Ddl Nordio: cosa cambia in tema di intercettazioni

Cesare Parodi
11 Luglio 2024

Con l'approvazione del ddl n. 808 alla Camera, diviene legge il c.d. ddl Nordio: tra le molte rilevanti novità, in tema di intercettazione le nuove disposizioni risultano essere finalizzate a fornire una maggiore tutela alla riservatezza dei soggetti coinvolti nelle captazioni, intervenendo sulla possibilità di pubblicazione delle intercettazioni, sulle disposizioni in tema di deposito di cui all'art. 268 c.p.p. e sull'utilizzo delle stesse in tema di richieste di misure cautelari. Importanti indicazioni sono fornite anche in relazione alla tutela delle comunicazioni con i difensori.

Premessa

Giunge al termine, con l'approvazione definiva alla Camera, senza modifiche rispetto al testo licenziato dal Senato, la c.d. riforma Nordio. Molte, rilevanti e foriere di discussioni (in parte avvenute e che sono destinate a perpetrarsi) le novità del disegno di legge già approvato dal Senato il 13 febbraio 2024 (v. stampato senato n. 808) presentato dal Ministro della giustizia (Nordio) e dal Ministro della difesa (Crosetto), rubricato «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare».

Il tema delle intercettazioni è indubbiamente, uno di quelli centrali della nuova legge ed è contemplato dall'art. 2 della stessa. A distanza di tre anni dall'entrata in vigore dell'ultima riforma sul tema - prevista dal d.l. 30 dicembre 2019 n. 161 convertito con modifiche con l 28 gennaio 2020 n. 7 - a sua volta frutto di una lunga e tormentata rielaborazione delle indicazioni contenute nel d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216 - e a brevissima distanza dal  decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105 (in Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 186 del 10 agosto 2023), coordinato con la legge di conversione 9 ottobre 2023, n. 137 (Conversione in legge del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105, recante disposizioni urgenti in materia di processo penale, di processo civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero dalle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonché in materia di personale della magistratura e della pubblica amministrazione) ancora una volta l'interprete deve farsi carico di ricondurre nuove disposizioni in un quadro generale tale da consentire agli operatori di applicare correttamente e puntualmente quelle che sono le nuove indicazioni.

Evidentemente, le indicazioni contenute nella l. 20 gennaio 2020, n. 7, non sono state considerate adeguate e/o sufficienti al proposito, in quanto la finalità di una maggiore tutela della riservatezza traspare in termini lampanti in tutti i punti in tema di intercettazione contenuti nel provvedimento presentato dal Ministro Nordio. La relazione di accompagnamento al ddl «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento giudiziario. Interpretazione autentica dell'articolo 9 della legge 10 aprile  1951, n. 287» è chiarissima al riguardo. Nel menzionare «Gli interventi in materia di intercettazioni a tutela della riservatezza del terzo estraneo al procedimento (articolo 2, comma 1, lettere a), b), c), d), n. 1, ed e), n. 2).» si precisa che «Le modifiche hanno lo scopo di rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate».

   

La rilevanza e la centralità dei temi trattati suggeriscono di richiamare integralmente le considerazioni già svolte in questa rivista (In arrivo il ddl Nordio: ancora novità in tema di intercettazioni, di Cesare Parodi, in IUS Penale), aventi ad oggetto la nuova disciplina dell'art. 114 c.p.p., le modifiche dell'art. 116 c.p.p., quelle sull'art. 268 c.p.p. e sugli artt. 291 e 292 c.p.p. che di seguito riportiamo, per facilità di lettura.

Le disposizioni sulle comunicazioni con i difensori: il quadro precedente alla riforma

Come è noto, l'art. 103 c.p.p. disciplina le «Garanzie di libertà del difensore», disponendo, specificamente, in tema di intercettazioni e di comunica che:

  • non è consentita l'intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite (comma 5)
  • sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato (comma 6).

In base, poi, al comma 7 del menzionato articolo «Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall'articolo 271, i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti, non possono essere utilizzati. Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l'ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta».

Il testo del comma 7 è stato modificato dal d.lgs. n. 216/2017; precisa, al riguardo, la relazione di accompagnamento al tale decreto, che la tutela della riservatezza è, in primo luogo, riferita alle comunicazioni del difensore con il proprio assistito: «L'articolo 103 del codice di procedura penale già pone al comma 5 il divieto di attività diretta di intercettazione nei confronti del difensore, con conseguente inutilizzabilità delle relative acquisizioni, come da previsione di cui al comma 7 del medesimo art. 103. Il difensore, tuttavia, può essere coinvolto nell'attività di ascolto, legittimamente eseguita, in via anche solo occasionale.

L'analisi del testo impone una ricognizione del quadro normativo generale. In base al comma secondo dell'art. 271 c.p.p.: «Non possono essere utilizzate le intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni delle persone indicate nell'art. 200, comma 1, quando hanno a oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione, salvo che le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati». In effetti, proprio il tema del segreto professionale – con particolare riguardo ovviamente al professionista difensore – si pone in termini di particolare problematicità, rilevando direttamente sul delicato rapporto tra accusa e difesa.

Al riguardo, non sono state infrequenti nella prassi giudiziaria eccezioni formulate in relazione all'esecuzione e conseguente trascrizione sui brogliacci delle telefonate intercorse con i difensori; l'inutilizzabilità di tali comunicazioni non costituisce un accertamento automatico e tantomeno demandabile (attesi i margini di valutazione) alla polizia giudiziaria delegata per l'esecuzione delle operazioni; si tratta, al contrario, della (possibile) conseguenza di successivi accertamenti, quali la verifica in positivo sul rapporto professionale (e non personale) del professionista con l'indagato, nonché di quella in negativo – che, in rari casi, si rende necessaria – sulla estraneità di quest'ultimo rispetto alla realizzazione dei reati per cui si procede.

Tale prospettiva deve essere valutata alla luce della disciplina dell'art. 103 c.p.p., che stabilisce il divieto di intercettazione relativo «a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari» e a quelle «tra i medesimi e le persone da loro assistite».

La norma impone una valutazione sul delicato limite tra esercizio della professione e – in alcuni casi – favoreggiamento personale o reale o addirittura concorso nel reato; non può esservi dubbio che tali forme di “conoscenza” non potrebbero ritenersi riconducibili al rapporto professionale; la necessità di valutazione sull'esclusione in concreto di tali comportamenti rende necessaria una delibazione da parte della polizia giudiziaria e del P.M., che non potrà che intervenire verificando il contenuto delle chiamate.

Sul tema, la Cassazione ha precisato che il divieto di utilizzazione stabilito dall'art. 271, comma 2, c.p.p. non sussiste quando le conversazioni o le comunicazioni intercettate non sono pertinenti all'attività professionale svolta dalle persone indicate nell'art. 200, comma 1, c.p.p., e non riguardano, di conseguenza, fatti conosciuti per ragione della professione dalle stesse esercitate (Cass. pen., sez. VI, 20 settembre 2007, n. 2951, CED 238441).

In particolare, il divieto di intercettazione di conversazioni o comunicazioni nei confronti dei difensori, sancito dall'art. 103, comma 5, c.p.p., riguarda l'attività captativa in danno del difensore in quanto tale, e dunque nell'esercizio delle funzioni inerenti al suo ufficio, quale che sia il procedimento cui si riferisca, e non si estende ad ogni altra conversazione, non inerente (tanto più ove costituisce essa stessa reato), che si svolga nel suo studio o domicilio (Cass. pen., sez.VI, 10 ottobre 2008, n. 38578, CED 241510).

La prescrizione anzidetta non si traduceva, in definitiva, in un divieto assoluto di conoscenza ex ante – come se il legale godesse di un ambito d'immunità assoluta o di un privilegio di categoria – ma implicava una verifica postuma del rispetto dei relativi limiti, la cui violazione avrebbe comporta l'inutilizzabilità delle risultanze dell'ascolto non consentito, ai sensi dell'art. 103, comma 7, e la distruzione della relativa documentazione, a norma dell'art. 271 richiamato dallo stesso art. 103, comma 7, c.p.p. (Cass. pen., sez. V,12 febbraio 2003, n. 20072, CED 224944).

La franchigia prevista dall'art. 200 c.p.p. deve ritenersi invocabile solo nei casi in cui in cui l'attività sia stata svolta nel rispetto dei canoni deontologici della professione, da verificarsi necessariamente ad intercettazione eseguita. Sul punto, il divieto di intercettazione dettato dall'art. 103, comma 5, c.p.p. oltre a ribadire, con riferimento al rapporto defensionale, l'esclusione probatoria inerente alle notizie ottenute in conseguenza di un'invasione dell'ambito del segreto professionale, specifica che i difensori non potranno mai essere personalmente direttamente o indirettamente intercettati per il fatto di trovarsi in un rapporto qualificato con persone soggette ad indagine.

Era stata delineata una sfera di esclusione probatoria che tuttavia non poteva essere modulata sulla posizione dell'avvocato in astratto, quanto su quella del difensore, in osservanza al preciso dettato normativo sul punto; interpretazioni in senso contrario avrebbero portato a delineare un'area di “privilegio” in grado di garantire a favore di un ristretto numero di soggetti una zona franca rispetto a comunicazioni di fatto segrete a prescindere dall'oggetto dello stesse e dagli interlocutori ai quali sono destinate.

La domanda è allora semplice; quid iuris quando le conversazioni assumono un significato differente, in relazione alla realizzazione o al concorso in reati (quantomeno in reati che consentono di per sé l'intercettazione)? Com'è pensabile che gli esiti di tali attività non possano essere documentati e trasmessi alla procura della Repubblica?

Inoltre: proprio le intercettazioni “indirette” possono non consentire un'immediata e inequivoca percezione del ruolo e del rapporto professionale tra l'indagato e il difensore. Non è semplice, in tali casi, evitare che forme di annotazione e informativa possano quindi, in assoluta buona fede, essere predisposte e trasmesse alla procura della Repubblica. Una possibilità che tuttavia è stata espressamente e inequivocamente esclusa dal comma 7, art. 103 c.p.p.

Se anche la trascrizione sommaria è vietata, le alternative logiche non possono che essere un sunto orale della P.G. addetta agli ascolti al P.M. o l'ascolto delle conversazioni direttamente a opera di quest'ultimo. Scelte entrambe di non poco momento in relazione alla possibilità di organizzazione/suddivisione dell'attività di ascolto delle captazioni.

Le garanzie dell'articolo in oggetto si estendono a tutti i procedimenti nel quale il difensore esercita il proprio mandato; in tema di garanzie di libertà dei difensori previste dall'art. 103 c.p.p., il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni opera anche nel caso in cui l'attività difensiva concerna un procedimento diverso da quello cui le intercettazioni atterrebbero. Peraltro, il divieto in questione non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi rivesta la qualità di difensore e per il solo fatto di tale qualifica ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata (Cass. pen., Sez. Un., 12 novembre 1993, n. 25, CED,195627).

Devono ancora essere ricordate altre due decisioni della S.C.

La prima ha precisato che il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni, stabilito dall'art. 271, comma 2, c.p.p. è posto, tra gli altri, a tutela dell'avvocato (come degli altri soggetti indicati nell'art. 200, comma 1, c.p.p.) e dell'esercizio della sua funzione, ancorché non formalizzato in un mandato professionale, purché detto esercizio sia causa della conoscenza del fatto, ben potendo un avvocato venire a conoscenza, in ragione della sua professione, di fatti relativi a un soggetto del quale non sia difensore. Conseguentemente, detto divieto sussiste ed è operativo quando le conversazioni o le comunicazioni intercettate siano pertinenti all'attività professionale svolta dai soggetti indicati nell'art. 200, comma 1, c.p.p. e riguardino, di conseguenza, fatti conosciuti in ragione della professione da questi esercitata, a nulla rilevando il fatto che si tratti di intercettazione indiretta (Cass. pen., sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979, CED 255516).

La seconda (Cass. pen., sez. II, 18 giugno 2014, n. 26323, CED 259585) sottolinea la ratio del divieto scolpito nell'art. 103 c.p.p.: la tutela dell'esercizio della funzione difensiva e, quindi, di un diritto costituzionalmente protetto. Di conseguenza, perché possa essere fatta valere la suddetta inutilizzabilità è necessario che il difensore venga a conoscenza dei fatti a causa dell'esercizio delle funzioni difensive o della propria professione e sempre che attengano alla funzione esercitata. Poiché il divieto in questione non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi rivesta la qualità di difensore e per il solo fatto di tale qualifica, a contrario, deve desumersi che il divieto in esame non è invocabile se la conversazione non è pertinente all'attività professionale svolta e se la conversazione integra essa stessa un'ipotesi di reato. In questo senso, il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni riguarderebbe solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, così che, nell'ipotesi in cui venga intercettato un colloquio fra l'indagato ed un avvocato legati da uno stretto rapporto di amicizia e familiarità, il giudice, al fine di stabilire se quel colloquio sia o no utilizzabile, all'esito di un esame globale ed unitario dell'intera conversazione, sarebbe necessario valutare:

  • se quanto detto dall'indagato sia finalizzato ad ottenere consigli difensivi o non sia, piuttosto, una mera confidenza che potrebbe essere fatta a chiunque altri con cui si trovi in stretti rapporti di amicizia;
  • se quanto detto dall'avvocato sia di natura professionale (e, quindi, rientrante nell'ambito del mandato difensivo) oppure abbia una mera natura consolatoria ed amicale a fronte delle confidenze ricevute.

Le nuove indicazione sulle intercettazioni delle comunicazioni con i difensori

La nuova legge prevede, all'art. 2m una modifica all'art. 103 c.p.p. nel quale dopo il comma 6 sono inseriti i seguenti commi: «6-bis. È parimenti vietata l'acquisizione di ogni forma di comunicazione, anche diversa dalla corrispondenza, intercorsa tra l'imputato e il proprio difensore, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. 6-ter. L'autorità giudiziaria o gli organi ausiliari delegati interrompono immediatamente le operazioni di intercettazione quando risulta che la conversazione o la comunicazione rientra tra quelle vietate».

Le due disposizioni sono, per certi aspetti, meno “dirompenti” di quanto probabilmente si è pensato, ove si considerino i presupposti ermeneutici delle stesse.

Partiamo dal primo divieto, che viene a “coprire” di fatto l'area – per certi aspetti non così ben definita- della messaggistica “statica” che può essere intercorsa tra l'indagato e il difensore. Evidentemente la seconda ipotesi riguarda le comunicazioni – anche – telematiche, laddove le comunicazioni pervenute al destinatario (che, alla luce della sentenza C. cost. n. 170/2023, possono essere ricondotte a determinate condizioni al concetto di corrispondenza) possono essere ricomprese nel primo divieto. Una impostazione sostanzialmente sintonica con quanto statuito dalla S.C. (Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2020, n. 27988, CED 280665 – 01) in tema di sequestro, laddove si è precisato che il sequestro presso lo studio del difensore, sebbene indagato, di carte e documenti relativi all'oggetto della difesa, è possibile solo qualora essi costituiscano corpo del reato.  Analogamente in tema di intercettazioni (Cass. pen., sez. II, 6 ottobre 2015, n. 43410, CED Rv. 265096 – 01) la S.C. ha stabilito che l'art. 103, comma 5, c.p.p., nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, mirando a garantire l'esercizio del diritto di difesa, ha ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, alle conversazioni che integrino esse stesse reato. Il punto è proprio questo: in termini generale per le S.U. (Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2014, n. 32697, CED 259776 – 01) in tema di intercettazioni, la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato unitamente al supporto che la contiene, in quanto tale utilizzabile nel processo penale, solo allorché essa stessa integri ed esaurisca la condotta criminosa. Si tratta di considerare comunque utilizzabile, pertanto, solo il corpo di reato e non la “cosa pertinente al reato”. Un esempio può semplificare il concetto: se la frase intercettata è «se non paghi ti uccido» sarà utilizzabile. Quella «non ha pagato e l'ho ucciso» evidentemente no, in quanto la stessa descrive una condotta criminosa, laddove la prima la integra e la esaurisce.

Maggiormente problematica, almeno sul piano operativo, la disposizione di cui al comma 6 ter sopra menzionata. La legge impone di interrompere le operazioni di intercettazioni “immediatamente”, non appena la conversazione o la comunicazione deve essere qualificata come “vietata”.

Il principio è apparentemente semplice. La p.g. identifica l'interlocutore del soggetto intercettato indagato un soggetto che comunica con questi nel ruolo di difensore (e non di semplice “avvocato”). In primo luogo, occorre comprendere se sia necessaria l'assunzione formale di tale ruolo, con una nomina depositata in atti o se sia sufficiente l'assunzione del ruolo con atto “interno” tra le parti o se siano oggetto di tutela anche contatti prodromici tra le parti funzionali all'assunzione della difesa. 

Non univoche le più recenti indicazioni sul tema. La Cassazione, proprio in funzione di un'interpretazione in grado di assicurare una tutela “sostanziale” del diritto di difesa, ha precisato che l'inutilizzabilità sancita dall'art. 103, comma 5, c.p.p. sarebbe posta a garanzia della necessaria riservatezza dell'attività difensiva e, quindi, dipende esclusivamente dalla natura della conversazione intercettata, così come verificabile anche a posteriori. Ne consegue che l'inutilizzabilità delle intercettazioni con il proprio difensore sussisterebbe quand'anche l'indagato non abbia ancora comunicato all'autorità procedente la nomina del difensore ai sensi dell'art. 96 c.p.p., in quanto ciò che rileva ai fini della garanzia di cui all'art. 103 è la natura del colloquio e non la formalizzazione del ruolo del difensore (Cass. pen., sez. V, 18 febbraio 2003 n. 12944, CED 224251). Per altro, (Cass. pen., sez. II, 30 ottobre 2020, n. 32905 CED 280233 – 01) per l'operatività del divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori non è necessario che lo svolgimento dell'attività difensiva risulti da uno specifico e formale mandato, conferito con le modalità di cui all'art. 96 c.p.p., potendo desumersi l'esistenza di un mandato fiduciario anche dalla natura stessa delle conversazioni. Al contrario (Cass. pen., sez. VI, 9 novembre 2018, n. 8295, CED 275091 – 02) le garanzie previste dall'art. 103 c.p.p. si applicano esclusivamente nei confronti di colui che rivesta la qualità di difensore o investigatore in forza di specifico mandato conferitogli nelle forme di legge ed a condizione che i predetti soggetti non siano sottoposti a indagine.

Quello che pare certo, considerata la previsione della interruzione “immediata” è che l'ambito prima lasciato a valutazioni sulla “pertinenza” della conversazione al mandato difensivo è destinato a venire sostanzialmente meno. In questo senso, quando si evidenzia il fatto – come la S.C., come abbiamo visto al punto precedente, ha ipotizzato- che il divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, presuppone una “possibilità di ascolto difficilmente ipotizzabile in concreto. È troppo facile immaginare che la P.G. chiamata a eseguire le captazioni, sia sulla base del numero dell'utenza dell'interlocutore, sia del contenuto della conversazione, potrà trovarsi in un brevissimo arco temporale nella necessità di interrompere l'attività.  Anche le varie distinzioni elaborate dalla giurisprudenza in relazione all'effettivo spazio residuo di valutazione delle captazioni che coinvolgono un difensore sono destinate- si ripete: in concreto- a essere “svuotate” dalla previsione della “mannaia” delineata dalla nuova disposizione. Il concetto sotteso alla modifica è chiaro: il diritto di difesa deve essere tutelato un via prioritaria e globale rispetto alla possibilità- astratta e limitata, anche se non del tutto estranea alla realtà giudiziaria- di valutare sino in fondo possibili specifiche responsabilità penali del difensore affiancate o collaterali rispetto a quelle degli indagati. Un principio di civiltà giuridica il cui effettivo impatto sul sistema potrà essere valutato solo dopo l'effettiva applicazione delle nuove disposizioni.

La nuova disciplina dell'art. 114 c.p.p.

Precisa la relazione al d.l. che con la lettera a) dell'articolo 2, comma 1, si modifica l'articolo 114, comma 2-bis, c.p.p. che attualmente vieta la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni sino a quando esse non siano state «acquisite ai sensi degli articoli 268,415-bis o 454 c.p.p.». Tale limitazione viene ora resa più stringente prevedendo che il divieto di pubblicazione cada solo allorquando il contenuto intercettato sia «riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento».

L'art. 114 c.p.p., come è noto, contiene un divieto generale di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto. Divieto di pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto che si “estende” fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare fatta eccezione per l'ordinanza indicata dall'articolo 292 c.p.p.

Quest'ultimo comma è stato modificato proprio con la l. 7/2020, che ha anche inserito il comma 2-bis - per il quale «È sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli articoli 268,415-bis o 454 c.p.p.».

Con la riforma del 2020, il legislatore aveva stabilito che solo gli atti selezionati con le procedure di cui agli artt. 268,415-bis o 454 c.p.p. sono da considerarsi pubblicabili, laddove le altre captazioni – per quanto conosciute alle parti, che ne possono prendere visione con il deposito – “sfuggono” dal regime generale degli atti depositati; atti conosciuti, valutati ma non direttamente disponibili per le parti, in quanto destinati all'archivio riservato introdotto dalla riforma. Tale limitazione non è stata ritenuta sufficiente, considerato che potranno essere pubblicate non solo le parti di intercettazioni entrate nella disponibilità astratta acquisita con le menzionate procedure ma solo quella che avranno superato un vaglio da parte dell'organo giudicante, derivante dall'effettivo utilizzo delle stesse nella motivazione di un provvedimento o con l'utilizza nel corso del dibattimento.

Che ricaduta può avere tale disposizione? Indubbiamente, solo le disposizioni in oggetto sono pubblicabili (fermo restando quanto vedremo infra) le intercettazioni contenute in una misura cautelare; in fase di indagine, è statisticamente improbabile che le stesse siano richiamate in altri atti (quali ad es. ordinanza ammissiva di incidente probatorio) mentre lo stesso provvedimento di rinvio a giudizio normalmente non contiene stralci di intercettazioni. La stesse potranno essere – anche ampiamente- riportate in sentenza (magari, a distanza di anni dai fatti).

Indubbiamente potranno essere considerate riprodotte in un provvedimento le intercettazioni depositate ex artt. 268 e 415-bis c.p.p., laddove le stesse siano riportate nel decreto di archiviazione, che interverrà, comunque, dopo il termine delle indagini. Differente sorte potrà esserci laddove l'archiviazione non sia stata preceduta dall'avviso ex art. 415-bis c.p.p. (o, ovviamente, dalla procedura ex art. 268 c.p.p.)

Resta da capire cosa si debba intendere per “utilizzo nel corso del dibattimento”. Si pone di nuovo un dubbio: solo le intercettazioni oggetto - ad es. - di contestazione a un teste o all'imputato in tale sede, in quanto riportate nel verbale e quindi comunque rese “pubbliche” o anche in altri casi? Difficile allo stato ipotizzare una lettura “estensiva” in tale prospettiva.

Certamente si tratta di una ulteriore selezione di atti già selezionati, ad opera del P.M. e con il controllo ove necessario del G.i.p., in base al principio generale di cui all'art. 268 comma 2-bis c.p.p. Nulla, verosimilmente a questo punto potrebbe sfuggire.  Si tenga presenta, in effetti, che questa “restrizione” dovrà essere applicata tenendo conto delle modifiche alla disciplina generale dell'art. 268 comma 2-bis c.p.p. apportate dal sopra menzionato decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105 , coordinato con la legge di conversione 9 ottobre 2023, n. 137, in particolare laddove lo stesso ha previsto che:  «Il pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché i verbali siano redatti in conformità a quanto previsto dal comma 2 e negli stessi non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini».

Ovviamente, l'intera materia dovrà essere valutata alla luce delle indicazioni contenuto nel ddl n. 969 recante delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea - Legge di delegazione europea 2022-2023, e la risoluzione n. 2 della maggioranza che approva il contenuto delle relazioni, programmatica 2023 (Doc. LXXXVI n. 1) e consuntiva 2022 (Doc. LXXXVII n. 1), sulla partecipazione dell'Italia all'Unione europea.

In base all'art. 4 di tale provvedimento (Delega al Governo per l'integrazione delle norme nazionali di recepimento della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali), è previsto che «Al fine di garantire l'integrale e compiuto adeguamento alla direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, anche al fine di integrare quanto disposto dal decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188, nonché di assicurare l'effettivo rispetto dell'articolo 27, secondo comma, della Costituzione, il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con le procedure di cui all'articolo 31 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, acquisito il parere delle competenti Commissioni parlamentari.». In particolare, «Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il Governo è tenuto a osservare, oltre ai princìpi e criteri direttivi generali di cui all'articolo 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, anche il seguente principio e criterio direttivo specifico: modificare l'articolo 114 del codice di procedura penale prevedendo, nel rispetto dell'articolo 21 della Costituzione e in attuazione dei princìpi e diritti sanciti dagli articoli 24 e 27 della Costituzione, il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell'ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare, in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343».

La modifica dell'art. 116 c.p.p.

Se la precedente disposizione rappresenta un limite oggettivo alla circolazione delle intercettazioni, quella che ha modificato l'art. 116 c.p.p. aggiunge un limite soggettivo. Per la relazione al d.l., la lettera b) dell'art.  2 comma 1 del d.l. aggiunge un secondo periodo all'articolo 116, comma 1, al fine di escludere comunque il rilascio di «copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ai sensi dell'articolo 114, comma 2-bis c.p.p., quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori». In base all'art. 116 c.p.p. (Copie, estratti e certificati) «Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti»; tale disposizione è integrata con il seguente periodo «Non può comunque essere rilasciata copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ai sensi dell'articolo 114, comma 2-bis c.p.p. quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori».  Nella versione approvata dal Senato, a tale disposizione è stato aggiunto «salvo che la richiesta sia motivata dalla esigenza di utilizzare i risultati delle intercettazioni in altro procedimento specificamente indicato». Quest'ultima indicazione- apparentemente “semplice” potrà essere, al contrario, foriera di non pochi problemi ermeneutici. DI fatto, occorre richiamare, ai fini di una corretta applicazione, la disciplina dell'art. 270 c.p.p. – unitamente al complesso coacervo di indicazioni fornite sul tema dalla S.C.- in quanto non è chiaro se la semplice astratta richiesta di utilizzo in altro procedimento delle intercettazioni sia di per sé sola elemento fondante del rilascio delle copia o se tale richiesta possa avvenire solo a fronte di un effettiva possibilità di utilizzo, ossia di utilizzo alle condizioni e nei limiti delineati dal sistema.

Il comma 3 dell'art. 116, non modificato, precisa che «Il rilascio non fa venire meno il divieto di pubblicazione stabilito dall'articolo 114».

Sulla richiesta provvede il pubblico ministero o il giudice che procede al momento della presentazione della domanda ovvero, dopo la definizione del procedimento, il presidente del collegio o il giudice che ha emesso il provvedimento di archiviazione o la sentenza.

Anche la finalità della sopra riportata integrazione è chiarissima: non solo a procedimento in corso ma anche quando lo stesso sarà definito le intercettazioni (ovviamente quelle che avranno già superato il “vaglio” dell'art 114 c.p.p.: le altre sono già comunque destinate all'oblio dell'archivio riservato) potranno essere a disposizione solo delle parti e dei difensori.

In sostanza, di tali atti si vuole elidere non solo la valenza a fini di cronaca, quanto anche la possibilità di “recupero” degli stessi in una prospettiva temporale a lungo termine e a prescindere dall'interesse pubblico che le stesse potrebbero avere assunto.

La modifica dell'art. 268 c.p.p.

La lettera c) dell'art. 2 comma 1 del d.l., interviene sull'articolo 268, commi 2-bis e 6 c.p.p. (norma sulla quale, come già sopra segnalato è intervenuto il decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105, coordinato con la legge di conversione 9 ottobre 2023, n. 137). Rispetto al testo modificato da quest'ultimo provvedimento, se da un lato è evidente la finalità della modifica, l'interprete è costretto a uno sforzo di “ricostruzione” del testo che – confidiamo- potrà venire meno nella versione finale della norma.

Il testo del ddl 808 stabilisce che all'articolo 268 comma 2-bis, dopo le parole: «dalla legge» sono inserite le seguenti: «o relativi a soggetti diversi dalle parti».

Se andiamo a verificare il testo attuale della norma, le parole “dalla legge” non compaiono: «Il pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché i verbali siano redatti in conformità a quanto previsto dal comma 2 e negli stessi non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini». Occorre recuperare il testo precedente, modificato dal d.l. 105/2023: «Il pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, o relativi a soggetti diversi dalle parti, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini».

Ecco che la stessa “interpolazione” risulta problematica in quanto inserire nel testo attuale «o relativi a soggetti diversi dalle parti» si dovrebbe giungere alla seguente soluzione: «Il pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché i verbali siano redatti in conformità a quanto previsto dal comma 2 e negli stessi non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori «o relativi a soggetti diversi dalle parti» salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini».

Analoga modifica è stata prevista per il comma 6 dell'art. 268 c.p.p.- rispetto al quale è stata disciplinata la seguente interpolazione del testo originario: «Ai difensori delle parti è immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato a norma dei commi 4 e 5, per via telematica hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche. Scaduto il termine, il giudice dispone l'acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l'utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari di dati personali, o soggetti diversi dalle parti, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza. Il pubblico ministero e i difensori hanno diritto di partecipare allo stralcio e sono avvisati almeno ventiquattro ore prima».

La finalità globale delle due modifiche è, evidentemente, quella di imporre una particolare attenzione per gli interessi e la riservatezza anche di tutti i soggetti ai quali accade di essere accidentalmente e/o occasionalmente coinvolti in una captazione. Si può anzi ritenere che tale tutela sia accordata non solo ai soggetti coinvolti nella comunicazione ma anche a quelli estranei rispetto alle stesse, laddove menzionati a vario titolo da quelli coinvolti. Per altro, confrontando il comma 2-bis con il comma 6, emerge una evidente difformità tra il riferimento del comma 6 ai “dati personali” rispetto a quello del comma 2-bis, ove si parla – in termini evidentemente molto più ampi - di “fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori”.

La modifica all'art. 291 c.p.p.

Il Ddl Nordio interviene, altresì, sul testo dell'art. 291 comma 1-ter, c.p.p. Rispetto al testo attuale: «Quando è necessario, nella richiesta sono riprodotti soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate» è stato aggiunto «, in ogni caso senza indicare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione». Una indicazione di un obbligo per il P.M. di bilanciare le esigenze processuali con la tutela della riservatezza.

In termini generali, l'art. 291 c.p.p. prevede che il pubblico ministero presenta al giudice competente gli

elementi su cui la richiesta di misura cautelare si fonda, compresi i verbali di cui all'articolo 268, comma 2, limitatamente alle comunicazioni e conversazioni rilevanti, e comunque conferiti nell'archivio di cui all'articolo 269, nonché tutti gli elementi a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate.

Con la modifica, l'art. 291 comma 1-ter c.p.p. risulterebbe così modificato «Quando è necessario, nella

richiesta sono riprodotti soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate, in ogni caso senza indicare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione».

Identica modifica viene apportata dalla lettera e), numero 2, al comma 2-quater dell'articolo 292 c.p.p., in riferimento all'ordinanza applicativa della misura cautelare emessa dal giudice. Questo il nuovo testo del comma 2-quater. «Quando è necessario per l'esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi, delle comunicazioni e conversazioni intercettate sono riprodotti soltanto i brani essenziali, in ogni caso senza indicare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione degli elementi rilevanti».

Le due disposizioni sono espressive della medesima finalità e rappresentano anch'esse, come quelle già viste, una ulteriore forma di limitazione della possibilità utilizzo delle captazioni nell'ambito dei provvedimenti, siano esse richieste, siano essi decreti di autorizzazione. Il pubblico ministero dovrà pertanto operare una verifica sulle captazioni, di modo da evitare che nelle richieste anche i brani “essenziali” non contengono i dati riferibili a soggetti estranei.

L'utilizzo del termine parti, anziché “indagati” consente verosimilmente di ritenere che anche le persone offese siano escluse da tale disposizione per evidenti motivi, considerato che la rilevanza delle dichiarazioni di tali soggetti può essere un diretto riflesso delle condotte ipoteticamente illecite poste in essere dagli indagati. Per tutti gli altri soggetti, che non risultano essere indagati o persone offese, dovrà essere effettuata questa ulteriore attività. Sebbene il principio in sé possa apparire ragionevole, si tratta indubbiamente di un aggravio significativo delle attività della polizia giudiziaria prima e del pubblico ministero poi. Un 'aggravio sul piano organizzativo dell'attività si deve ritenere un dato oggettivo, non facilmente confutabile.

Inoltre, il fatto che il legislatore abbia ribadito il principio nell'ambito dell'articolo 292 c.p.p., che riguarda l'attività del giudice, impone di ritenere che anche tale organo è chiamato a un'attività di verifica e controllo sull'osservanza del principio da parte del pubblico ministero, tenendo presente che proprio l'utilizzazione in concreta nell'ambito di provvedimenti delle conversazioni potrà determinarne il venire meno del divieto di pubblicazione, come precisato nel punto precedente.

Resta, infine, da valutare quali sanzioni possano conseguire alla mancata osservanza delle nuove disposizioni. Non possiamo parlare di nullità/inutilizzabilità, mancando – allo stato - un richiamo all'art. 271, comma 1, c.p.p.; ci troviamo di fronte, pertanto, a una irregolarità processuale, in quanto tale non produttiva di effetti in ordine alla validità dell'acquisizione probatoria, eventualmente rilevante solo sotto il profilo disciplinare ai sensi dell'art. 124, comma 1, c.p.p., senza tuttavia una ricaduta sugli esiti del procedimento.

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