato anche a norma dell'art. 826, che disciplina la correzione e che assegna all'arbitro il termine di giorni sessanta per provvedere sulla istanza di correzione.

Come la inosservanza di questo termine, che peraltro ammette il ricorso al Tribunale nel cui circondario ha sede l'arbitrato, si possa coordinare con la condizione di proponibilità dell'azione di responsabilità prevista dal quarto comma dell'art. 813 ter c.p.c., e cioè che la detta azione possa essere proposta solo dopo che è passata in giudicato la sentenza che ha accolto l'impugnazione ed unicamente per i motivi per cui l'impugnazione è stata accolta, non è agevole.

In linea di principio, infatti, sarà assai difficile che questo presupposto, nel caso di inosservanza del termine per la correzione del lodo, sia soddisfatto.

L'unica opzione possibile – a me pare – è quella di ritenere indispensabile la impugnazione delle parti corrette del lodo, che a mente dell'art. 828, comma 3, c.p.c. è sempre consentita nei termini di legge decorrenti dalla comunicazione dell'atto di correzione.

Temo, tuttavia, che difficilmente si potrà dedurre, quale vizio di nullità, la inosservanza del termine in questione per la difficoltà di individuarlo tra una delle cause di nullità tassativamente menzionate dall'art. 829 c.p.c.

L'unica ipotesi che più si avvicina è quella prevista dal n. 6 del comma 1 dell'art. 829 c.p.c., interpretando in senso estensivo la locuzione “se il lodo è stato pronunciato dopo la scadenza del termine stabilito”.

Si potrebbe sostenere, infatti, che il legislatore abbia voluto fare riferimento anche al termine previsto per la correzione del lodo, oltre che al termine previsto per la pronuncia del lodo, con la precisazione che la norma, quando fa “salvo il disposto dell'art. 821”,  abbia voluto dire che – limitatamente alla inosservanza del termine previsto per la pronuncia del lodo – debba essere anche soddisfatta la ulteriore condizione rappresentata dalla dichiarazione, prima della scadenza del detto termine, della volontà di fare valere la decadenza, ma che analoga condizione non è richiesta se il termine violato è quello previsto per la correzione del lodo.

In ogni caso, poiché l'art. 826 c.p.c. prevede – quale rimedio ove l'arbitro non provveda – l'istanza al Tribunale, si dovrebbe ritenere – aderendo alla interpretazione più estensiva della norma – che è pur sempre indispensabile l'attivazione del rimedio giudiziario, ossia che – spirato inutilmente il termine – la parte abbia adito il Tribunale e che il lodo sia stato corretto con provvedimento dell'autorità giudiziaria. 

Gli ulteriori casi di responsabilità 

Si è già avuto modo di chiarire che il secondo comma dell'art. 813-ter c.p.c. stabilisce una regola di carattere generale quando statuisce che “fuori dai precedenti casi, gli arbitri rispondono esclusivamente per dolo o colpa grave entro i limiti” della L. 117/1988”.

I precedenti casi sono quelli della decadenza o della rinuncia all'incarico e della inosservanza del termine.

Ma poiché molte altre sono le ipotesi di nullità del lodo prese in esame dall'art. 829 c.p.c. che possono determinarne la riforma in appello con sentenza passata in giudicato, ivi inclusa la violazione delle regole di diritto se espressamente disposta dalle parti o dalla legge, il secondo comma della norma in esame ammette che l'arbitro possa essere chiamato a rispondere di quegli  atti che siano stati causa di nullità del lodo a condizione che quella “nullità” gli sia imputabile a titolo di dolo o colpa grave e sempre, ove la nullità derivi dalla violazione della legge, nei limiti ancora più ristrettii stabiliti dall'art. 2 commi 2 e 3 della legge n. 117/1988.

LA NULLITÀ DEL LODO PER CAUSE DI RICUSAZIONE

Tra le diverse ipotesi di nullità previste dall'art. 829 c.p.c. ve ne è una sulla quale appare opportuno soffermarsi, anche perché recentemente è stata indirettamente interessata dalla Riforma Cartabia.

Invero, ai sensi dell'art. 829 comma 1 n. 2 c.p.c., l'impugnazione per nullità è ammessa “se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi prescritti nei Capi II e VI del presente titolo”.

Sono inserite nel Capo II le norme che disciplinano la nomina degli arbitri (artt. 809 ed 810 c.p.c.), la loro sostituzione (art. 811 c.p.c.), la capacità di essere arbitro (art. 812 c.p.c.), l'accettazione e la decadenza degli arbitri (artt. 813 e 813-bis c.p.c.), i diritti degli arbitri (art. 814 c.p.c.) e la ricusazione degli arbitri (art. 815 c.p.c.).

Uno dei motivi più frequenti di impugnazione del lodo attiene alla sussistenza di cause di ricusazione dell'arbitro che ne minano la indipendenza e la imparzialità.

Ebbene, l'art. 815 c.p.c. è una delle due disposizioni modificate dalla riforma Cartabia, mentre l'altra è l'art. 813 c.p.c.

A mente del novellato art. 813 c.p.c., l'accettazione degli arbitri “è accompagnata, a pena di nullità, da una dichiarazione nella quale è indicata ogni circostanza rilevante ai sensi dell'art. 815 c.p.c. primo comma ovvero la relativa insussistenza. L'arbitro deve rinnovare la dichiarazione in presenza di circostanze sopravvenute. In caso di omessa dichiarazione o di omessa indicazione di circostanze che legittimano la ricusazione, la parte può chiedere, entro dieci giorni dalla accettazione o dalla scoperta delle circostanze, la decadenza dell'arbitro nei modi e con le forme di cui all'art. 813-bis c.p.c.”.

L'art. 815 c.p.c., invece, è stato modificato con l'inserimento – tra i casi di ricusazione – di una nuova ipotesi: se sussistono altre gravi ragioni di convenienza, tali da incidere sulla indipendenza o sulla imparzialità dell'arbitro (art. 815 comma 1 n. 6 bis).

Prima delle novità introdotte dalla riforma Cartabia, l'arbitro non era obbligato a dichiarare la esistenza di cause di ricusazione.

Un obbligo di tal natura si rinveniva (e si rinviene) nei regolamenti di alcune camere arbitrali e nel codice deontologico forense, il cui art. 61 stabilisce che l'avvocato – che sia stato nominato arbitro – “deve comunicare per iscritto alle parti ogni ulteriore circostanza di fatto ed ogni rapporto con i difensori che possono incidere sulla sua indipendenza, al fine di ottenere il consenso delle parti stesse all'espletamento dell'incarico”.

Ma – appunto – non esisteva, prima delle novità introdotte dalla riforma Cartabia, un obbligo di tale natura e tanto meno la inosservanza di questa preventiva comunicazione poteva riflettersi sulla validità del lodo, se non nei limiti in cui fosse esistente la causa di ricusazione e l'arbitro avesse ugualmente accettato l'incarico.

 Quindi, prima delle novità legislative l'arbitro poteva essere ricusato all'esito di un procedimento – disciplinato dall'art. 815 c.p.c. – attivato dalla parte che non aveva nominato o contribuito a nominare l'arbitro (salvo il caso di motivi conosciuti successivamente), la quale poteva ricorrere al presidente del Tribunale entro il termine perentorio di giorni dieci dalla notificazione della nomina o dalla conoscenza della causa di ricusazione.

Il ricorso non sospendeva il procedimento arbitrale ma la ordinanza di accoglimento, non impugnabile, determinava la inefficacia di tutta la attività compiuta dall'arbitro ricusato o con il suo concorso.

Le cause di ricusazione erano quelle esattamente individuate dall'art. 815 c.p.c., e cioè quando l'arbitro: a) non ha le qualifiche espressamente convenute dalle parti; b) ha un interesse – anche indiretto nella causa; c) è parente fino al quarto grado o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di un difensore; d) ha grave inimicizia con una delle parti o con un difensore; e) ha un rapporto di lavoro subordinato o continuativo di consulenza o altro rapporto di natura patrimoniale o associativa con una delle parti; f) è tutore o curatore di una delle parti; g) ha prestato consulenza o assistenza ad una delle parti in una precedente fase della vicenda o è stato sentito come testimone.

Il lodo pronunciato da un arbitro per il quale esisteva una causa di ricusazione era suscettibile di impugnazione ai sensi dell'art. 829 comma 1 n. 2 c.p.c., a condizione che la causa di nullità fosse stata dedotta nel giudizio arbitrale.

Conseguentemente, la nullità del lodo - perché pronunciato da arbitro per il quale sussisteva una causa di ricusazione - era preclusa se la parte che vi aveva interesse non aveva proposto ricorso al presidente del Tribunale nel termine perentorio previsto dalla legge.

Questo principio si ricavava dalla lettura dell'art. 829, comma 1, n. 2, c.p.c., che prevedeva espressamente la necessità che la nullità fosse stata dedotta nel giudizio arbitrale: e poiché – se sussistente una causa di ricusazione – il rimedio era costituito esclusivamente dal ricorso al presidente del Tribunale, la omessa attivazione di questa procedura avrebbe sbarrato la strada alla successiva impugnazione del lodo per questo motivo (in tal senso Corte appello L'Aquila 27 febbraio 2020 n. 340).

Se l'istanza era rigettata, la parte che aveva chiesto la ricusazione dell'arbitro poteva impugnare il lodo lamentando una causa di nullità e chiedendo al Giudice dell'appello di riesaminare la questione (Cass. civ., sez. I, 15 novembre 2010, n. 23056; Cass. civ., sez. I, 13 ottobre 2015, n. 20558 e, ancora più recentemente, Cass. civ., sez. I, 26 giugno 2023, n. 18220) e quindi, se accolto il gravame, poteva promuovere l'azione di responsabilità nei confronti dell'arbitro la cui decisione fosse stata annullata, con sentenza passata in giudicato, per la accertata sussistenza di una ipotesi di ricusazione, dovendo ritenersi soddisfatta la condizione di proponibilità stabilita dal quarto comma dell'art. 813-ter c.p.c.

Se l'istanza era accolta, la parte – qualora nelle more della decisione del presidente il lodo fosse stato pronunciato – avrebbe dovuto ugualmente impugnarlo per farne dichiarare la nullità.

La riforma Cartabia non ha modificato l'assetto normativo appena compendiato, che dunque rimane inalterato, ma ha introdotto una nuova ipotesi di nullità inserendola – in maniera eccentrica rispetto alla elencazione tassativa dell'art. 829 c.p.c. – nell'art. 813 c.p.c., che invece disciplina la accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro.

In effetti – ed a ben vedere – il legislatore non avrebbe introdotto una nuova ipotesi di invalidità perché la nullità di cui al novellato art. 813 c.p.c. sembrerebbe attingere l'atto di accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro e non il lodo, che tuttavia sarebbe impugnabile non più e non solo quando la causa di ricusazione, ai sensi dell'art. 815 c.p.c., è stata denunciata al presidente del Tribunale, ma anche quando l'arbitro abbia omesso di dichiarare la esistenza o inesistenza di circostanze rilevanti ai fini della ricusazione oppure abbia omesso di indicare una delle dette circostanze.

Tuttavia, perché la omissione dell'arbitro si traduca in un vizio del lodo pronunciato dal medesimo arbitro censurabile attraverso il rimedio della sua impugnazione, è indispensabile che la parte richieda – entro dieci giorni dall'accettazione o dalla scoperta delle circostanze omesse – la decadenza dell'arbitro nei modi e con le forme prescritte dall'art. 813-bis c.p.c.

Ancora una volta, se l'istanza è accolta ma nel frattempo il giudice ha pronunciato il lodo ovvero se l'istanza è rigettata, la parte che ha attivato il procedimento per fare dichiarare la decadenza potrà dedurre la nullità del lodo e, all'esito favorevole della impugnazione con sentenza passata in giudicato, promuovere l'azione di responsabilità nei confronti dell'arbitro ricusato.

Occorre a questo punto capire come si coordinano il novellato art. 813 c.p.c. (che postula come rimedio l'istanza al presidente del Tribunale ai sensi dell'art. 813 bis c.p.c.) e l'art. 815 c.p.c., che invece continua a regolare la ricusazione dell'arbitro e prevede un procedimento ad hoc.

In realtà le due norme sembrerebbero operare su piani diversi.

Prima della disclosure e quindi prima della accettazione dell'incarico, quando la causa di ricusazione è nota alla parte al momento della notificazione della nomina dell'arbitro, si applicherà l'art. 815 c.p.c.

Al momento della accettazione dell'incarico e quando la disclosure manchi del tutto oppure sia “infedele”, si applicherà l'art. 813 c.p.c.

Alla accettazione dell'incarico ed all'esito della disclosure, qualora questa disveli una causa di ricusazione, si applicherà l'art. 815 c.p.c.

Più problematico sembrerebbe il coordinamento tra le due norme quando la disclosure è infedele e le parti abbiano conoscenza di una causa di ricusazione successivamente.

In tal caso, a mente dell'art. 813 c.p.c., la parte deve richiedere la decadenza dell'arbitro ai sensi dell'art. 813-bis c.p.c. entro dieci giorni dalla scoperta della circostanza taciuta.

Ma questa ipotesi sarebbe regolata anche dall'art. 815 c.p.c., il quale prevede il rimedio della ricusazione mediante ricorso al presidente del Tribunale entro dieci giorni dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione.

Sarebbe quindi auspicabile che in sede di correttivo questa incongruenza fosse risolta mediante un migliore coordinamento delle due norme.

E ciò anche perché vi è una differenza sostanziale tra le due disposizioni in esame, che non è priva di conseguenze pratiche.

A mente dell'art. 813 c.p.c., qualora la parte – successivamente alla disclosure – abbia notizia di circostanze che avrebbero costituito motivo di ricusazione dell'arbitro, può chiederne la decadenza ai sensi e nelle forme prescritte dall'art. 813 bis c.p.c.

Il presidente del Tribunale, adito ai sensi dell'art. 813-bis c.p.c., se accoglie l'istanza, dichiara la decadenza e provvede alla sua sostituzione.

Il procedimento disciplinato dall'art. 815 c.p.c., invece, non prevede affatto la sostituzione dell'arbitro ricusato: il presidente del Tribunale, se accoglie l'istanza, deve – con ordinanza non impugnabile – affermare la sussistenza della causa di ricusazione ma non può nominare un sostituto, essendo riservato questo potere alle parti in conformità a quanto prescrive la convenzione di arbitrato ovvero in conformità all'art. 811 c.p.c.

Non ci possiamo congedare dall'argomento senza soffermarci sull'altra modifica introdotta dalla riforma Cartabia in materia di arbitrato.

Come detto, il legislatore ha infatti introdotto una nuova causa di ricusazione, e cioè quando “sussistono altre gravi ragioni di convenienza, tali da incidere sull'indipendenza o sull'imparzialità dell'arbitro”.

La necessità di incoraggiare il ricorso al procedimento arbitrale, rafforzando le garanzie di indipendenza ed imparzialità del giudice privato, ha spinto il legislatore ad inserire una clausola di chiusura che permetta di volta in volta una valutazione in concreto di eventuali cause di ricusazione che la originaria e tassativa elencazione dell'art. 815 c.p.c. aveva sottratto al rimedio previsto dalla norma.

Tuttavia, occorrerà capire come sarà interpretata la novella legislativa e cosa si intenderà per “gravi ragioni di convenienza”, dovendo tenersi ben presente che l'indipendenza di giudizio dell'arbitro è un valore da tutelare anche rispetto a strumentali istanze di ricusazione che potrebbero essere favorite dalla formulazione forse troppo generica della norma in esame.

Problemi di coordinamento tra il giudizio di impugnazione del lodo ed il giudizio di responsabilità dell'arbitro

Si è detto che, per promuovere l'azione di responsabilità nei confronti dell'arbitro, la parte dovrà prima impugnare il lodo ai sensi dell'art. 829 c.p.c. e solo all'esito dell'annullamento con sentenza passata in giudicato potrà intraprendere la azione risarcitoria, se il lodo è stato dichiarato nullo per lo stesso motivo per il quale si deduce la responsabilità dell'arbitro.

Quindi si pongono delicati problemi di coordinamento tra i due giudizi, quello avente ad oggetto l'impugnazione del lodo e quello, successivo ed eventuale, avente ad oggetto l'azione di responsabilità nei confronti dell'arbitro.

Nel giudizio d'appello, infatti, rimarrà estraneo l'arbitro, che quindi non potrà vedere pregiudicata la sua posizione da un accertamento, la nullità del lodo per uno dei motivi previsti dall'art. 829 c.p.c., avvenuto in sua assenza.

Di conseguenza, nell'azione di responsabilità il giudice sarà chiamato nuovamente a valutare i fatti, ben potendo accadere che l'arbitro sia “assolto” qualora offra elementi che permettano di escluderne il dolo o la colpa grave.

Né potrà sostenersi che la sentenza d'appello, che sia divenuta definitiva, possa avere gli effetti del giudicato esterno sulla vicenda processuale che involge la responsabilità dell'arbitro, a ciò ostandovi la rigida giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale “il giudicato esterno opera soltanto entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell'azione, presupponendo che soggetti, petitum e causa petendi siano comuni alla causa anteriore e a quella successivamente intrapresa” mentre “la mera identità delle questioni giuridiche o dei fatti da esaminare non crea alcun vincolo a carico del giudice investito del secondo giudizio – non applicandosi la regola dello stare decisis – ma è al più suscettibile di venire in considerazione ai fini della condivisione delle argomentazioni svolte nella precedente sentenza, nella misura in cui le stesse appaiano pertinenti anche alla fattispecie oggetto del nuovo giudizio e risultino dotate di efficacia persuasiva tale da giustificare l'adesione ad esse” (Cass. civ., sez. I, 4 gennaio 2024 n. 211).

E poiché tra il giudizio per la impugnazione del lodo e quello per la responsabilità dell'arbitro non vi è identità di soggetti e neppure - a ben vedere – identità di petitum, è da escludere che il giudice della seconda azione possa ritenersi vincolato dalla decisione della Corte di appello.

Vi è da aggiungere solo che l'accertamento della nullità del lodo con sentenza passata in giudicata costituirà unicamente un presupposto processuale in difetto del quale il giudizio di responsabilità non potrà pervenire ad una statuizione nel merito, ma dovrà essere definito con una pronuncia in rito che ne dichiari la inammissibilità.

Il danno e il limite al risarcimento

Se accertata la responsabilità, l'arbitro sarà obbligato a risarcire il danno.

La relativa azione non differisce da una qualsivoglia azione di danni e sarà dunque preciso onere di chi lamenta un pregiudizio allegarlo e dimostrarlo ai sensi dell'art. 1223 c.c.

Non potrà darsi luogo a risarcimento, pertanto, se l'inerzia dell'arbitro, la sua ingiustificata rinuncia all'incarico e, più in generale, le decisioni prese nell'esercizio delle sue funzioni, pur essendo state oggetto di gravame accolto con conseguente annullamento del lodo, saranno state “inoffensive”, ossia se ad esse non è conseguito un danno ingiusto.

Ma – se soddisfatto il nesso di causalità giuridica – l'ammontare del risarcimento potrà essere commisurato al danno effettivamente subito dalla parte solo se l'arbitro ha agito con dolo; se invece ne sarà affermata la responsabilità per colpa grave, a mente del quinto comma dell'art. 813-ter c.p.c. “la misura del risarcimento non può superare una somma pari al triplo del compenso convenuto o, in mancanza di determinazione convenzionale, pari al triplo del compenso previsto dalla tariffa applicabile”.

La prima parte della disposizione non crea particolari problemi, perché in tal caso il riferimento monetario sarà quello che le parti e l'arbitro hanno pattuito e su quella base dovrà essere applicato il moltiplicatore, costituendo il triplo del compenso il “massimale” entro il quale dovrà essere mantenuto l'obbligo risarcitorio dell'arbitro.

Qualche problema potrebbe creare la eventuale assenza di accordo sul compenso qualora le tariffe prevedessero un compenso minimo ed uno massimo.

Non è così per le tariffe forensi, però, che stabiliscono un valore medio, che sarà quello da prendere in considerazione al fine di determinare l'ammontare massimo del risarcimento.

Potrebbe anche accedere che, in pendenza del giudizio avente ad oggetto l'impugnazione del lodo, l'arbitro richieda il pagamento del compenso.

Se questo non è stato preventivamente pattuito ovvero quando il compenso è stato determinato dal medesimo arbitro ai sensi dell'art. 814, comma 2, c.p.c. ma non accettato dalle parti, la legge prevede che l'onorario, su ricorso dell'arbitro e sentite le parti, è liquidato dal presidente del Tribunale con ordinanza che è titolo esecutivo.

Ci si è chiesti se in questa sede possa contestarsi il diritto dell'arbitro alla liquidazione del compenso adducendo la responsabilità del predetto per motivi che sono oggetto del pendente giudizio di impugnazione del lodo.

Ciò perché il sesto comma dell'art. 813-ter c.p.c. stabilisce che, in caso di responsabilità, all'arbitro non spetta né il compenso né il rimborso delle spese e che, nel caso di nullità parziale del lodo, tanto l'uno quanto le altre sono soggetti a riduzione.

Al riguardo si è più volte pronunciata la Cassazione, la quale ancora recentemente ha affermato che “il diritto dell'arbitro di ricevere il pagamento dell'onorario sorge per il fatto di avere effettivamente espletato l'incarico, senza che, nella sommaria procedura di liquidazione apprestata dall'art. 814 c.p.c., esperibile allorché il lodo sia stato pronunciato, al presidente del Tribunale sia consentita alcuna indagine sulla validità del compromesso e del lodo e sulla regolarità della nomina degli arbitri, materie comprese nella previsione dell'art. 829 c.p.c. e riservate alla cognizione del giudice dell'impugnazione indicato dal precedente art. 828 c.p.c.” (Cass. civ., sez. I, 7 agosto 2019 n. 21058; Cass. civ., sez. VI, 13 giugno 2018 n. 15420; Cass. Civ., Sez. VI, 7 settembre 2012 n. 15051), con la ulteriore conseguenza che “non sussistono, pertanto, i presupposti della sospensione, ex art. 295 o 337 c.p.c., del procedimento instaurato dall'arbitro per ottenere il residuo compenso, già liquidato, in attesa della definizione del giudizio di impugnazione, la cui eventuale nullità può giustificare solo un'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 813-bis c.p.c.” (Cass. civ., sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 24072).

In definitiva, l'arbitro avrà diritto alla liquidazione del compenso ed al pagamento e la eventuale restituzione di quanto percepito dipenderà non già dalla pronuncia del giudice dell'appello che abbia dichiarato nullo il lodo (giudizio nel quale l'arbitro non ha partecipato), bensì dall'esito della azione di responsabilità che, dopo il passaggio in giudicato della suddetta sentenza, la parte abbia promosso.

La legittimazione attiva nell'azione di responsabilità

Sembrerebbe, nel silenzio della legge, che legittimata a promuovere l'azione di responsabilità sia la parte che ha dedotto il vizio nei modi e nei tempi prescritti dal codice di rito e che successivamente abbia impugnato il lodo con esito favorevole.

Ciò perché apparirebbe contraddittorio riconoscere la detta legittimazione anche alla parte che non abbia avuto ragione di dolersi della invalidità del lodo in quanto inficiato da uno dei vizi previsti dall'art. 829 c.p.c.

Questa tesi sembrerebbe essere rafforzata da una ulteriore previsione normativa: ai sensi del secondo comma dell'art. 829 c.p.c., la parte che ha dato causa a un motivo di nullità, o vi ha rinunciato, o che non ha eccepito nella prima istanza o difesa successiva la violazione di una regola che disciplina lo svolgimento del procedimento arbitrale, non può per questo motivo impugnare il lodo.

Plurime ragioni sembrano convergere quindi a favore della tesi che riserva l'azione di responsabilità alla sola parte che ha assunto l'iniziativa, avendone diritto, di impugnare il lodo per farne dichiarare la nullità.

Tuttavia, questa tesi mal si concilia con quanto stabilito dal comma sesto dell'art. 813-ter c.p.c., laddove la norma nega il diritto dell'arbitro al compenso ed alle spese nei casi di responsabilità.

Invero, poiché a mente dell'art. 814 c.p.c. tutte le parti sono solidalmente obbligate al pagamento, salva rivalsa tra loro, se si aderisse alla tesi che preclude l'azione di responsabilità a colui il quale  non abbia impugnato il lodo si avrebbe che in quella sede – l'unica deputata non solo ad accertare la responsabilità ma anche il consequenziale obbligo dell'arbitro, che nelle more lo abbia percepito, alla restituzione del compenso – l'arbitro potrebbe essere condannato alla restituzione non dell'intero corrispettivo ma solo di una quota parte.

Si potrebbe allora ritenere, nei casi in cui la sentenza di annullamento del lodo passata in giudicato costituisca la condizione di proponibilità dell'azione di risarcimento, che tutte la parti siano legittimate a proporla con la seguente precisazione: se il danno è la conseguenza della esecuzione del lodo nullo, avrà diritto di chiedere il risarcimento – sussistendone tutti i presupposti – solo la parte che ha fatto valere il vizio; se il danno è la conseguenza di una attività processuale che – a causa della nullità – si è rivelata inutile e per di più ha costretto al pagamento di un corrispettivo – spesso tutt'altro che esiguo – senza una controprestazione, allora non vi sarebbe ragione di escludere la legittimazione ad agire anche dalla parte che ha subito l'esito dell'impugnazione.

La medesima azione sarà quindi consentita – in ipotesi – anche alla parte che abbia dato causa a un motivo di nullità, ma sarà destinata ad esito incerto potendo ragionevolmente applicarsi l'art. 1227 c.c., nella misura in cui il fatto colposo del danneggiato ha eliso il nesso di causalità ovvero vi ha comunque contribuito.

In ogni caso, ed in conclusione, ciascun arbitro risponderà unicamente del fatto proprio.

Sicché, se la decisione è stata collegiale, non tutti gli arbitri saranno obbligati al risarcimento del danno ma solo quelli ai quali è concretamente imputabile la causa che ha dato luogo alla nullità del lodo ovvero – se ricorre una delle ipotesi contemplata dall'art. 813-ter, comma 1, n. 1, c.p.c. – l'arbitro che sia stato dichiarato decaduto oppure che abbia rinunciato all'incarico senza giustificato motivo.

L'onere della prova nel giudizio di responsabilità 

Se l'accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro fa sì che si perfezioni il contratto di arbitrato, la responsabilità di quest'ultimo – ove non esegua la prestazione ovvero la esegua inesattamente - non può che essere di natura contrattuale, con conseguente applicazione alla fattispecie dei principi stabiliti da Cass., civ., sez. un., 30 ottobre 2001 n. 13533 in materia di ripartizione dell'onere della prova.

Sulla parte che deduce l'inadempimento, pertanto, graverebbe l'onere di provare il titolo negoziale, essendo sufficiente allegare l'inadempimento, mentre sul debitore (in questo caso l'arbitro) graverebbe l'onere di provare di avere esattamente eseguito la prestazione ovvero che questa non è stata possibile per fatto a lui non imputabile.

Vi è da chiedersi a questo punto se l'art. 813-ter c.p.c., laddove ripetutamente subordina la affermazione di responsabilità dell'arbitro agli stati soggettivi del dolo o della colpa grave, possa rappresentare una eccezione alla regola generale del criterio di riparto dell'onere della prova nelle fattispecie di responsabilità contrattuale.

Detto altrimenti, il creditore della prestazione che lamenti l'inadempimento del debitore non ne deve provare la colpa perché questa si presume ai sensi dell'art. 1218 c.c. (ancora recentemente in termini, Cass. civ., sez. lav., 2 dicembre 2022 n. 35575).

Sicché, anche la colpa dell'arbitro – chiamato a rispondere del suo operato – dovrebbe presumersi.

Tuttavia, la giurisprudenza più volte ha affermato che nell'inadempimento contrattuale le conseguenze giuridiche della colpa grave sono trattate allo stesso modo di quelle della condotta dolosa (Cass. civ., sez. lav., 24 marzo 2004 n. 5910 e, più recentemente: Cass. civ., sez. I, 31 ottobre 2012, n. 18706; Cass. civ., sez. lav., 8 ottobre 2019, n. 25168, la quale – muovendo da queste premesse – ha affermato che nei casi di colpa grave la imputabilità va estesa anche ai danni imprevedibili, ossia anche quelli che non potevano prevedersi al momento in cui l'obbligazione è sorta e dei quali – a mente dell'art. 1225 c.c. – il debitore invece non risponde, salvo il caso di dolo.

Ebbene, quando si è occupata di inadempimento contrattuale e della risarcibilità anche dei danni imprevedibili, la giurisprudenza ha affermato che il dolo non si presume (Cass. civ., sez. II, 26 novembre 1998 n. 11992 e, più recentemente nella giurisprudenza di merito, Trib. La Spezia 10 agosto 2020 n. 396).

Se il creditore, che lamenta l'inadempimento del debitore e chiede il risarcimento dei danni non prevedibili, è gravato dall'onere di provare lo stato soggettivo del dolo e se – quanto alle conseguenze giuridiche derivanti dall'inadempimento – la colpa grave è trattata allo stesso modo del dolo, se ne dovrebbe inferire che – laddove sia richiesta la colpa grave – si trasferisce sul creditore l'onere di provarla, non potendo operare la presunzione di cui all'art. 1218 c.c.

Ciò non sarebbe privo di conseguenze nella azione di responsabilità nei confronti dell'arbitro.

Potrebbe infatti ritenersi che il legislatore, avendo espressamente stabilito che l'arbitro risponde solo per dolo o colpa grave, abbia voluto equiparare i due stati soggettivi, che dunque andrebbero trattati allo stesso modo, ed il creditore – pertanto – non potrebbe limitarsi ad allegare il mero inadempimento ma dovrebbe anche dimostrare che l'atto omesso ovvero quello compiuto sono imputabili ad una condotta del debitore (in questo caso, l'arbitro) connotata da dolo o colpa grave.

In senso contrario, però, sembrerebbe la giurisprudenza che ha applicato l'art. 2236 c.c., norma – come è noto – che contempla ed accomuna il dolo e la colpa grave per affermare la responsabilità del professionista quando questo, nella esecuzione della prestazione, deve risolvere questioni di particolare difficoltà.

Ha infatti ripetutamente affermato la giurisprudenza che la norma, subordinando la responsabilità del professionista ai soli casi di dolo o colpa grave, non stabilirebbe un diverso criterio di ripartizione dell'onere della prova ma enuncerebbe una mera regola di valutazione della condotta del debitore (Cass. civ., sez. III, 15 giugno 2018 n. 15732; Cass. civ., sez. III, 9 ottobre 2012 n. 17143; Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2012 n. 10315; Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20101, secondo la quale “il paziente ha l'onere di allegare l'inesattezza dell'adempimento, non la colpa né tanto meno la gravità di essa”).

Se i principi appena richiamati fossero validi anche quando viene in evidenza la responsabilità dell'arbitro, la colpa grave di cui all'art. 813 ter c.p.c. – in quanto mero criterio di valutazione della condotta del giudice privato – non alleggerirebbe affatto la posizione processuale del debitore e non appesantirebbe quella del creditore, giacché quest'ultimo – conformemente ai principi che regolano il riparto dell'onere della prova in materia di responsabilità contrattuale – non dovrebbe dare la prova della colpa, che – seppure grave – sarebbe comunque presunta, mentre graverebbe sul debitore la prova della insussistenza dello stato soggettivo richiesto dalla legge.

In definitiva, se si aderisce alla tesi secondo la quale – nei rapporti contrattuali – la colpa si presume sempre essendo sufficiente allegare l'inadempimento o l'adempimento inesatto, anche quando – a mente dell'art. 2236 c.c. – il debitore è chiamato a risolvere questioni particolarmente complesse, gravando su di lui la prova della complessità della prestazione e la insussistenza della colpa grave, nell'azione di responsabilità promossa nei confronti dell'arbitro graverà su quest'ultimo l'onere di provare di avere agito senza dolo o colpa grave; se si aderisce all'altra tesi, secondo la quale nella responsabilità contrattuale la colpa grave è assimilata al dolo, che mai si presume e deve essere allegato e dimostrato dal creditore, su quest'ultimo incomberà l'onere di dimostrare che l'arbitro, evocato in giudizio per rispondere del suo operato, ha agito con dolo o colpa grave.

In conclusione

La natura giurisdizionale di carattere privato dell'attività svolta dall'arbitro nell'arbitrato rituale giustifica il particolare regime della responsabilità civile delineato dall'art. 813-ter c.p.c. La norma in questione delimita il perimetro dell'azione risarcitoria, che potrà essere proposta solo per i medesimi motivi per i quali il lodo, tempestivamente impugnato, è stato dichiarato nullo con sentenza passata in giudicato, e stabilisce un “massimale” all'ammontare del risarcimento, che non può essere maggiore del triplo del compenso dell'arbitro pattuito o previsto dalla tariffa applicabile. La disposizione esaminata non è stata modificata dalla riforma Cartabia, la quale – però – ha introdotto l'obbligo della “disclosure” al momento dell'accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro ed ha inserito, tra le cause di ricusazione, anche la sussistenza di “altre gravi ragioni di convenienza, tali da incidere sull'indipendenza o sull'imparzialità dell'arbitro”: due novità apparentemente marginali ma che possono avere riflessi, soprattutto la nuova causa di ricusazione, sulla azione di responsabilità nei confronti degli arbitri, la cui decisione potrebbe essere impugnata per sospetta parzialità correlata non già a specifiche e tassative fattispecie bensì a – forse assai generiche – gravi ragioni di convenienza.

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