Il diritto di difesa del detenuto di fronte alla sanzione disciplinare

30 Luglio 2024

La sentenza n. 20258/2024 della Prima Sezione della Suprema Corte depositata il 2 maggio affronta alcuni dei profili più ampiamente dibattuti in merito all'esercizio del diritto di difesa del detenuto nel corso del procedimento disciplinare (art. 81 d.p.r. n. 230/2000). L'analisi intende mettere a fuoco i principali aspetti critici del procedimento quali, in particolare, la mancanza di un ragionevole spazio temporale tra il momento della contestazione dell'illecito disciplinare e quello della convocazione dell'incolpato davanti al consiglio di disciplina, non consentendo così la possibilità di predisporre un'adeguata difesa.

Il diritto di difesa del detenuto nel procedimento disciplinare secondo la Cassazione

Il problema del rispetto dei diritti del detenuto in carcere assume rilievo anche rispetto al tema del regime disciplinare. Con la sentenza n. 20258/24, la Prima Sezione della Suprema Corte ha affrontato il delicato tema dello spazio temporale concesso al detenuto per contestare la sanzione disciplinare irrogatagli, il cui procedimento è disciplinato dagli artt. 39 e ss. legge n. 354/1975 (legge ord. penit.) e dall'art. 81 d.p.r. 30 giugno 2000 n. 230 (reg. esec.).

Nello specifico, la Corte ha rigettato il ricorso avanzato dal condannato contro l'ordinanza del 19 ottobre 2023 del Tribunale di Sorveglianza di Perugia che aveva, a sua volta, respinto il reclamo presentato avverso l'ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto del 24 ottobre 2022 ed avente come oggetto la sanzione disciplinare dell'esclusione dalle attività in comune applicata per giorni tre, per aver rivolto un'espressione irrispettosa ad un'agente di polizia penitenziaria.

Il detenuto, vedendosi respingere il reclamo dapprima dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto e poi dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia, ha sottoposto alla Suprema Corte alcune questioni inerenti alla violazione dei suoi diritti di difesa, deducendo, nello specifico, due violazioni di legge.

La prima concerneva la mancata regolarità della procedura seguita dall'amministrazione penitenziaria circa l'adozione della sanzione disciplinare, in quanto, a detta del condannato, la contestazione dell'illecito disciplinare e la convocazione del consiglio di disciplina erano avvenute in unico atto, violando la scansione procedurale prevista dall'art. 81 reg. esec., secondo cui il direttore del carcere deve dapprima contestare l'illecito al detenuto, successivamente consentirgli di esporre le discolpe, in seguito svolgere attività istruttoria e da ultimo convocarlo dinnanzi al consiglio di disciplina.

La seconda riguardava un vizio di motivazione poiché il Tribunale di Sorveglianza aveva ritenuto che il rapporto disciplinare redatto dall'agente di polizia facesse fede fino a querela di falso, senza tenere conto del fatto che il ricorrente aveva dimostrato di aver contestato la falsità di tale atto mediante la presentazione di una querela alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Spoleto in cui denunciava la falsità del rapporto disciplinare.

Il regime disciplinare nell'ordinamento penitenziario italiano

Prima di entrare nel merito della pronuncia, appare opportuno delineare un quadro generale circa il tema del regime disciplinare nell'ordinamento penitenziario italiano.

In attuazione del principio cardine che impone il mantenimento dell'ordine e della disciplina all'interno degli istituti (art. 1 comma 3 ord. penit.), il nucleo centrale del regime penitenziario si compone di disposizioni che stabiliscono le regole di condotta cui i detenuti e gli internati devono conformarsi. Sono queste, infatti, regole la cui osservanza è indispensabile al fine di mantenere l'ordine interno e di garantire la sicurezza del carcere; condizione, quest'ultima, necessaria per l'attuazione degli scopi del trattamento (art. 2 comma 1 reg. esec.).

Il regime disciplinare, dunque, definisce il complesso delle norme di comportamento che regolano la convivenza dei componenti della comunità carceraria e il cui rispetto determina l'ordinato svolgimento della vita quotidiana all'interno degli Istituti penitenziari. In tale senso, può affermarsi che la disciplina assicura l'ordine, vale a dire garantisce la situazione di fatto nella quale ogni ristretto, mantenendo la propria “collocazione” all'interno della comunità in cui è inserito, nel rispetto dei doveri derivanti dallo stato di detenzione, contribuisce al regolare funzionamento dell'istituzione.

Per contro, la violazione di una regola di condotta può turbare l'ordine interno, ove il comportamento del ristretto sia disarmonico rispetto “al modello ritenuto essenziale alla vita dell'Istituto”, di modo che l'eventuale reazione del titolare del potere punitivo mira (anche attraverso la comminazione di una sanzione disciplinare) a recuperare quella condizione di fatto caratterizzata dall'ordinato svolgimento della vita quotidiana della comunità.

La pretesa a che siano rispettate le norme disciplinari e che, di conseguenza, sia mantenuto l'ordine non è fine a sé stessa, bensì è volta al raggiungimento degli specifici obiettivi che una determinata istituzione si prefigge di raggiungere. Nell'ordinamento penitenziario, tali finalità sono individuate nella sicurezza degli Istituti e nel trattamento individualizzato dei ristretti. Ne deriva che il mantenimento della disciplina e dell'ordine interno sono valori orientati a garantire ad ogni detenuto e agli operatori penitenziari il pacifico svolgimento – senza rischi per la loro incolumità personale – di tutte le attività e dei servizi istituzionali disciplinati dalle norme di legge e di regolamento, e che questa situazione oggettiva di sicurezza interna è condizione necessaria per la realizzazione delle finalità di trattamento dei ristretti.

Lo stretto legame esistente tra la disciplina e le finalità del trattamento dei detenuti emerge in due specifiche disposizioni: l'art.36 ord. penit. prevede che il regime disciplinare è attuato in modo da stimolare il senso di responsabilità e la capacità di autocontrollo; esso è adeguato alle condizioni fisiche e psichiche dei soggetti, mentre l'art.37 ord. penit. definisce le ricompense come il riconoscimento del senso di responsabilità del soggetto, da cui traspare, pertanto, la volontà del legislatore di considerare il regime disciplinare non solo come mezzo di gestione delle carceri, ma soprattutto come mezzo utile all'opera di rieducazione del detenuto, aventi la funzione di stimolare un atteggiamento critico nei confronti della condotta posta in essere.

L'attenzione rivolta all'esigenza di tutela dei diritti inviolabili di tutti i ristretti, infatti, definisce un sistema normativo in cui la disciplina e l'ordine si pongono non più come “valori assoluti”, espressione di un sistema penitenziario nel quale è predominante l'aspetto autoritario degli organi statali preposti all'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale, bensì come strumenti per garantire la sicurezza, che va calibrata sulle esigenze del trattamento penitenziario.

Il procedimento disciplinare

Governato dalle regole contenute nell'art. 81 reg. esec., il rito disciplinare è articolato in ridotti segmenti procedurali che dalla rilevazione di un'infrazione conducono all'applicazione di una sanzione tra quelle indicate nell'art. 39 comma 1 ord. penit., ossia il richiamo del direttore (n. 1), l'ammonizione (n. 2), l'esclusione da attività ricreative e sportive per non più di dieci giorni (n. 3), l'isolamento durante la permanenza all'aria aperta per non più di dieci giorni (n. 4) e, infine, l'esclusione dalle attività in comune per non più di quindici giorni (n. 5).

L'esercizio del potere disciplinare presuppone un comportamento del recluso che appaia sussumibile in una fattispecie tra quelle tipizzate dall'art. 77 comma 1 reg. esec. Detenuti e internati, infatti, «non possono essere puniti per un fatto che non sia espressamente previsto come infrazione dal regolamento» ex art. 38 comma 1 ord. penit. Valgono dunque anche in questo ambito i principi di legalità e tassatività in ordine ai comportamenti sanzionabili da parte dell'autorità amministrativa.

L'art. 38 comma 3 ord. penit. detta alcuni criteri per l'individuazione della sanzione disciplinare da applicare all'infrazione commessa dal detenuto. Nell'applicazione della sanzione si dovrà tenere conto della natura e della qualità del fatto, ma anche del comportamento e delle condizioni personali del soggetto che commette l'infrazione. Questi criteri permettono anche l'individuazione del dolo e della colpa, ma sono elementi irrilevanti nell'illecito disciplinare in quanto è sufficiente il solo requisito della volontarietà. Nell'art. 38 ord. penit. non c'è alcun cenno ad una correlazione tra i fatti illeciti e il tipo di sanzione da applicare, legame che invece si trova nell'art. 77 comma 3 reg. esec. dove è previsto che la sanzione dell'esclusione dalle attività in comune non può essere inflitta nell'ipotesi di infrazioni lievi. La richiamata disposizione regolamentare prevede un obbligo di motivazione del provvedimento disciplinare, a garanzia del soggetto che subisce la decisione. La motivazione deve, in particolare, riguardare la natura e la gravità del fatto ed anche le condizioni personali del soggetto.

Rilevata una condotta punibile ai sensi dell'art. 77 reg. esec., gli operatori penitenziari hanno il potere-dovere di redigere un atto formale (il rapporto) che deve essere “trasmesso al direttore (dell'istituto) per via gerarchica” ex art. 81 comma 1 reg. esec. Benché la legge non indichi un termine per la segnalazione al dirigente, si ritiene che i due adempimenti (redazione e trasmissione) debbano avvenire tempestivamente. E in effetti, il regolamento di esecuzione sembra predisporre un «meccanismo in base al quale l'operatore penitenziario redige il rapporto immediatamente dopo la constatazione diretta o la conoscenza del presunto fatto illecito, risultando palese la volontà di far coincidere la data del rapporto con la data in cui il fatto è stato commesso ed è stato appreso, ovvero con il momento in cui si è avuta altrimenti conoscenza del fatto».

Venuto a conoscenza del fatto di rilievo disciplinare, il direttore, «sollecitamente e comunque non oltre dieci giorni dal rapporto», deve contestare l'addebito all'accusato, «informandolo contemporaneamente del diritto ad esporre le proprie discolpe» ex art. 81 comma 2 reg. esec. La normativa non precisa i contenuti della comunicazione, limitandosi a stabilire che essa è resa al cospetto del comandante del reparto di polizia penitenziaria. La presenza di entrambi i soggetti – direttore e comandante del reparto di polizia – non è tuttavia considerata indispensabile da parte della dottrina, che ritiene essenziale unicamente l'attività realizzata dal dirigente penitenziario. Solo «la comunicazione dell'addebito […] effettuata da un soggetto il quale non rivesta la qualifica di direttore […] determina l'illegittimità dell'atto», che – se non sanata con la ripetizione della contestazione entro il termine previsto dal regolamento – invalida il provvedimento finale.

Informato dell'addebito l'accusato – adempimento essenziale per consentire a quest'ultimo di allestire le proprie difese –, il dirigente penitenziario svolge gli accertamenti sul fatto ex art. 81 comma 3 reg. esec. e, qualora dall'istruttoria emergano elementi a sostegno dell'accusa, entro ulteriori dieci giorni dalla data della contestazione convoca l'interessato davanti a sé o “fissa negli stessi termini, il giorno e l'ora della convocazione” davanti al Consiglio di disciplina. Si tratta di un organo collegiale composto dal direttore – ovvero, in caso di suo legittimo impedimento, dall'impiegato più elevato in grado – con funzioni di presidente, dall'educatore e da un professionista esperto nominato ai sensi dell'art. 80 ord. penit.

Quest'ultima disposizione è stata recentemente novellata dal d.lgs. 2 ottobre 2018 n. 123, che ha ridisegnato l'assetto del Consiglio di disciplina espungendone la figura del sanitario. Si è rilevato, infatti, che «il medico, oltre a non costituire una figura impegnata direttamente nell'osservazione e nel trattamento penitenziario dei detenuti, riveste nei confronti di questi ultimi una posizione professionale che, implicando aspetti di riservatezza e un rapporto fiduciario con gli assistiti, mal si concilia con un suo coinvolgimento in dinamiche inerenti all'accertamento di eventuali responsabilità disciplinari». Al fine di irrobustire l'imparzialità dell'organismo che giudica sulla responsabilità dell'incolpato e nella prospettiva di contrastare il più possibile la tendenziale separatezza del carcere dalla società, il legislatore ha ritenuto di sostituire il sanitario con un soggetto esterno al personale di ruolo dell'amministrazione penitenziaria, nominato ai sensi dell'art. 80 ord. penit.: un professionista che sia «dotato delle necessarie competenze ed esperienze ed assicuri terzietà e imparzialità rispetto ai fatti e alle persone oggetto del procedimento disciplinare».

Dunque, se il fatto appare rilevante in sede disciplinare, il direttore deve convocare l'accusato davanti a sé o fissare l'udienza innanzi al Consiglio. Il combinato disposto degli artt. 40 ord. penit. e 81 comma 4 reg. esec. distribuisce la competenza a decidere sull'addebito disciplinare a seconda della sanzione che si presume applicabile al detenuto (o all'internato). Ne segue che il riparto di competenza tra i due organi non dipende dalla fattispecie di illecito contestata, ma dalla gravità della sanzione che potrebbe essere irrogata. La prognosi è affidata al direttore dell'istituto, al quale, dunque, compete non solo un giudizio sulla rilevanza e sulla commissione del fatto da parte del recluso, ma anche sul tipo di sanzione che sarà in concreto irrogabile.

 Qualora ritenga adeguata alla presunta infrazione una delle sanzioni più lievi – il richiamo o l'ammonizione – il dirigente penitenziario convocherà il ristretto davanti a sé per la decisione disciplinare, mentre in caso contrario – ossia quando la gravità della condotta appaia tale da giustificare una risposta sanzionatoria più severa – fisserà l'udienza dinnanzi al Consiglio di disciplina.

Il diritto di esporre le proprie discolpe

Si apre così l'ultima fase del procedimento disciplinare, quella dedicata al giudizio in senso stretto. In sede di udienza, il comma 5 dell'art. 81 reg. esec. riconosce al detenuto e all'internato la facoltà di essere sentito e di esporre le proprie discolpe, ma tale diritto appare sensibilmente attenuato dalla mancanza di difesa tecnica e dalle limitate possibilità probatorie concesse all'incolpato. Quest'ultimo, infatti, non solo non può avvalersi del patrocinio di un difensore, ma neppure ha diritto di richiedere l'assunzione di mezzi di prova a discarico, “potendo, semplicemente, sollecitare i poteri istruttori dell'organo disciplinare, al quale è rimessa ogni insindacabile decisione sulla completezza del quadro probatorio”.

I limiti appena evidenziati all'esercizio dei diritti difensivi si amplificano ove si consideri che, di regola, il sistema normativo non collega a ogni singola infrazione una specifica sanzione da applicare. Ne consegue che, accertata l'illeceità della condotta, l'accusato può vedersi addebitare dal direttore o dal consiglio qualsiasi sanzione tra quelle previste dall'art. 39 ord. penit., pur nel rispetto del riparto di competenze tra i due organi. L'unica eccezione che si registra è quella prevista dall'art. 77 comma 3 reg. esec. in cui si precisa che «la sanzione dell'esclusione dalle attività in comune non può essere inflitta per le infrazioni previste nei numeri da 1) a 8) del comma 1, salvo che l'infrazione sia stata commessa nel termine di tre mesi dalla commissione di una precedente infrazione della stessa natura». La norma è volta ad impedire l'irrogazione di pene troppo afflittive in relazione all'entità dei comportamenti antidoverosi.

La scansione bifasica del procedimento sanzionatorio così come disciplinato dall'art. 81 reg. esec. impone, pertanto, il rispetto di due distinti termini di dieci giorni ciascuno: il primo, previsto dal comma 1, intercorrente tra la ricezione da parte del Direttore della notizia dell'infrazione disciplinare e la sua formale contestazione; il secondo, previsto dal comma 4, che decorre invece dalla formalizzazione dell'addebito ed è prodromico alla fissazione dell'udienza dinnanzi al Consiglio di disciplina, ove l'accusato ha la facoltà di essere sentito e di esporre le proprie discolpe.

Tale scansione procedimentale vuole salvaguardare le esigenze di difesa dell'incolpato che deve avere il tempo materiale per articolare un'eventuale difesa, in aderenza alle Regole Penitenziarie Europee del 2006 (Raccomandazione 2006/2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle regole penitenziarie europee), le quali, alla regola n.59, prevedono che: «… i detenuti accusati di un'infrazione disciplinare devono: 1: essere prontamente informati, in dettagli e in una lingua che comprendono, in merito alla natura delle accuse rivolte contro di loro; 2. avere tempo e mezzi adeguati per la preparazione della loro difesa; 3. avere il permesso di difendersi da soli o per mezzo di un assistente legale qualora ciò sia necessario nell'interesse della giustizia; 4, avere il permesso di ottenere la presenza di testimoni e di interrogarli o farli interrogare; 5. avere l'assistenza gratuita di un interprete qualora non comprendano o non parlino la lingua usata nel procedimento».

Ogni violazione della scansione procedimentale prevista dall'art. 81 reg. esec. costituente appunto una violazione del diritto di difesa dell'interessato, deve, in caso di contestazione dell'infrazione davanti al Consiglio di disciplina, essere eccepita, a pena di decadenza, al momento dell'apertura dell'udienza trovando applicazione le regole generali dettate in materia di deducibilità delle nullità e, quindi, anche la disposizione dell'art. 182 commi 2 e 3 c.p.p. a tenore della quale la violazione deve essere eccepita dalla parte che abbia patito una lesione delle sue facoltà prima del compimento dell'attività processuale cui essa si riferiva (cfr. in questo senso, Cass. pen., sez I, 15 febbraio 2021, n. 22381, Corso, n.m.).

Alcuni dei precedenti giurisprudenziali della Suprema Corte in materia disciplinare concernono l'applicazione delle regole appena esposte. La Corte di cassazione ha affermato, precisamente, che la contestazione di una violazione disciplinare può essere delegata dal Direttore al Comandante del reparto di Polizia penitenziaria e deve avvenire in forma chiara e precisa (cfr. Cass. pen., sez. I, 12 novembre 2009, n. 48828, Mele in CED Cass. n. 245904); che l'applicazione di una sanzione disciplinare deve necessariamente essere preceduta dalla contestazione della relativa violazione «pena la lesione di principi fondamentali di garanzia e la conseguente illegittimità della decisione adottata, in tale senso sindacabile dal giudice» (cfr. Cass. pen., sez. I, 21 dicembre 2017, n. 16914/2018, Palumbo, in CED Cass. n. 272786, a tenore della quale «[…] l'omissione della previa contestazione dell'addebito al detenuto nelle forme previste dalla normativa regolamentare ha effetti sulla validità del provvedimento adottato, dovendo intercorrere tra il momento della contestazione e quello dell'udienza disciplinare un ragionevole lasso temporale in modo da consentire all'incolpato di predisporre adeguata difesa»); che è illegittimo il provvedimento di irrogazione di una sanzione disciplinare adottato senza l'osservanza non soltanto delle modalità ma anche dei termini previsti dalle ricordate disposizioni, mentre la tardiva comunicazione all'interessato della decisione assunta nei suoi confronti non è causa di nullità posto che non determina alcuna lesione del diritto di difesa, ma rileva unicamente per quanto attiene alla decorrenza dei termini di impugnazione del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare (così Cass. pen., sez. I, 26 giugno 2017, n. 33848, Attanasio, in CED Cass. n. 270832); che, nel caso di rituale contestazione dell'addebito, ove il detenuto abbia volontariamente rinunciato a presentarsi davanti al Direttore dell'Istituto o a partecipare all'udienza dinanzi al Consiglio di Disciplina, non sussiste l'obbligo di comunicare allo stesso, oltre al dispositivo del provvedimento con cui è stata deliberata la sanzione adottata, anche la relativa motivazione poiché questi può acquisire la motivazione del provvedimento e conoscere il contenuto del provvedimento la cui esistenza gli è stata comunicata (cfr., in termini, Cass. pen., sez. I, 12 settembre 2018, n. 57891, Attanasio, in CED Cass. n. 275316).

L'esclusione dalle attività in comune

La sanzione disciplinare dell'esclusione dalle attività in comune trova la sua disciplina normativa nell'art. 39 comma 1 n. 5 ord. penit. Si tratta di quella sanzione che possiede la maggiore carica di afflittività, dal momento che la sua esecuzione comporta l'isolamento continuo – diurno e notturno – del ristretto. Per tale motivo, non soltanto se ne è prevista la durata massima, che non può essere superiore a quindici giorni, ma se ne è anche limitata l'applicazione ai fatti più gravi, riconducibili ad una delle fattispecie astratte d'infrazione di cui all'art. 77 comma 1 numeri da 9 a 21 reg. esec. e ai casi di recidiva infratrimestrale specifica ex art. 77 comma 3 reg. esec.

Sotto il profilo contenutistico, la sanzione comporta l'isolamento continuo del ristretto, da eseguire in una camera ordinaria. Tuttavia, qualora il comportamento del detenuto o dell'internato sia tale da arrecare disturbo o da costituire pregiudizio per l'ordine e la disciplina, l'isolamento può essere eseguito anche in altro locale, diverso dalla camera ordinaria. Anche in quest'ultimo caso, però, l'isolamento deve essere eseguito in locali che siano in buono stato di conservazione e di pulizia, di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale, aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigano, dotati di servizi igienici riservati e decenti.

 All'isolato, inoltre, sono assicurati il vitto ordinario e la normale disponibilità d'acqua, sicché egli non può acquistare altri generi alimentari, essendogli inibito l'accesso al sopravvitto.

Durante l'esecuzione della sanzione, al detenuto è precluso di comunicare con i compagni: la violazione di tale divieto costituisce infrazione disciplinare. La condizione di isolamento, pertanto, determina la temporanea esclusione del detenuto dalla partecipazione ad ogni attività che richieda di entrare in contatto con gli altri detenuti. Ed anche la stessa permanenza all'aria aperta deve avvenire in solitudine, in quanto l'isolamento disciplinare rientra le fattispecie che giustificano il c.d. “passaggio separato” ex art. 10 comma 2 ord. penit.

Considerato, pertanto, che l'isolamento, quale modalità di esecuzione della sanzione dell'esclusione dalle attività in comune, è misura che può intaccare gravemente l'equilibrio psico-fisico della persona detenuta, il legislatore ha prestato particolare attenzione alla tutela del diritto inviolabile all'integrità della salute del ristretto. A tal fine, ha posto la regola secondo la quale la sanzione dell'esclusione dalle attività in comune non può essere eseguita senza la certificazione scritta, rilasciata dal sanitario, attestante che il soggetto può sopportare la condizione di isolamento ex art. 39 comma 2 ord. penit. Di conseguenza, ove il sanitario certifichi che le condizioni di salute del soggetto non sono tali da permettergli di sopportare la sanzione disciplinare, questa sarà eseguita quando sarà cessata la causa che ne impedisce l'esecuzione.

Un diverso meccanismo sospensivo opera nell'ipotesi in cui si debbano eseguire, nei confronti dello stesso soggetto, più sanzioni disciplinari dell'esclusione dalle attività in comune, il cui cumulo comporti un periodo di isolamento superiore al limite massimo di durata, fissato dall'art. 39 n.5 ord. penit. In proposito, infatti, deve rilevarsi come tale limite di quindici giorni assolva una duplice funzione: a) è limite massimo della sanzione che può essere irrogata in conseguenza dell'accertamento di un determinato fatto illecito; b) è limite invalicabile di durata dell'isolamento disciplinare eseguito – senza soluzione di continuità – in forza del cumulo di più sanzioni irrogate per fatti diversi.

Il reclamo ex art.35-bis ord. penit. avverso il provvedimento disciplinare

Nella sua versione originaria, la disciplina dei reclami al magistrato di sorveglianza era contenuta nell'art. 69 comma 5 ord. penit., che assegnava al giudice monocratico un sindacato sull'osservanza delle «norme riguardanti: [da un lato] a) l'attribuzione della qualifica lavorativa, le questioni concernenti la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali; [dall'altro] b) l'esercizio del potere disciplinare, la costruzione e la competenza dell'organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa». Le pretese azionabili con il meccanismo del reclamo afferivano, dunque, unicamente all'ambito lavorativo e a quello disciplinare. La procedura volta a verificare la fondatezza dell'istanza presentata dal detenuto o dall'internato sfociava nell'emanazione di un ordine di servizio: una scelta che, «per quanto discutibile, rifletteva la natura di una decisione assunta dal magistrato di sorveglianza senza la benché minima garanzia giurisdizionale e, in particolare, senza il rispetto del diritto di difesa delle parti interessate alla decisione del reclamo».

Con il d.l. 23 dicembre 2013 n. 146, la normativa in tema di reclamo contenuta nell'art.69 ord. penit. ha acquisito una nuova fisonomia. Il reclamo al magistrato di sorveglianza è stato promosso a rimedio “ordinario” per dirimere due macrocategorie di controversie: a) le contestazioni in materia disciplinare; b) quelle scaturenti da un pregiudizio, grave ed attuale, cagionato dall'amministrazione all'esercizio dei diritti dei detenuti e internati. In questa duplice proiezione funzionale, la procedura decisoria ha assunto le forme garantite descritte nell'art.35-bis ord. penit., sotto la rubrica “reclamo giurisdizionale”.

Oltre a riscrivere l'incipit della disposizione di legge penitenziaria, la riforma ha eliminato dal comma 6 dell'art.69 ord. penit. la previgente lett. a), che assegnava al magistrato di sorveglianza la cognizione sui reclami concernenti “l'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali”. Si tratta di un intervento che ha valenza meramente formale e non di sostanza. Sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, infatti, il rito ex art. 14-ter ord. penit. era risultato inidoneo a soddisfare il nucleo minimo di garanzie necessarie in tema di controversie lavorative. Pertanto, già a seguito di tale pronuncia, questa particolare tipologia di giudizi instaurati tra il detenuto lavoratore e la sua controparte venivano assegnati al giudice del lavoro e non più al magistrato di sorveglianza.

Il vuoto normativo lasciato nell'art. 69 comma 6 lett. a) ord. penit. dall'abrogazione della disposizione riguardante le controversie lavorative è oggi occupato dal contenzioso in materia disciplinare e, segnatamente, dai reclami concernenti «le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell'organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa». Pur essendone stata modificata la collocazione – dalla lett. b alla lett. a dell'art. 69 comma 6 ord. penit. – si tratta della medesima dicitura che figurava nel testo precedente la novella del 2013, solo che tale decreto ha aggiunto un importante elemento di novità, consegnando al magistrato di sorveglianza, in alcune ipotesi, poteri accertativi e decisionali che trascendono la mera legittimità dell'esercizio del potere disciplinare. E infatti, stando all'attuale versione dell'art. 69 comma 6 lett. a) ord. penit., «nei casi di cui all'articolo 39 comma 1 numeri 4 e 5 è valutato anche il merito dei provvedimenti adottati» nei confronti di detenuti e internati.

Il riferimento al merito del provvedimento riguarda essenzialmente due aspetti: la fondatezza dell'addebito (insussistenza del fatto, non attribuibilità dello stesso al detenuto) e la violazione del principio di proporzionalità tra illecito commesso e sanzione inflitta (ipotesi che nel diritto amministrativo integra quella particolare, e residuale, fattispecie sintomatica dell'eccesso di potere costituita dalla ingiustizia manifesta).

L'art. 69 ord. penit. prevede, dunque, che avverso i provvedimenti applicativi di sanzioni disciplinari il condannato può proporre, entro il termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento applicativo della sanzione stessa, reclamo al Magistrato di Sorveglianza ex art. 35-bis ord. penit. Il reclamo giurisdizionale si svolge nelle forme previste per il procedimento in contraddittorio ex artt. 666 e 678 c.p.p. A questo riguardo occorre evidenziare come la deduzione di motivi di reclamo non consentiti in ragione della tipologia della sanzione disciplinare adottata si risolva in una causa di inammissibilità dell'impugnazione che potrà essere dichiarata dal Magistrato di Sorveglianza ai sensi dell'art. 666 comma 2 c.p.p. con provvedimento de plano (cfr., in termini, Cass. pen. sez. I, 16 dicembre 2019, n. 766, Inserra, n.m., la quale afferma che «... il magistrato di sorveglianza correttamente ha dichiarato inammissibile il reclamo per motivi attinenti al merito non sindacabili da esso magistrato, essendo stata inflitta una sanzione diversa da quelle di cui all'art 39, comma 1, n. 4 e 5 …»; nello stesso senso cfr. Cass. pen., sez. I, 10 novembre 2017, n. 56501, Vitale, n.m. e Cass. pen., sez. I, 5 dicembre 2012, n. 25470, Caratozzolo, n.m.).

Avverso il decreto di inammissibilità pronunciato dal Magistrato di Sorveglianza è esperibile il ricorso per cassazione e non il reclamo al Tribunale di Sorveglianza (cfr., in relazione al reclamo ex art. 35-ter ord. penit. e tra le altre, Cass. pen., sez. I, 19 luglio 2016, n. 38808, Carcione, in CED Cass. n. 268119 e Cass. pen. sez. I, 16.7.2015, n. 46967, Mecikian, in CED Cass. n. 265366). Nei confronti dell'ordinanza con la quale il Magistrato di Sorveglianza definisce (eventualmente anche nel merito) il reclamo dell'interessato è, di contro, esperibile unicamente reclamo al Tribunale di Sorveglianza nel termine di dieci giorni dalla notificazione o della comunicazione dell'avviso di deposito della decisione stessa (cfr., al riguardo, Cass. pen., sez. I, 21 dicembre 2017, n. 16914, Palumbo, in C.E.D. Cass. n. 272785, che ha escluso che l'ordinanza emessa dal Magistrato di Sorveglianza sia impugnabile con ricorso immediato per cassazione «essendo tale provvedimento privo della natura di sentenza ed espressamente impugnabile col reclamo al Tribunale di sorveglianza»).

Il reclamo deve essere corredato, a pena di inammissibilità, dall'indicazione dei motivi, vale a dire nella specifica indicazione delle ragioni di fatto e di diritto per le quali viene censurato il provvedimento impugnato. Il Tribunale decide all'esito del procedimento in contraddittorio appunto regolato dall'art. 678 c.p.p. con ordinanza impugnabile con ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 35-bis comma 4-bis ord. penit.).

La tutela disciplinare in prospettiva convenzionale

L'art. 6 CEDU, che disciplina il diritto ad un equo processo, limita le importanti garanzie di carattere procedurale in esso previste alle sole situazioni in cui un tribunale debba decidere in ordine a controversie su diritti o su obbligazioni di natura civile, ovvero in merito al fondamento di un'accusa in materia penale. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, tuttavia, muovendosi in una logica prettamente sostanzialistica, ha ricompreso nell'ambito di operatività dell'art. 6 CEDU, da un lato, anche quelle sanzioni che, pur formalmente amministrative nell'ambito dell'ordinamento nazionale, risultino comunque avere carattere intrinsecamente penale secondo taluni criteri fissati dalla stessa Corte (e ciò al fine di evitare che «singole scelte compiute da taluni degli Stati aderenti alla CEDU possa determinare un surrettizio aggiramento delle garanzie» convenzionali riservate alla materia penale); dall'altro lato, anche «quei civil rights and obligations che conservano carattere civile nonostante la loro determinazione nel concreto avvenga attraverso l'esercizio di un potere amministrativo».

Duplice, dunque, è il percorso da compiere al fine di stabilire se l'art. 6 CEDU, nell'interpretazione della Corte europea, trovi applicazione anche in materia di sanzioni disciplinari in ambito carcerario. Innanzitutto, si deve stabilire se, secondo i criteri elaborati dalla Corte di Strasburgo già a partire dalla nota sentenza Engel v. Netherlands, 8 giugno 1976 (c.d. “Engel criteria”), la sanzione disciplinare, al di là del mero dato nominalistico, abbia carattere sostanzialmente penale. Ove questa indagine dia esito negativo, si deve stabilire se le posizioni soggettive del detenuto, incise dall'esecuzione di una sanzione disciplinare e, quindi, coinvolte nell'esercizio di un potere amministrativo, possano ricondursi al concetto di civil rights, vale a dire al novero di quei diritti di carattere non pecuniario che assurgono a diritti e libertà riconosciuti dalla Convenzione.

I criteri sostanziali elaborati dalla Corte al fine di pervenire a tale conclusione sono essenzialmente due. Il primo guarda alla natura del precetto violato e alle funzioni della sanzione e mira a stabilire se scopo della norma sia quello di assicurare la tutela erga omnes di interessi generali della società, normalmente tutelati dal diritto penale, e se la sanzione, al pari di quella penale, abbia carattere marcatamente punitivo-afflittivo-repressivo ed assolva funzioni deterrenti e special-preventive. Il secondo, che può operare sia in aggiunta al primo sia indipendentemente da esso, guarda alla severità della sanzione che rischia il trasgressore, e mira a stabilire se le conseguenze afflittive discendenti dall'esecuzione del provvedimento punitivo siano talmente gravi che la persona incolpata debba comunque godere delle medesime garanzie procedurali da osservare nelle controversie sul fondamento di un'accusa in materia penale.

Attenta dottrina ha rilevato che, in ambito penitenziario, l'illecito disciplinare, pur rimanendo un modello di illecito distinto ed autonomo rispetto a quello penale, è rivolto ad assicurare una tutela non agli interessi particolari riferibili all'Amministrazione penitenziaria, bensì a quegli stessi interessi generali normalmente protetti dal diritto penale. Si tratta, più nel dettaglio, di un modello di illecito al quale è opportuno ricorrere, quando, in ragione delle specificità del contesto esistenziale carcerario, appare necessaria una forte anticipazione della tutela di quei beni che costituiscono l'oggetto di numerose fattispecie penali, attraverso la protezione di “beni strumentali in senso stretto” avvinti al bene finale da precise connessioni di rischio empiricamente fondate. Ciò vuol dire che, ai fini della qualificazione sostanziale della sanzione disciplinare, rileva, quale indice sintomatico, non la concreta portata non generale del divieto oggetto della fattispecie di infrazione, bensì soltanto la natura dei beni-interessi tutelati.

D'altronde, come osserva la dottrina, anche a voler rimanere fedeli alla tradizione secondo la quale la sanzione disciplinare non è, a differenza di quella penale, strumento volto ad assicurare la tutela di interessi generali, rimane da applicare, ai fini del riconoscimento del carattere sostanzialmente penale dell'illecito disciplinare, il criterio alternativo del livello di severità della risposta punitiva. In proposito, non pare possa sorgere alcuna incertezza sul significativo “tono di afflittività” che contraddistingue l'intervento punitivo in ambito carcerario, dal momento che è palese la capacità delle sanzioni disciplinari predeterminate dal legislatore di intaccare gravemente i diritti fondamentali della persona in vinculis.

Pertanto, assumendo la prospettiva della Corte EDU ed impiegando i due parametri di valutazione da essa elaborati, si deve pervenire alla conclusione che il riconoscimento della natura sostanzialmente penale dell'illecito disciplinare deve comportare l'estensione a tali materie delle garanzie procedurali di cui all'art. 6 CEDU, in vista di un concreto rafforzamento delle tutele per il detenuto accusato di aver commesso un'infrazione.

Qualora si pervenisse all'opposta conclusione, che cioè – alla luce dei c.d. “Engel criteria” –  la sanzione disciplinare non ha natura penale poiché l'illecito disciplinare non assicura la tutela di interessi generali della società e le sanzioni disciplinari non raggiungono un livello di severità tale da configurarsi come di natura sostanzialmente penale, deve comunque osservarsi che, nella sfera applicativa dell'art. 6 CEDU devono pur sempre ricondursi anche i diritti di carattere non pecuniario che assurgono a diritti e libertà fondamentali tutte le volte in cui siffatte situazioni giuridiche siano coinvolte nell'esercizio di un potere amministrativo. Infatti, si ritiene che, «laddove venga in rilievo un diritto espressamente riconosciuto dalla CEDU, esso è sempre rilevante ai fini dell'art. 6 CEDU, pure ove sia assente o comunque dubbio il requisito della patrimonialità».

Nel settore disciplinare carcerario, dunque, le garanzie di cui all'art. 6 CEDU dovrebbero operare, non solo perché tale settore assume rilievo convenzionale ai sensi dell'art. 3 CEDU, ma anche perché le limitazioni che discendono dall'esecuzione di una sanzione disciplinare (per esempio quelle che intaccano le qualità morali del soggetto o la residua libertà personale o il diritto alla vita in comune) riguardano fondamentali libertà e diritti della persona. In altri termini, in ambito carcerario, le sanzioni disciplinari incidono sempre ed imperativamente sui diritti civili della persona detenuta, sicché esse, anche non avessero carattere sostanzialmente penale, sarebbero comunque “determinative di diritti civili”.

La normativa in materia disciplinare assume, inoltre, rilevanza convenzionale ai sensi dell'art. 3 CEDU, alla luce del diritto intangibile del detenuto a non essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. Viene, altresì, in rilievo il disposto dell'art. 13 CEDU, che garantisce il diritto ad un ricorso effettivo, che si traduce nel diritto di far valere, innanzi ad una istanza nazionale, uno dei diritti o una delle libertà riconosciuti dalla stessa Convenzione. A fondamento del sistema di protezione convenzionale, pertanto, vi sono i “principi di solidarietà e di sussidiarietà”, in base ai quali spetta innanzitutto agli Stati contraenti l'assolvimento del compito di assicurare il rispetto e la tutela giurisdizionale dei diritti garantiti dalla Convenzione. La Corte europea, invece, ha un ruolo suppletivo, potendo essere adita solo dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne ex art. 35 CEDU. Ciò significa che è posto a carico degli Stati contraenti l'obbligo positivo di prevenire e porre rimedio – in modo effettivo – alle violazioni dedotte contro i predetti diritti, prima che i relativi ricorsi vengano proposti dinnanzi alla Corte di Strasburgo. In tale prospettiva, rispetto all'art. 13, l'art. 6 CEDU non soltanto ha una portata applicativa più ampia (non limitata ai soli diritti e alle sole libertà convenzionali), ma offre anche una tutela più completa, sicché quest'ultima disposizione deve prevalere sulla prima nei casi in cui siano invocabili assieme. In effetti, come rileva attenta dottrina, in questi casi, il rapporto tra le due tutele è riconducibile, più che ad un principio di specialità, ad un principio di assorbimento, nel senso che la tutela minore ex art. 13 viene compresa in quella maggiore di cui all'art. 6.

Il dictum della Cassazione

In tale quadro normativo e giurisprudenziale, la sentenza in analisi assume una posizione peculiare, pervenendo ad una decisione di rigetto del ricorso presentato dal detenuto in merito alla violazione della scansione temporale così come descritta all'art. 81 reg. esec.

Specificatamente, la Suprema Corte afferma che dalla normativa di cui all'art. 81 reg. esec. non può desumersi l'esistenza di «alcuna separazione tra la fase della contestazione e quella della convocazione, né è prevista alcuna decisione preliminare del direttore sulle eventuali discolpe presentate dall'interessato già prima della decisione in sede di consiglio di disciplina». Essa precisa che «la procedura di contestazione non si caratterizza per una separazione tra l'atto di contestazione e quello di convocazione davanti al consiglio di disciplina, ma soltanto per il fatto che già dalla fase di contestazione il detenuto deve essere avvertito della possibilità di presentare discolpe e che il direttore dispone di poteri istruttori nelle more tra la contestazione e la decisione del consiglio di disciplina».

La decisione si lega a quanto già la Corte aveva stabilito nella sentenza Camerino n. 41700 del 21.11.01, affermando che l'intero complesso di formalità previsto dalla normativa regolamentare in materia (ivi compreso l'art. 81 reg. esec.) è finalizzato ad assicurare il rispetto del principio fondamentale stabilito dalla norma primaria (l'art. 38 comma 2 ord. penit. per cui «nessuna sanzione può essere inflitta se non dopo la contestazione all'interessato, il quale è ammesso ad esporre le proprie discolpe»). Ne segue che non ogni inosservanza delle previsioni regolamentari costituisce causa di invalidità della procedura, ma soltanto quella che si risolva nella mancanza di una puntuale contestazione dell'addebito o in una menomazione della facoltà di esporre al consiglio le proprie difese.

Quanto alla previa contestazione da parte del direttore (concepita dalla norma regolamentare come semplice informazione di garanzia circa gli estremi dell'incolpazione e la facoltà di esporre di persona le proprie difese), la sua omissione incide soltanto quando abbia pregiudicato la conoscenza del fatto addebitato o l'esplicazione dei diritti difensivi e resta assorbita dalle comunicazioni che ben possono essere date al proposito, in limine, dal consiglio di disciplina. Né può sostenersi che la preventiva informazione valga ad assicurare un termine per predisporre la difesa; infatti, la comunicazione davanti al consiglio può avvenire in qualsiasi momento, anche ad horas, ed i termini introdotti dall'art. 81 reg. esec. hanno funzione acceleratoria e non dilatoria, essendo previsti dal legislatore proprio per consentire una rapida conclusione del procedimento disciplinare sia in relazione all'interesse dell'Amministrazione penitenziaria di restaurare in tempi brevi l'ordinata conduzione della vita carceraria che a quello del detenuto di potersi difendere nell'immediatezza del fatto contestatogli con conseguente veloce accertamento degli addebiti mossigli.

Di contro invece, l'orientamento che ritiene tale termine dilatorio, così come implicitamente riconosciuto dall'art. 38 comma 2 ord. penit., giacché l'attribuzione all'accusato del diritto di esporre le proprie discolpe presuppone necessariamente il riconoscimento del diritto di essere messo nelle condizioni di predisporre una strategia difensiva.

I rapporti tra il giudizio civile di falso e quello penale

La Suprema Corte ritiene parimenti infondato il secondo motivo di ricorso, affermando che la querela di falso è uno strumento tecnico-giuridico previsto dagli artt. 221 e ss. c.p.c. e non può essere surrogato dalla presentazione di una denuncia-querela in sede penale che ha finalità diverse. Infatti, il giudizio civile e quello penale di falso, pur essendo entrambi diretti alla demolizione dell'efficacia del documento contraffatto o alterato, svolgono in realtà funzioni diverse: il primo tende soltanto a dimostrare la totale o parziale non rispondenza al vero di un determinato documento nel suo contenuto obiettivo o nella sua sottoscrizione; il secondo mira anche ad identificare l'autore, al fine di assoggettarlo alle pene stabilite dalla legge.

Al proposito, si osserva che l'introduzione del giudizio civile di falso è oggi del tutto autonoma e svincolata dalle vicende del giudizio penale. Nei rapporti tra giudizio civile e giudizio penale va tenuto conto del principio generale secondo il quale, dalla disciplina dell'attuale codice di procedura penale, si desume che il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell'unità della giurisdizione, ma a quello dell'autonomia di ciascun processo e della piena cognizione da parte di ciascun giudice, dell'uno e dell'altro settore dell'ordinamento, sulle questioni giuridiche o di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione. Sicché la sospensione del processo civile per pregiudizialità penale è consentita nelle sole azioni risarcitorie e restitutorie che originano dal reato, purché sussistano i presupposti dell'art. 75 c.p.p. Se poi si considera che l'azione di falso civile non ha natura risarcitoria o restitutoria, la sospensione necessaria di cui all'art. 295 c.p.c. non è in condizione di operare; con la conseguenza che i due giudizi proseguono parallelamente, sia pure con il rischio di un contrasto di accertamenti (e non di giudicati).

Rimane fermo che la sentenza penale passata in giudicato, sia di condanna sia di assoluzione, pronunciata a seguito del dibattimento vincola il giudice civile nell'accertamento di quei fatti «ritenuti rilevanti ai fini delle decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa» come stabilisce l'art. 645 c.p.c. Ne consegue che il giudizio civile di falso può prescindere totalmente dalla repressione penale, ogni volta che il reato di falsità sia chiuso da un provvedimento di archiviazione (che essendo inidoneo al giudicato non precluda la querela di falso), oppure non sia imputabile ad alcuno (ad es. per amnistia o per morte del reo), oppure sia estinto.

In conclusione

La prospettiva abbracciata dalla Suprema Corte nella pronuncia n. 20258/2024 in commento si presta ad un'ampia riflessione ad opera dell'interprete. Se da un lato, chiarisce quelli che sono i principali aspetti concernenti il tema del procedimento disciplinare, fornendo in particolare una specifica presa di posizione in merito all'esercizio del diritto del detenuto a presentare le proprie discolpe; dall'altro, lascia alcuni dubbi in merito all'effettivo spazio temporale concesso alla possibilità di esercitare effettivamente tale riconosciuta facoltà.

Il Giudice di legittimità precisa, infatti, che non sussiste una specifica separazione tra la fase della contestazione dell'addebito e quella della convocazione davanti al consiglio di disciplina che consenta al detenuto di esercitare le proprie difese, in quanto la disciplina descritta nell'art. 81 reg. esec. sta solo ad indicare che già dalla fase della contestazione il detenuto deve essere avvertito della possibilità di presentare le proprie discolpe.

Una tale ricostruzione, tuttavia, parrebbe discostarsi dalle tutele indicate nell'art. 59 delle Regole penitenziarie europee, secondo cui i detenuti accusati di un'infrazione disciplinare devono avere tempo e mezzi adeguati per preparare la loro difesa. La concessione di tali garanzie rappresenta uno dei principi fondamentali che regolano l'ordinato svolgimento del procedimento disciplinare: il rispetto delle esigenze di disciplina, ordine e sicurezza costituisce un mezzo utile all'opera di rieducazione del detenuto, avente la funzione di stimolare un atteggiamento critico nei confronti della condotta posta in essere.

La sentenza in esame, infine, divergendo da alcuni precedenti che avevano al contrario ritenuto illegittima la mancanza di un effettivo spazio temporale tra il momento della contestazione e quello della convocazione, sembra lasciare alcuni dubbi circa la sua applicazione ai casi futuri, poiché pare emergere, sotto i profili indicati, una faglia di contrasto interno alla stessa giurisprudenza di legittimità suscettibile di generare dubbi applicativi e oggettive disparità di trattamento.

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