Breve storia del reato di abuso d'ufficio
La prima riforma del reato di abuso d'ufficio era stata dettata dalla necessità di superare la confusione che si era creata in sede applicativa tra l'art. 323 c.p. (Abuso d'ufficio nei casi preveduti specificamente dalla legge) e l'art. 324 c.p. (Interesse privato in atti di ufficio) che aveva portato al sacrificio del primo in favore del secondo.
Da un lato la giurisprudenza aveva dilatato eccessivamente i confini di operatività del reato di interesse privato in atti di ufficio, sulla base di formule astratte, quali il prestigio della pubblica amministrazione. L'ossessione della tutela del prestigio della pubblica amministrazione aveva per lungo tempo accompagnato l'indirizzo della Corte regolatrice che si era tradotto in soluzioni di massima astrattezza in cui, spesso, non era facile intravedere la lesione del buon funzionamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione, cioè dei beni costituzionalmente garantiti dall'art. 97.
Dall'altro le numerose vittime giudiziarie che avevano interessato il campo di tutte le forze politiche sollecitavano la necessità di frenare le “scorribande” giudiziarie nel sistema della pubblica amministrazione, in modo da limitare la possibilità per il giudice di sindacare le scelte amministrative.
Il risultato della riforma del 1990 fu quanto mai deludente, perché ebbe a partorire una norma (con una sanzione particolarmente pesante nel caso di abuso patrimoniale, da due a cinque anni come, all'epoca, per la corruzione propria), che lasciava inalterati i problemi di tipicità e determinatezza che avevano caratterizzato l'ipotesi che il nuovo reato di abuso di ufficio era venuto ad ereditare.
Se si tiene presente che venne costruita una fattispecie che incentrava sul dolo specifico di vantaggio o di danno il disvalore giuridico del fatto è facile intuire come le critiche di coloro che avevano ravvisato in essa un modello affatto negativo risultassero fondate, perché non si può garantire l'autonomia degli amministratori nell'adempimento delle loro funzioni, introducendo nello statuto penale della pubblica amministrazione una figura criminosa che doveva essere interpretata in chiave esclusivamente soggettiva.
Al contrario occorreva che il legislatore avesse ipotizzato in maniera estremamente chiara le condotte da sottoporre a sanzione penale, definendo il contenuto dei comportamenti che realmente colpiscono il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione, anziché costruire una fattispecie che esauriva il contenuto offensivo della condotta in un comportamento “incolore”, quale l'abuso.
A distanza di soli sette anni dall'entrata in vigore della legge n. 86/1990 il legislatore riscriveva con la legge 16 luglio 1997 n. 234, nuovamente, la figura del reato di abuso di ufficio.
Com'era prevedibile, anche perché i segnali politici di insoddisfazione alla troppo disinvolta applicazione, nell'epoca di “Tangentopoli”, dell'art. 323 c.p. erano stati inequivoci, l'ipotesi d'abuso d'ufficio, che all'interno della riforma del 1990 svolgeva un ruolo determinante, perché ereditava la controversa fattispecie d'interesse privato in atti d'ufficio, di abuso innominato e del peculato per distrazione, veniva spazzata via.
La nozione di abuso veniva ad essere sostituita dalla violazione di norme di legge o di regolamenti, nonché dalla violazione dell'obbligo di astensione, ma soprattutto la fattispecie di abuso di ufficio si trasformava da reato di pericolo in reato di evento in cui il vantaggio patrimoniale ed il danno costituivano l'evento del reato.
L'ulteriore novità della riforma riguardava, inoltre, la sanzione che veniva notevolmente ridotta, sì da non consentire per la violazione dell'art. 323 c.p. l'applicazione delle misure cautelari o delle intercettazioni telefoniche, anche se nel 2012 la sanzione veniva aumentata.
Si era trattato di una reazione del legislatore all'uso troppo spesso disinvolto di questa norma che, come in più occasioni era stato evidenziato, serviva per ricercare la prova di altri e più gravi reati.
Le ragioni della riforma del 2020 sono, solo in parte, identiche a quelle che determinarono la riforma del reato di abuso di ufficio, prima con la legge n. 86/1990 e successivamente con la legge n. 234/1997: non più la reazione del legislatore all'uso eccessivamente disinvolto della norma, ma l'esigenza di ridurre gli spazi applicativi della stessa per evitare la “paralisi dell'attività pubblica”.
La cosiddetta sindrome della firma che affligge i funzionari, nei confronti dei quali incombe il rischio dell'esposizione ai reati di abuso di ufficio, sembra essere stata la causa determinante della parziale modifica della condotta di abuso di ufficio.
È nata una nuova norma il cui scopo effettivo sembra essere stato quello di ridurre, se non addirittura annullare, la portata operativa dell'abuso di ufficio.
Sostituendo la violazione di norme di legge o di regolamenti con la violazione di specifiche regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge di cui non residuino margini di discrezionalità, il legislatore ha cercato di circoscrivere l'area del penalmente rilevante, richiedendo per la commissione del reato di abuso di ufficio l'inosservanza di un dovere vincolato dell'attività amministrativa, senza margini di discrezionalità.
E soprattutto il richiamo all'irrilevanza penale della scelta discrezionale del funzionario pubblico che assume un ruolo decisivo nella dinamica del reato di abuso di ufficio, perché escludere dai confini dell'abuso di ufficio le scelte discrezionali del pubblico ufficiale significa legittimare le forme più gravi e diffusi di sfruttamento dell'ufficio e di favoreggiamento affaristico ai fini privati, che rappresentano le manifestazioni più significative dell'uso scorretto del potere discrezionale.