Il nuovo “traffico di influenze illecite”

15 Luglio 2024

La c.d. legge Nordio, tra gli altri contenuti, riscrive il reato di “traffico di influenze illecite” restringendone l'ambito di applicazione rispetto al testo precedente. Il nuovo reato, difatti, prevede che il mediatore abbia, e sfrutti intenzionalmente, delle relazioni effettive (“esistenti”) con il funzionario pubblico; tipizza la “mediazione illecita” rilevante limitandola alla finalità di corruzione ovvero alla finalità di ottenimento di un vantaggio illecito costituente reato; introduce l'inedita nozione di utilità solo “economica”.

Da un lato, quindi, il legislatore ha inteso superare il precedente difetto di tipicità ma, dall'altro, ha ristretto l'ambito delle condotte penalmente rilevanti con l'effetto che non sembra più essere perseguita, se non in termini limitati, la funzione di evitare indebiti condizionamenti dell'azione dell'Amministrazione.  

Breve storia del millantato credito e del traffico di influenze

Il codice penale del 1930 con l'art. 346 c.p., “millantato credito”, sanzionava la condotta definita di “vendita di fumo”, ovvero il caso di chi, vantando rapporti (appunto “millantando credito”) con pubblici ufficiali e la sua capacità di condizionarne le decisioni, proponeva, in cambio di denaro o altre utilità, la sua mediazione secondo due schemi, che costituivano autonomi reati. Con il primo comma, la offerta della propria mediazione a pagamento nei confronti del pubblico ufficiale (o pubblico impiegato che presti un pubblico servizio). Con il secondo comma, il più grave caso in cui il mediatore chiedeva denaro o altra utilità non per sé bensì simulando di doverlo consegnare al funzionario (“col pretesto di dovere comprare il favore” o doverlo “remunerare”) per corromperlo.

Il soggetto che offriva l'utilità, pur avendo una intenzione illecita, era ritenuto vittima di una frode (gli veniva “venduto fumo”) e, quindi, non era punibile.

La norma, nelle prime interpretazioni, aveva di mira «il prestigio della pubblica amministrazione, il quale viene leso anche con la promessa di corresponsione di denaro o di altra utilità, ogni qualvolta il malizioso comportamento di taluno faccia apparire i pubblici funzionari come corrotti o corruttibili, o, comunque, suscettibili di essere influenzati da inframettenze illecite» (Cass. pen., sez. II, n. 1298/1965) e, quindi, la condotta del committente, in questa prospettiva, non ledeva alcun interesse tutelato (era, anzi, se non persona offesa, quantomeno “danneggiato” dal reato, così Cass. pen., sez. VI, n. 10662/2003).

Del resto, sino al 2012 la pena dell'art. 346, comma 2, c.p. era più alta di quella prevista per la corruzione propria; evidentemente, nella prospettiva originaria del codice, era più importante il prestigio formale dell'Amministrazione che la effettiva fedeltà dei funzionari.

In epoca più recente, la giurisprudenza aveva ampliato la portata della disposizione ritenendo che l'art. 346 c.p. riguardasse non solo la vanteria di rapporti inesistenti (o, se esistenti, del tutto inconsistenti per il risultato prefigurato), ma anche il caso di rapporti effettivi tra millantatore e soggetto pubblico. In tale prospettiva, l'ipotesi del secondo comma assumeva la funzione di tutela anticipata rispetto alla corruzione, coprendo i casi di attività prodromica a questa (Id est, ovviamente, il caso di mancato raggiungimento della prova dell'effettivo esercizio di influenza sul funzionario pubblico). Insomma, una figura di reato ibrida, in una ipotesi vicina alla truffa e, nell'altra, una forma di tutela anticipata rispetto alla corruzione. In tali termini, anche l'interesse tutelato era riconosciuto in quello, più moderno, del retto e imparziale funzionamento della pubblica amministrazione, messo in pericolo da possibili forme di interferenza (Cass. pen., sez. un., n. 12822/2010). Anche in dottrina si tendeva a ritenere che il reato, più che tutelare il prestigio formale, valesse a prevenire il mercanteggiamento di rapporti con i soggetti pubblici.

Con la l. n. 190/2012, vi era una riforma complessiva della materia dei reati contro la P.A., realizzandosi anche gli impegni presi con la adesione alla Convenzione ONU contro la corruzione, del 31 ottobre 2003, e alla Convenzione penale sulla corruzione, del 27 gennaio 1999 (ratificate rispettivamente con l. 3 agosto 2009, n. 116, e l. 28 giugno 2012, n. 110).

Tali convenzioni prevedevano la introduzione di sanzioni per il trading of influence, descritto quale condotta di chi, di iniziativa o su sollecitazione, prometta o dia vantaggi indebiti a titolo di remunerazione in favore di chi «afferma o conferma di essere in grado di esercitare un'influenza sulla decisione» di un pubblico funzionario, indipendentemente dall'essere l'influenza effettivamente esercitata «oppure che la supposta influenza sortisca l'esito ricercato». La Convenzione del 2003 in tale schema di condotta introduceva la finalità del committente di ottenere un “indebito vantaggio”.

Quindi, era una prospettiva diversa rispetto all'apparentemente simile millantato credito.  Si individuava il rischio concreto di uso e vendita di una capacità di influenza, risolvendo l'evidente difficoltà probatoria con la irrilevanza dell'accertamento dell'effettiva capacità di influenza: compravendere una capacità di influenza è già un comportamento di rischio per gli interessi tutelati dalle convenzioni.

Il legislatore, perciò, introduceva il nuovo art. 346-bis c.p., “traffico di influenze illecite”, che “ritagliava” un ambito di attività illegali che la giurisprudenza aveva fatto rientrare nel millantato credito ma con la fondamentale differenza (coerente con la diversa oggettività del reato) della sanzione per il committente.

La disposizione, invero, riprendeva lo schema del millantato credito prevedendo due ipotesi, quella della mediazione “illecita” in cambio di utilità, a ben vedere l'unica condotta espressamente ipotizzata dalle convenzioni (la compravendita della affermata o confermata capacità di influenza), nonché quella di mediazione in una ipotetica corruzione (stranamente solo rispetto alla ipotesi dell'art. 319 c.p.) ove la utilità corrisposta dal privato interessato era destinata al pubblico funzionario - fuori, ovviamente, dai casi di (prova dell') effettiva perfezione del reato di corruzione).

In questa prima versione il “traffico di influenze illecite” era riferito ai soli casi di rapporti reali tra mediatore e pubblico funzionario: la definizione della condotta era “sfruttando relazioni esistenti”. Nel contempo, era mantenuta in vigore la figura del millantato credito cui la nuova disposizione sottraeva, appunto, il caso delle relazioni esistenti lasciando solo quello delle relazioni “millantate”, ovvero inesistenti.

In tal modo, quindi, le due norme coprivano l'intero ambito delle condotte immaginabili con la peculiarità che solo l'art. 346-bis c.p. sanzionava anche il soggetto che chiedeva la mediazione, per le ragioni già dette. L'ulteriore peculiarità di tale “sistema” normativo era che la condotta di traffico di influenze era sanzionata “da uno a tre anni di reclusione”, quindi molto meno gravemente rispetto a quella del millantato credito (da uno a cinque anni di reclusione per la mediazione illecita e da due a sei anni di reclusione per quella corruttiva). Vi era anche una particolare differenza: nel “vecchio” millantato credito si faceva riferimento alla corresponsione di “utilità”, nel traffico di influenze solo a “vantaggi patrimoniali”.

Tale scelta di una pena sensibilmente più bassa era stata ritenuta in dottrina poco comprensibile, in quanto difficile da giustificare sul solo valore della tutela del prestigio formale della P.a., consono al modello iniziale del codice ma non al contesto successivo, come del resto delineato dalle citate Convenzioni. Vero che in un caso si trattava di una lesione effettiva di un interesse (il retto e imparziale funzionamento della pubblica amministrazione) mentre, nell'altro, si anticipava la soglia di punibilità ben prima della configurabilità di un tentativo di corruzione, ma in concreto le differenze danno/pericolo non apparivano così evidenti per giustificare pene così differenziate.

A parte il collocare i casi concreti nell'una o nell'altra norma in base all'evanescente differenza delle relazioni asserite e delle relazioni “esistenti”, appariva di facile configurazione l'ipotesi di “remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio”: fase propedeutica ad una possibile corruzione che, però, non si doveva realizzare, sia per la clausola esplicita “fuori dei casi di concorso” in corruzione che per la obiettiva definizione della condotta (Cass. 29789/2013). Insomma, una chiara ipotesi di tutela anticipata (per i casi in cui la influenza non fosse stata effettivamente esercitata, non avesse avuto risultati o, il che è la stessa cosa in concreto, non si fosse riusciti a provare l'accettazione dell'offerta corruttiva).

Immediata, invece, la difficoltà di qualificare la condotta di “mediazione illecita verso” un pubblico funzionario. Con tale specificazione la norma introduceva una specificazione per evitare di ritenere illecite quel tipo di pressioni definite quale attività di lobbying, ovvero l'“attività di semplice influenzamento esercitata dai gruppi di pressione”; ma, su come distinguere, nulla diceva.

Dopo pochi anni (e poca casistica) vi è stata una significativa riforma: la legge n. 3 del 2019, (recante “Misure per il contrasto dei reati contro la p. a.”, detta volgarmente “spazzacorrotti”) ha ampliato la fattispecie abrogando nel contempo il reato di millantato credito.

In sintesi, con la previsione di un unico reato e con le ulteriori modifiche legislative apportate all'art. 346-bis c.p., queste erano le novità:

  • pena identica per entrambi i casi di relazione reale o solo vantata con il pubblico ufficiale od equiparato;
  • sempre punibile chi accetta la mediazione;
  • rilevante la promessa di qualsiasi “utilità”, non più solo patrimoniale;
  • il soggetto rispetto al quale è vantata una relazione inesistente può essere qualsiasi incaricato di pubblico servizio;
  • prevista anche la mediazione per corruzione ex art. 318 c.p.

La disposizione così riformata intendeva, secondo la voluntas legis, inglobare tutte le condotte del millantato credito ma, come da ultimo chiarito da Cass. pen., sez. un., n. 19357/2024, la lettera della disposizione non riguarda le condotte di mera millanteria; a ritenere diversamente, il soggetto che corrisponde le utilità per la mediazione, potrebbe essere punito per una condotta illecita meramente putativa.

Ultima notazione: nell'ordinamento penale è restata formalmente in vigore la più grave ipotesi di “millantato credito” dell'art. 382 c.p., “millantato credito del patrocinatore”. Se ne parlerà oltre.

Funzione e caratteristiche essenziali del “nuovo” reato

La riforma del 2024, con inversione di tendenza rispetto a recenti disposizioni che hanno aumentato di numero e/o aggravato fattispecie penali, stavolta ha avuto di mira la riduzione dell'ambito del penalmente rilevante, abrogando il reato di “abuso di ufficio” (pur recuperandone ampia parte con il reato di cui all'art. 314-bis c.p. introdotto con il d.l. n. 92/2024) e restringendo fortemente le condotte di traffico di influenze punibili.

Tale reato, difatti, è stato sostanzialmente ridimensionato, (ri)avvicinandosi alla prima versione della disposizione, quella introdotta nel 2012, che limitava la condotta incriminata ai casi di “relazioni esistenti” con il soggetto pubblico “venduto” dal mediatore. Ma la prima versione della disposizione conviveva con la previsione del vecchio millantato credito con il quale era punita la millanteria di “relazioni asserite”; mentre, una volta abrogato l'art. 346 c.p., le condotte basate su relazioni “asserite” o rientrano nell'ambito della truffa, ricorrendone tutte le condizioni (Cass. pen., sez. un., n. 19357/2024), ovvero sono penalmente irrilevanti.

Il testo della nuova norma in ampia parte recupera quello della disposizione preesistente con poche, ma rilevanti, modifiche.

La fattispecie, pur ridimensionata, si caratterizza per la sua funzione di anticipare la tutela penale rispetto ad una possibile corruzione venendo punite entrambe le parti di questo accordo. La clausola di riserva (fuori dei casi di concorso in reati di corruzione) esplicita ciò che comunque emerge dalla descrizione della condotta incriminata.

Fuori dai casi di concorso nel reato di corruzione, la norma individua quale soggetto principale (chiunque) il “mediatore”, ovvero colui che ha effettivi rapporti (“relazioni esistenti”) con il p.u./i.p.s. e tali rapporti utilizzi “intenzionalmente” per farsi consegnare/promettere denaro o altra “utilità economica” per remunerare il soggetto pubblico “in relazione all'esercizio delle sue funzioni”.

Il significato di “utilizzando intenzionalmente allo scopo” (che sostituisce “sfruttando”) appare chiaro: è il caso in cui il mediatore abbia concluso l'accordo con la controparte manifestando chiaramente la effettività e idoneità della propria relazione con il pubblico funzionario per ottenere il risultato. Invero, dopo si valuterà se questo sia realmente un punto innovativo rispetto alla norma previgente.   

La nuova fattispecie nel primo comma prevede sostanzialmente le medesime due ipotesi: la condizione comune è quella di avere ottenuto la promessa o la dazione di denaro o altro vantaggio patrimoniale, distinguendosi poi le due possibili finalità perseguite con le capacità di influenza:

  • nel primo caso quanto richiesto dal mediatore deve essere sempre finalizzato a remunerare il soggetto pubblico “in relazione all'esercizio delle sue funzioni”. Ovvero, deve essere quantomeno prospettata la condotta di cui all'art. 318 c.p. Il dato qualificante è la finalità di corruzione, non è certamente escluso che il mediatore chieda anche una propria quota, ma non è una condizione strutturale;
  • nel secondo caso, il mediatore chiede denaro etc., evidentemente a proprio favore, “per realizzare un'altra mediazione illecita”.

In tale seconda ipotesi, il punto qualificante della nuova disposizione è la definizione di tale mediazione, in precedenza mai chiarita, tanto da rendere “debole” la tipicità delle vecchie versioni della norma: si tratta della   condotta di (prospettata) induzione del soggetto pubblico «a compiere un atto contrario ai doveri d'ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito».  

I soggetti

Si è in presenza di un reato comune, non essendo richiesta alcuna qualifica sia per il mediatore che per il committente. È invero previsto quale aggravante il caso in cui il mediatore sia un pubblico ufficiale o un incaricato di p.s. Tale previsione, comunque, non lo rende un reato proprio, poiché tale circostanza appare ragionevolmente mirata a sanzionare maggiormente le ipotesi in cui i meccanismi di intermediazione illecita nascano all'interno della stessa amministrazione. Si precisa “ragionevolmente” poiché il testo non fa alcun riferimento ad un collegamento tra la qualifica e la vicenda in concreto, in teoria l'aggravante è applicabile anche, ad es., al funzionario di una agenzia fiscale che accetti di mediare sfruttando la sua relazione con un parente che abbia il potere di rilasciare autorizzazioni in un Comune. Simili (poco comprensibili) imprecisioni sono presenti anche in altre norme recenti, come quella sul depistaggio (che ha richiesto interventi della giurisprudenza per chiarimenti) o l'art. 391-ter c.p. È quindi legittimo ipotizzare che la giurisprudenza escluderà una interpretazione letterale ma formalista applicando la aggravante solo quando il ruolo abbia fatto gioco nella commissione del fatto (tipicamente quando si sfruttano i rapporti di colleganza e, quindi,  come detto,  i meccanismi di intermediazione illecita nascano all'interno della stessa amministrazione); in tale caso, la qualifica incide sulla materialità del fatto e/o sulla gravità dell'elemento psicologico. Non è invece ragionevole una interpretazione ampia che sanzionerebbe la mera riprovevolezza (“ti punisco di più perché mi attendo una tua maggiore fedeltà”). L'aggravamento, ovviamente, si applica anche al committente secondo le comuni regole.

L'“influenza” è rilevante se riguarda pp.uu. o i.p.s. nazionali o stranieri (ex art. 322-bis c.p.); continuano ad essere, quindi, fuori dalla previsione della disposizione le relazioni con esponenti politici senza incarichi (come affermato da Cass. pen., sez. VI n. 49048/2004 in tema di millantato credito) – nel caso concreto, ovviamente, è possibile dimostrare che costoro siano un tramite con pubblici funzionari che dovranno “mediare”.

La condotta di utilizzo di relazioni esistenti

La disposizione del 2012 prevedeva: “sfruttando relazioni esistenti”. Quella del 2019, inglobando (parzialmente, come definitivamente chiarito dalle Sez. U. cit.) l'abrogato millantato credito, “sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite”. La disposizione del 2024, pur recuperando in larga parte il testo precedente, indica la condotta in “utilizzando intenzionalmente allo scopo relazioni esistenti”.

Innanzitutto, va chiarito il significato di utilizzando intenzionalmente allo scopo”: è il caso in cui il mediatore abbia concluso l'accordo con la controparte manifestando chiaramente la effettività e idoneità della propria relazione con il pubblico funzionario per ottenere il risultato. È qualcosa di diverso/in più rispetto al vecchio “sfruttando … relazioni esistenti”? La riforma intende evidentemente affermare la necessità del dolo specifico. Così è risolta l'incertezza sorta nella lettura della disposizione previgente: i più affermavano che era sufficiente il dolo generico, ma altri ritenevano che si trattasse di dolo specifico in quanto era proprio l'intenzionalità a rendere offensiva la condotta.

In realtà, salvo la maggiore enfasi, non sembra che la nuova definizione di per sé possa ampliare o ridurre i casi di applicazione della disposizione.

Piuttosto, aiuterà a selezionare le condotte rilevanti nei sensi di cui appresso.

Se “sfruttando” poteva essere riferito alla fase della conclusione del “contratto di mediazione illecita” (nel senso: «ho queste relazioni e le metto a tua disposizione dietro compenso») il senso di “utilizzando” potrebbe sembrare quello di iniziare effettivamente i contatti con il pubblico funzionario per  corromperlo o indurlo – così, del resto sembra affermare il dossier dell'ufficio studi del Senato («le relazioni del mediatore con il pubblico ufficiale devono essere effettivamente utilizzate»).

In realtà, la lettura complessiva del testo, da cui si comprende che l'“utilizzazione” attiene alla fase dell'accordo con il committente e che la mediazione è intesa quale attività futura, fa propendere per una portata dalla disposizione non dissimile dal precedente “sfruttando”, con la precisazione della necessità del dolo specifico.

Quello che è maggiormente rilevante è, ovviamente, l'esclusione dalla incriminazione della condotta di sfruttamento di relazioni “asserite”.

Il principale e macroscopico effetto è il definitivo trasferimento nel penalmente irrilevante (e, quindi, nel lecito) di condotte sanzionate sino a pochi anni fa con pene sino a sei anni di reclusione (salva l'ipotesi speciale dell'art. 382 c.p.).

Questo netto passaggio da lecito e illecito renderà presumibilmente determinante il profilo della negazione dell'“esistenza” delle relazioni, che, invece, sino al 2019 rientrava addirittura nell'interesse dell'inquisito affermare, essendo più alta la pena (ex art. 346 c.p.) per lo sfruttamento di relazioni “asserite”.

Considerato come la riforma abbia tenuto conto, più che di una valutazione autonoma del fenomeno alla luce degli impegni assunti con le citate Convenzioni, del diritto vivente, come anche dopo si dirà, appare corretto ritenere che la interpretazione dell'ambito delle relazioni esistenti”, anche nella voluntas legis, possa essere quella della precedente giurisprudenza di legittimità formatasi sulla disposizione ante 2019: «l'esistenza delle relazioni tra intermediario e soggetto pubblico, che nell'ottica del patto dovranno essere sfruttate, è il presupposto del reato» (Cass. pen., sez. VI, n. 53332/2017). Per una più chiara specificazione è bene richiamare testualmente i passaggi della decisione, considerato che questo sarà uno dei temi principali del futuro contenzioso per il sottile discrimine tra reato e fatto irrilevante:

«[…] la esistenza della relazione con il soggetto pubblico costituisce il sostrato dello sfruttamento della influenza che l'agente è in grado di esercitare per soddisfare le esigenze di un soggetto che è ben consapevole di dovere comprare i favori del pubblico ufficiale, e che per questa ragione viene punito, sicché è necessario che, nel reato in esame, lo sfruttamento delle relazioni esistenti si leghi in modo inscindibile con la dazione o la promessa del denaro o altro vantaggio patrimoniale, nel senso che lo sfruttamento costituisce la ragione per cui avviene tale dazione o tale promessa atteggiandosi l'uno come risorsa e l'altra come vantaggio. In altre parole, la dazione o la promessa costituiscono il corrispettivo dello sfruttamento di relazioni esistenti e tale sfruttamento in favore del compratore di influenze deve costituire la causa o quanto meno il motivo determinante dell'accordo con l'intermediario».

Quindi, si rileva, valgono tutte quelle relazioni che possono comportare una capacità di influenza «si pensi alle relazioni di parentela, sentimentali, amicali, di subordinazione o di rapporto lavorativo, presenti al momento del reato» e non quelle relazioni che, per quanto reali, ma “saltuarie, incostanti o desuete” non siano in grado di garantire una possibilità di influenza. In tali ambiti, quindi, si rientrerebbe nei “vantati” rapporti “esistenti” (senza capacità di influenza), oggi penalmente irrilevanti. Restano invece fuori dal codice penale i rapporti asseriti ma non (provati) esistenti in alcuno modo, salvo che siano stati prospetti a condizioni tali da potere integrare il diverso reato di truffa. Insomma, quel che importa è che «le relazioni tra mediatore e pubblico agente siano esistenti e reale sia il potere di influenza del mediatore sul pubblico funzionario».

Nel caso di Cass. pen., sez. VI, n. 53332/2017, il mediatore era un operatore di p.g. che offriva la sua mediazione rispetto ad un P.M. con il quale collaborava – rapporto “fiacco” ma efficace rispetto allo scopo, e la induzione era nel senso che tale operatore contava di carpire la buona fede dell'inquirente. In termini, ma indicativo di una scala maggiore del traffico di influenze, è il caso di Cass. pen., sez. VI, n. 18125/2019 ove un ex direttore generale di una società in house di un grande Comune si offriva quale mediatore per indurre i dirigenti della società a favore il committente in gare pubbliche (violazione dell'art. 353 c.p.). Il rapporto esistente era quello dovuto alla attività precedente nell'ambito della società e la “utilizzazione” consisteva nell'essere il mediatore ancora percepito quale “espressione del sindaco” p.t., il che garantiva la sua autorevolezza e capacità di influenza.

La utilità economica

In entrambe le ipotesi, remunerazione diretta al mediatore o destinata al soggetto da corrompere, la nuova norma ha limitato il reato alla offerta di utilità “economica”. L'innovazione ha un effetto rilevante.

La versione 2012 della norma parlava di denaro o altro “vantaggio patrimoniale”, espressione corrispondente a quella in uso nel previgente abuso di ufficio. La riforma del 2019 prevedeva “denaro o altra utilità” in questo utilizzando il sintagma comune a tutti i reati contro la pubblica amministrazione quando vi sia, appunto, la corresponsione di una utilità (artt. 317,318 c.p. etc).

La nuova disposizione, invece, limita il reato, alla corresponsione di denaro ovvero di una utilità “economica”. L'aggiunta non lascia dubbi, è netta e appare chiaramente finalizzata.

La ragione può essere comprensibile, considerando come la riforma del 2024 intenda limitare lo spazio ad indagini, più che a processi, non sempre fondati su solide basi. Presumibilmente intende evitare che, in caso di rapporti non ben chiari con il pubblico ufficiale (il quale, si rammenta, non deve essere consapevole scattando altrimenti il reato di corruzione) e di attività non palesemente contrarie ai doveri di ufficio, si proceda ad indagini sulla base della prestazione di utilità più sfumate e non di immediata valutabilità patrimoniale.

La disposizione, però, è del tutto disallineata rispetto ai reati di corruzione per i quali, si ripete, il limite di “economico” all'utilità non è mai presente, per cui si è costantemente ritenuto che vi rientri qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che abbia un valore per il pubblico funzionario (per tutte, Cass. pen., sez. VI n. 51765/20189; spesso si discute di utilità consistente in “raccomandazioni” per promozioni etc).

La conseguenza è rilevante, ed è apprezzabile soprattutto nella ipotesi “corruttiva”. In casi in cui la offerta (o, per ragioni logiche, più difficilmente la effettiva consegna) riguardi una utilità non economica, pur essendo stato accertato con certezza il prodromo di una corruzione, il fatto sarà penalmente irrilevante.

Quanto alla interpretazione, il sintagma “utilità economica”, come detto, non esiste(va) nel codice penale; può allora farsi riferimento alla giurisprudenza formatasi in tema di “vantaggio patrimoniale” del previgente abuso di ufficio: («deve determinare di per sé un beneficio economicamente apprezzabile, nel senso che deve avere un connotato di intrinseca patrimonialità oppure deve derivare dalla creazione di una condizione più favorevole sotto il profilo economico, non potendosi considerare sufficiente il determinarsi di una situazione valutabile economicamente solo in maniera indiretta o potenziale» Cass. pen., sez. VI, n. 18985/2022). Si consideri che il “vantaggio patrimoniale” è rientrato nell'ordinamento penale con il nuovo art. 314-bis c.p. (Indebita destinazione di denaro o cose mobili) di cui al d.l. citato.

La finalizzazione alla corruzione

È l'ipotesi ormai principale (tanto da essere anteposta all'altra, diversamente dal vecchio testo) ed è, invero, di relativamente facile configurazione. L'intermediario accetta la dazione o promessa di denaro o altra utilità economica che servirà a remunerare il funzionario da corrompere. Non è ovviamente escluso che vi sia una quota anche per l'intermediario ma è comunque necessario che vi sia quella destinata alla corruzione. Nella attuale formulazione deve trattarsi di una somma/utilità effettivamente destinata alla corruzione perché, in caso contrario, laddove in realtà il mediatore simuli l'intervento e si appropri della tangente, ricorrerebbe un caso di “vecchia” millanteria, oggi penalmente lecito, salvo il caso in cui vi sia anche una condotta decettiva che integri la truffa.

La condotta corruttiva prevista è quella generale dell'art. 318 c.p., mentre, laddove l'accordo sia riferito al compimento di un atto contrario doveri d'ufficio, ricorre l'ipotesi aggravata.

La clausola di riserva espressa e, si ripete, la ragionevole lettura della disposizione impongono che la corruzione non sia realizzata. Ovviamente, può anche essere semplicemente non provata, essendo questa una delle funzioni di anticipare la soglia di punibilità.

La mediazione illecita

La condotta di “mediazione illecita” è quella tipizzata nei modelli internazionali di trading of influence: è una tutela anticipata rispetto a condotte opache rese possibili dalla capacità di influenza sui soggetti pubblici.

L'inserimento della espressione “mediazione illecita” sin dal 2012 ha creato problemi interpretativi non essendo mai stato chiarito a livello normativo né il suo significato né, all'opposto, quale sia una mediazione “lecita” nei rapporti con l'Amministrazione. L'espressione, in conseguenza, era stata intesa quale clausola generale la cui definizione era, di fatto, assegnata alla (incerta) interpretazione giurisprudenziale.

La fattispecie incriminatrice era tutta incentrata sul carattere illecito della mediazione, lasciando intendere che la relativa disposizione non sarebbe stata applicabile alle forme di mediazione lecita ovvero quelle attività, consentite dall'ordinamento, di "pressione" o di c.d. "lobbying" nei confronti dei pubblici funzionari: attività, queste, per le quali era stata preannunciata l'emanazione di una apposita legge che ne avrebbe dovuto disciplinare le manifestazioni consentite, e che però, nonostante gli auspici, non è stata ancora adottata. Il progetto di legge per disciplinare la «rappresentanza di interessi nell'ambito dei processi decisionali pubblici e svolta professionalmente dai rappresentanti di interessi […] attraverso la presentazione di domande di incontro, proposte, richieste, studi, ricerche, analisi e documenti  […] nonché lo svolgimento di ogni altra attività diretta a contribuire alla formazione delle decisioni pubbliche, nel rispetto dell'autonomia delle istituzioni e con obbligo di lealtà e integrità» non è stato più portato avanti.

La nuova disposizione, invero, sembra avere finalmente dato una definizione puntuale (pur se decisamente minimale) ma, per comprenderne il contenuto e l'adeguatezza, è essenziale considerare l'evoluzione giurisprudenziale.

In assenza di una normativa amministrativa di disciplina delle attività di lobbying la giurisprudenza della Cassazione, in particolare con Cass. pen., sez. VI, n. 18125/2019, Cass. pen., sez. VI, n. 40518/2021 e, poi, Cass. pen., sez. VI, n. 1182/2021, aveva individuato una lettura “tassativizzante”.

Osservava la Corte che «… non è possibile, allo stato della normativa vigente, far riferimento ai presupposti e alle procedure di una mediazione legittima con la pubblica amministrazione (la c.d. lobbying), attualmente non ancora regolamentata.

Il contenuto indeterminato della norma rischia di attrarre nella sfera penale, a discapito del principio di legalità, le più svariate forme di relazioni con la pubblica amministrazione, connotate anche solo da opacità o scarsa trasparenza, ovvero quel ‘sottobosco' di contatti informali o di aderenze difficilmente catalogabili in termini oggettivi e spesso neppure patologici, quanto all'interesse perseguito». Ciò imponeva una lettura «…  che soddisfi il principio di legalità […] che fa leva sulla particolare finalità perseguita attraverso la mediazione: la mediazione è illecita quando è finalizzata alla commissione di un "fatto di reato" idoneo a produrre vantaggi per il privato committente».

Se la giurisprudenza doveva fare i conti con una disposizione vaga il legislatore aveva l'opzione, pur auspicata da più parti, di regolamentare l'attività di lobbying, non certo al solo fine di delimitare le condotte costituenti reato ma anche per le note ragioni di trasparenza della capacità di influenza rispetto all'agire legislativo e amministrativo.

Invece, il legislatore, per delimitare l'ambito della mediazione “illecita”, ha direttamente tipizzato quest'ultima aggiungendo il primo capoverso definitorio: il suo contenuto è palesemente la trasposizione della massima tratta dalle sentenze citate, ovvero la mediazione è illecita quando sia funzionale a indurre il pubblico funzionario a compiere un atto contrario ai doveri di ufficio alla duplice condizione che tale atto:

  • costituisca reato
  • possa derivarne un vantaggio indebito (sottinteso “per il privato committente”).

Certamente non vi è stata “riduzione” dell'ambito delle condotte incriminate rispetto al cd. diritto vivente formatosi sulla vecchia disposizione. Ma, se la giurisprudenza era dichiaratamente obbligata a una lettura minimale per ottenere un ambito di certezza della condotta incriminabile nel rispetto del principio di legalità, il legislatore, che poteva (e forse doveva, secondo le fonti internazionali) costruire una adeguata norma incriminatrice, ha rinunciato ad ogni possibilità di sanzionare condotte che certamente, nella comune percezione, superano gli ambiti di una accettabile attività di mediazione con pubblici ufficiali (che non è solo la più altisonante azione di “lobbying” ma si può realizzare anche in altre ipotesi minori).

È, quindi, oggi testuale che, purché la remunerazione sia destinata soltanto all'intermediario e non anche in ipotesi al soggetto pubblico, non sia penalmente rilevante una mediazione finalizzata ad ottenere dal P.u. o dall'i.p.s. un atto contrario ai doveri di ufficio costituente reato senza vantaggio indebito ovvero un atto contrario che non costituisca reato pur portando a un vantaggio indebito.

Con riferimento alle ipotesi “minori”, si pensi ad esempio, alla richiesta di un intervento per convincere un dipendente di polizia giudiziaria a compiere una perquisizione illegittima a carico di una persona invisa senza una prospettiva di vantaggio diretto o la richiesta di mediazione per saltare liste di attesa in un ospedale, fatto in sé non costituente reato. In tali casi, la condotta del solo   intermediario potrebbe costituire reato di truffa nel caso di relazioni solo vantate e ricorrendone le altre condizioni.

Peraltro, l'ipotesi di finalizzazione ad un atto contrario ai doveri di ufficio costituente reato è stata resa meno probabile con la contestuale abrogazione dell'abuso di ufficio (al netto del suo contenuto ripristinato dall'art. 314-bis c.p.), che ha ridotto l'ambito in cui un'attività contra legem del pubblico funzionario costituisca reato.

In definitiva, la scelta normativa appare avere rinunciato alla possibilità di individuare limiti (penalmente rilevanti) alle attività di influenzamento. Non solo, quindi, non è previsto in positivo come tali attività possono essere svolte quando destinate ad incidere su rilevanti scelte amministrative, ma non sono neanche previsti, con il meccanismo della sanzione penale, limiti corrispondenti al “minimo etico”. Sono punibili solo i casi estremi dell'attuale disposizione.

È, però, indubbio, che la nuova norma, codificando il “diritto vivente”, abbia almeno risolto la vaghezza della precedente disposizione.

Consumazione e tentativo

Lo schema resta il medesimo della precedente versione della disposizione: la consumazione si ha già con la promessa, come testuale nella disposizione, e il tentativo è in teoria configurabile (ma poco probabile), tenendo presente che la condotta non deve essere ancora arrivata alla soglia della promessa.

Trattamento sanzionatorio

La pena edittale è della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni e sei mesi, identica nella misura massima rispetto alla versione previgente e con un leggero aumento della pena minima (in precedenza pari ad un anno). Considerato che le aggravanti non sono a effetto speciale, sono applicabili le misure coercitive diverse dalla custodia in carcere e non è possibile disporre intercettazioni né utilizzare quelle disposte per altri reati.

Il limite, nella pratica, è assai rilevante per la probabilità che determinati fatti possano emergere nel corso di intercettazioni per ipotesi di corruzione.

Aggravanti ed attenuanti – causa di non punibilità

Sono state citate nel testo le due aggravanti dell'essere il mediatore un p.u. o i.p.s. (chiarendosi la ragione per cui debba trattarsi di una condizione che abbia avuto influenza sulla condotta, in particolare quando la qualifica sia la ragione delle relazioni esistenti con il funzionario da remunerare o indurre) e dell'essere il fatto destinato al compimento del reato di cui all'art. 319 c.p.

Dell'altra aggravante, fatto connesso all' esercizio di attività giudiziaria, si parla dopo in connessione con la ipotesi dell'art. 382 c.p.

Sostituendo, poi, la precedente previsione di una attenuante della “particolare tenuità” del fatto, la riforma ha previsto che anche per questo reato siano applicabili le attenuanti di cui all'articolo 323-bis c.p.

Si ricorda che questa disposizione prevede due circostanze attenuanti per alcuni delitti contro la p.a. ivi elencati:

  • la pena è diminuita se i fatti commessi sono di particolare tenuità;
  • la pena è diminuita da un terzo a due terzi per chi efficacemente si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite.

Anche al reato in esame si applica la nuova causa di non punibilità dell'art. 323-ter c.p.

Rapporti con altri reati: la truffa e il millantato credito del patrocinatore

La nuova disciplina che limita la fattispecie alle sole ipotesi di rapporti esistenti risolve il tema della relazione con il reato di truffa. Difatti, in precedenza, la distinzione tra i due reati in caso di “vanto” di relazioni “asserite” poteva essere di ardua prova, oggi il riferimento alle sole relazioni “esistenti” riduce l'ambito di concreta interferenza tra le fattispecie. Resta, ovviamente, la possibilità che il mediatore, a fronte di relazioni autentiche, chieda il denaro frodando la controparte, senza alcuna volontà di spendere i suoi rapporti, potendo quindi sussistere una truffa; ma è questione del caso concreto.

Con questo terzo intervento nella materia, senza alcuna modifica dell'art. 382 c.p., “millantato credito del patrocinatore”, è indiscusso che non si tratti di una “dimenticanza”, ovvero di un mancato coordinamento, ma si è voluto effettivamente mantenere in vigore tale reato. In tale senso si sono espresse, alla luce della norma del 2019, Cass. pen., sez. un., n. 19357/2024, ancorché incidentalmente.

Questa fattispecie corrisponde esattamente al vecchio millantato credito, essendovi sia l'ipotesi di mediazione che quella del “pretesto” di remunerare il soggetto pubblico, con l'elemento specializzante dell'essere la condotta riferita alla “vendita” di giudice, pubblico ministero, testimone, perito o interprete.

Poiché, però, vi è nell'art. 346-bis c.p. l'aggravante del fatto commesso in relazione all'esercizio di attività giudiziaria, vanno chiariti i rispettivi ambiti di applicazione.

Ricorre, quindi, il traffico di influenze, secondo il principio di specialità, nel caso di condotta caratterizzata da relazioni esistenti, ove il vantaggio perseguito riguardi un qualsiasi trattamento favorevole in sede giudiziaria, di qualsiasi settore.

Al di fuori di quest'ambito, può ritenersi sussistere l'ipotesi di millantato credito del patrocinatore, reato proprio con riferimento a quest'ultima figura.

Relazione con le convenzioni internazionali e con il diritto dell'Unione Europea

Vari i parametri sovranazionali che appaiono condizionare la discrezionalità del legislatore nazionale nella data materia, e che potrebbero non essere stati pienamente rispettati con la definizione minimale della mediazione illecita.

  • La Convenzione Onu, ratificata con l. n. 116/2009 prevede che ogni Stato aderente “esamina l'adozione di misure legislative […]  per conferire il carattere di illecito penale” alla condotta di offrire «un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un'amministrazione o da un'autorità pubblica dello Stato Parte un indebito vantaggio» per ottenere a sua volta un vantaggio indebito dalla attività del pubblico ufficiale. Si noti, anche la influenza “supposta”. Il testo è, comunque, in termini di facoltatività della incriminazione.
  • La Convenzione di Strasburgo, ratificata con l. n. 110/2012, appare invece prevedere come doverosa (“Ciascuna Parte adotta i provvedimenti legislativi e di altro tipo che si rivelano necessari per configurare in quanto reato”) la introduzione del reato di “malversazione” consistente nel “proporre, offrire o dare, direttamente o indirettamente qualsiasi indebito vantaggio a titolo di rimunerazione a chiunque dichiari o confermi di essere in grado di esercitare un'influenza sulle decisioni” indipendentemente dal raggiungimento del risultato auspicato.

Il limite posto dal nuovo art. 346-bis c.p. al concetto di mediazione illecita e la irrilevanza penale del caso di relazioni “asserite” sembrerebbero, quindi, rendere il nuovo art. 346-bis c.p. non conforme a tale impegno.

In prospettiva, va valutata la Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta contro la corruzione (sostituisce la decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio e la Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione e modifica la Direttiva 2017/1371) che prevede quale doverosa la criminalizzazione del «… fatto di promettere, offrire o concedere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura per una persona o un terzo affinché detta persona eserciti un'influenza reale o presunta in vista di ottenere un indebito vantaggio da un funzionario pubblico».

Anche rispetto a tale parametro, la nuova previsione sembra essere decisamente riduttiva. Al riguardo, però, la Commissione Politiche UE della Camera, ha emesso un parere che contesta la conformità di tale previsione futura ai principi di sussidiarietà, attribuzione e proporzionalità, per tale via ritenendo non esservi alcun vincolo alla nuova disciplina (fra l'altro) del traffico di influenze.

In conclusione

Il nuovo reato di traffico di influenze non sembra potere svolgere se non limitatamente la sua originaria e principale funzione di sanzionare la condotta di vendita della effettiva capacità di esercitare «un'influenza reale o presunta in vista di ottenere un indebito vantaggio da un funzionario pubblico».  Dopo che per dodici anni non è mai stata tipizzata la nozione di mediazione illecita (o lecita), rendendo la disposizione di scarsa applicabilità, è stato ristretto lo stesso schema generale: la condotta di base del traffico di influenze è la mediazione in una presunta attività di corruzione, non portata a termine o, comunque, non provata, cui si aggiunge una residua ipotesi di “altra” mediazione illecita configurabile solo a limitate condizioni. 

A ben vedere, quindi, è stato abbandonato quasi del tutto il modello sovranazionale di riferimento, doveroso o meno che fosse.

Nel contempo, la limitazione della fattispecie rende definitiva la depenalizzazione, già conseguente alla riforma del 2019, della “vendita di fumo” (millantato credito dell'art. 346 c.p.), attività ormai penalmente lecita salvo i casi limitati, da ultimo chiariti da Sez. U. cit., in cui sia configurabile la truffa.

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