IVA: è debitore dell’IVA indicata in fattura il dipendente che abbia emesso fatture false utilizzando, senza consenso, l’identità del datore di lavoro

13 Settembre 2024

La questione all'esame della Corte riguarda l'interpretazione dell' articolo 203 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006( «direttiva IVA»). La Corte ha ritenuto che, ai sensi della suddetta norma, il soggetto che «indica l'IVA» nella fattura e che risponde dell'imposta debba essere identificato con la persona fisica del dipendente che abbia utilizzato in fattura i dati della società datrice di lavoro, senza il consenso e ad insaputa di quest'ultima, sempre che l'identità del dipendente che ha emesso materialmente la fattura sia nota all'amministrazione finanziaria e che la società abbia dimostrato la propria buona fede.

Il caso

Il dipendente di una società esercente attività  di vendita al dettaglio di carburante emette a nome della datrice di lavoro, all'insaputa di questa,  fatture, di importo superiore a quello corrispondente alle vendite effettive, senza provvedere alla relativa registrazione ed al versamento dell'IVA; l'autorità tributaria, in base all'art. 108 della legge polacca sull'IVA,  emette avviso di accertamento a carico della società.

La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell' articolo 203 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006 , relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»).

Tale domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra la P sp. z o.o. (in prosieguo: la «società P») ed il direttore della sezione dell'amministrazione tributaria di Lublino, Polonia, (in prosieguo: l'«amministrazione tributaria») riguardo a debiti d'imposta sul valore aggiunto (IVA) corrispondenti a fatture false emesse da P.K., una dipendente della società P.

Nel corso del periodo che va dal 2001 al 2014, la società P, soggetta all'IVA, esercitava un'attività di vendita al dettaglio di carburanti in una stazione di servizio gestita, dal mese di novembre 2005, da P.K., dipendente di tale società.

In seguito ad un controllo fiscale, si è constatato che, tra il mese di gennaio 2010 e il mese d'aprile 2014, detta società aveva emesso 1.679 fatture che indicavano un importo non corrispondente a reali vendite di beni, per un valore totale di 1.497.847 zloty polacchi di IVA (circa EUR 319 254), ad enti che la avevano poi detratta. Le fatture non erano state registrate nella contabilità della società P e l'IVA corrispondente non era stata versata all'erario, né riportata nelle dichiarazioni fiscali di tale società. In particolare, veniva accertato che le fatture erano accompagnate da scontrini autentici, corrispondenti a operazioni effettivamente realizzate con enti diversi da quelli indicati nelle fatture suddette, ed erano state emesse, senza il consenso della società ed a sua insaputa, al fine di ottenere in modo fraudolento il rimborso dell'IVA da parte degli enti destinatari delle stesse.

Il direttore dell'Ufficio tributario della Polonia ha emanato, in seguito al controllo fiscale, una decisione di accertamento dell'importo dell'IVA dovuta dalla società P in base alle fatture controverse emesse tra il mese di gennaio 2010 e il mese d'aprile 2014. Con decisione del 31 ottobre 2017, l'amministrazione tributaria ha confermato l'accertamento, ritenendo che la società non avesse agito con la dovuta diligenza al fine di evitare l'emissione delle fatture controverse. Con decisione del 23 febbraio 2018, il Tribunale amministrativo del voivodato di Lublino (Polonia) ha respinto il ricorso presentato dalla società avverso la decisione dell'amministrazione tributaria. Detta società ha allora proposto ricorso dinanzi alla Corte suprema amministrativa della Polonia, che ha deciso di sospendere il procedimento principale e di sottoporre alla Corte le questioni pregiudiziali, rilevando l'esistenza di due orientamenti giurisprudenziali nazionali contrastanti in merito all'interpretazione dell'articolo 108, § 1, della legge sull'IVA, che traspone l'articolo 203 della direttiva IVA.

Invero, l'articolo 108, § 1, della legge polacca relativa all'imposta sul valore aggiunto, dell'11 marzo 2004 (Dz. U. del 2011, n. 177, posizione 1054), nella sua versione applicabile alla controversia principale, prevede: «Una persona giuridica, un ente privo di personalità giuridica o una persona fisica, qualora emettano una fattura in cui dichiarino l'importo dell'imposta, sono obbligati a pagarla».

Secondo una prima interpretazione giurisprudenziale, tale articolo prevederebbe l'obbligo del pagamento dell'imposta in capo al soggetto i cui dati risultano formalmente indicati nella fattura, in quanto la società datrice di lavoro di colui che ha materialmente redatto la fattura falsa deve assumersi in ogni caso il rischio connesso all'agire del dipendente. In base ad una seconda interpretazione, invece, l'ente i cui dati sono stati usurpati non potrebbe essere considerato, a norma dell'art.108 citato, il soggetto che «emette la fattura», in assenza di colpa a lui imputabile.

La questione: ai sensi dell'art. 203 della direttiva IVA, al pagamento dell'IVA è tenuto il soggetto i cui dati sono stati indicati in fattura ovvero chi ha abusivamente utilizzato in fattura  i dati suddetti?

La Corte suprema amministrativa della Polonia, dunque, evidenziando la presenza dei due filoni interpretativi suddetti, ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se l'articolo 203 della [direttiva IVA] debba essere interpretato nel senso che, nell'ipotesi in cui un dipendente di un soggetto passivo dell'IVA emetta una fattura falsa, con applicazione dell'IVA, sulla quale vengono indicati i dati del datore di lavoro come dati del soggetto passivo, all'insaputa e senza il suo consenso, come "soggetto che dichiara l'IVA in fattura", obbligato a pagare l'IVA debba ritenersi:

– il soggetto passivo dell'IVA i cui dati sono stati illecitamente utilizzati in fattura o

– il dipendente che illecitamente ha dichiarato l'IVA in fattura, utilizzando i dati del soggetto avente la qualifica di soggetto passivo dell'IVA.

2) Se, al fine di stabilire chi debba essere considerato, ai sensi dell'articolo 203 della citata direttiva IVA, il soggetto che dichiara l'IVA in una fattura e che è obbligato a versarla nelle circostanze di cui alla [prima] questione, sia rilevante il fatto che al soggetto passivo dell'IVA, che assume il dipendente che ha dichiarato illegalmente, nella fattura IVA, i dati del soggetto passivo che lo assume, possa imputarsi la mancanza della dovuta diligenza nel controllare il dipendente».

Gli articoli 9, 167, 203 e 205 della direttiva IVA e gli ambiti oggettivo e soggettivo dell'art. 203

a) Le norme della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»).

L'articolo 9 della direttiva IVA così dispone:

«1. Si considera «soggetto passivo» chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un'attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività.

Si considera «attività economica» ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate. Si considera, in particolare, attività economica lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità.

2. Oltre alle persone di cui al paragrafo 1, si considera soggetto passivo ogni persona che effettui a titolo occasionale la cessione di un mezzo di trasporto nuovo spedito o trasportato a destinazione dell'acquirente dal venditore, dall'acquirente o per loro conto, fuori dal territorio di uno Stato membro ma nel territorio della Comunità [europea]».

 Ai sensi dell'articolo 167 di tale direttiva:

«Il diritto a detrazione sorge quando l'imposta detraibile diventa esigibile».

L'articolo 203 di detta direttiva così prevede:

«L'IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura».

L'articolo 205 della stessa direttiva è così formulato:

«Nelle situazioni di cui agli articoli da 193 a 200 e agli articoli 202, 203 e 204, gli Stati membri possono stabilire che una persona diversa dal debitore dell'imposta sia responsabile in solido per l'assolvimento dell'IVA».

b) L'ambito di applicazione oggettivo dell'art. 203 della direttiva IVA.

In particolare, per quanto riguarda l'ambito di applicazione dell'articolo 203, nella pronuncia in esame la Corte ha richiamato propri precedenti, secondo cui l'IVA indicata in una fattura è dovuta dall'emittente di tale fattura, anche in assenza di una qualsiasi operazione imponibile reale e da qualsiasi illecito. Ne consegue che, qualora sia emessa una fattura per operazioni inesistenti oppure l'ammontare dell'imponibile o dell'imposta sia indicata in misura superiore a quella reale, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato in fattura.

Secondo la Corte, tale regola è funzionale ad evitare salti di imposta e non ha finalità sanzionatoria, ma mira ad eliminare il rischio di perdita del gettito fiscale che potrebbe derivare dal diritto alla detrazione previsto dalla direttiva IVA (1). Di contro, la norma non può trovare applicazione se non sussiste un rischio di perdita di gettito fiscale, indipendentemente da quale sia stato il comportamento del dichiarante (2). Invero, quando chi ha emesso la fattura ha tempestivamente eliminato completamente il rischio di perdita di gettito fiscale, il principio di neutralità dell'IVA impone che l'IVA indebitamente fatturata possa essere rettificata, senza che gli Stati membri possano subordinare siffatta rettifica alla buona fede del soggetto che ha emesso la fattura (3) (4).

c) L'ambito applicativo soggettivo dell'art. 203 della direttiva IVA.

Passando all'ambito applicativo soggettivo della norma, secondo la Corte l'impiego dell'espressione «chiunque» nel suddetto articolo indica che il destinatario della norma non è necessariamente un soggetto passivo ai sensi dell'articolo 9 della direttiva IVA. Pertanto, una persona fisica è assoggettata, in linea di principio, all'obbligo previsto all'articolo 203 di tale direttiva qualora indichi l'IVA in una fattura usurpando i dati identificativi di un altro soggetto, mero emittente “apparente”, dato che, in assenza di un criterio di imputazione della condotta del terzo estraneo, una responsabilità dell'emittente meramente “apparente” sarebbe arbitraria e sproporzionata (5).

Tali considerazioni, secondo la Corte, possono estendersi al caso in cui un dipendente ha usurpato i dati di identificazione del proprio datore di lavoro allo scopo di emettere false fatture IVA a fini fraudolenti, poiché, alla luce di giurisprudenza costante,  la lotta contro la frode e gli eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto ed incoraggiato dalla direttiva IVA, teso ad evitare che gli interessati possano avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell'Unione (6). Ritiene la Corte che sarebbe in contrasto con tale obiettivo interpretare l'articolo 203 della direttiva IVA nel senso che l'emittente apparente di una fattura fraudolenta in cui è indicata l'IVA, che abbia subito l'usurpazione dell'identità di soggetto passivo dell'IVA, sia considerato essere «chiunque indichi tale imposta», ai sensi di detto articolo 203. In tale situazione è chi ha materialmente indicato l'IVA in fattura, usurpando i dati di altro soggetto, che dev'essere considerato «chiunque indichi tale imposta» ai sensi di detto articolo 203, purchè l'emittente apparente sia in buona fede (7) La Corte, nel porre il limite dell'imputabilità soggettiva del rischio, richiama sul punto una costante giurisprudenza secondo cui non è contrario al diritto dell'Unione esigere che un operatore adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l'operazione che effettua non lo conduca a partecipare ad una evasione IVA (8). Secondo la Corte un analogo dovere di diligenza grava anche sul datore di lavoro nei confronti del suo dipendente, in particolare quando tale dipendente è incaricato di emettere fatture in cui è indicata l'IVA a nome e per conto del datore di lavoro (9). Pertanto, nell'ambito dell'art.203 della direttiva, il datore di lavoro, soggetto all'IVA, non può essere considerato in buona fede se non ha dato prova di aver agito con la diligenza ragionevolmente dovuta per controllare le condotte del suo dipendente e, ciò facendo, evitare che quest'ultimo possa utilizzare i suoi dati di identificazione in quanto soggetto passivo dell'IVA per emettere false fatture a fini fraudolenti (10). Infine, la Corte ha precisato che la valutazione globale dell'insieme degli elementi pertinenti per stabilire se il soggetto passivo, cui un dipendente ha usurpato i dati di identificazione dell'IVA allo scopo di emettere false fatture a fini fraudolenti, abbia agito in buona fede spetta all'amministrazione tributaria o al giudice nazionale.

Osservazioni conclusive: la soluzione della Corte in equilibrio tra l'esigenza di tutelare l'emittente apparente di buona fede e quella di non aggravare il rischio di evasione

Secondo l'interpretazione della Corte, la dimostrazione dello stato soggettivo di buona fede del datore di lavoro e l'identificazione dell'identità del dipendente responsabile consentono di ritenere che solo quest'ultimo sia debitore, ai sensi dell'art. 203 della direttiva, dell'IVA indicata in fattura, escludendo ogni responsabilità del datore di lavoro per il mero fatto di risultare formalmente il soggetto cedente.

Tale soluzione appare sicuramente rispondente all'esigenza di tenere indenne l'emittente apparente di buona fede, che è la vittima piuttosto che l'autore del reato, ma può comportare un maggior rischio di evasione Iva in capo allo Stato membro. Sul punto non si è mancato di evidenziare la necessità di regolamentare il dovere di vigilanza nei contesti IVA, in quanto la valutazione da parte dell'amministrazione finanziaria e del giudice nazionale della diligenza del datore di lavoro risulta assai delicata e può essere variabile, coinvolgendo anche tematiche giuslavoristiche. Inoltre, con riferimento all'ordinamento italiano, la pronuncia impone un'interpretazione ad essa compatibile del meccanismo di liquidazione previsto dall'art. 27 d.P.R. n. 633/1972, che, a tutela del gettito IVA, pone a carico dell'autore materiale del documento di adempiere alla liquidazione del tributo esposto in fattura (11).

Note

(1) V., in tal senso, sentenze del 31 gennaio 2013 , Stroy trans, C-642/11, punti 32 e 38, e dell'8 dicembre 2022, Finanzamt Österreich (IVA erroneamente fatturata a consumatori finali), C-378/21, punti 19 e 20, citate in sentenza.

(2) V., in tal senso, sentenza dell'8 dicembre 2022 , Finanzamt Österreich (IVA erroneamente fatturata a consumatori finali), C-378/21, punto 24, citata in sentenza.

(3) Ciò anche per evitare un eventuale ingiustificato arricchimento dell'erario (v. conclusioni presentate il 21 settembre 2023 dall'Avvocato generale Juliane Kokott, punti 32 e 33).

(4) Con particolare riferimento all'Italia, la Corte di Cassazione, richiamando la giurisprudenza comunitaria, in caso di erronea emissione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, pur costantemente affermando che, ai sensi dell'art. 21, comma 7, d.P.R. n. 633/1972,  l'imposta è dovuta per l'intero ammontare in esse indicato, tuttavia ha riconosciuto il diritto del contribuente al rimborso dell'imposta versata qualora venga accertato dal giudice di merito che sia stato eliminato in tempo utile qualsiasi rischio di perdita del gettito fiscale, derivante dall'utilizzo della fattura ai fini della detrazione da parte del destinatario, ad esempio quando la fattura non possa ritenersi emessa ai sensi dell'art. 21, comma 1, dello stesso decreto, ovvero quando sia stata emessa, ma tempestivamente ritirata dal destinatario, senza che quest'ultimo abbia potuto utilizzarla per finalità fiscali, o ancora quando l'Amministrazione abbia disconosciuto il diritto alla detrazione del destinatario con provvedimento definitivo o ritenuto legittimo con sentenza passata in giudicato.(v. Cass., 18 aprile 2019, n.10974, anche Cass., 11 dicembre 2020, n. 28263).

(5) Qualora l'emittente apparente sia stato segnatamente in buona fede, egli è allora la vittima piuttosto che l'autore del reato e non può rientrare nell'ambito di applicazione dell'art. 203 direttiva IVA. Per contro, se lo stesso non era in buona fede e la condotta dell'emittente della fattura (a causa della particolare vicinanza o responsabilità) può essergli imputata come propria, anche la responsabilità quale emittente della fattura erronea può in tal caso riguardarlo (v. conclusioni dell'Avvocato generale, citate sopra, punto 50).

(6) V., in tal senso, sentenze del 29 aprile 2004 , Gemeente Leusden e Holin Groep, C-487/01 e C-7/02, punto 76, nonché del 2 luglio 2020, Terracult, C-835/18, punto 38, citate in sentenza.

(7) Peraltro, tale impostazione risulta in linea con il principio della possibilità di rettifica di ogni imposta indebitamente fatturata purché chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede  [ sentenze del 18 marzo 2021, P (Carte carburante) (C‑48/20, punto 31); del 2 luglio 2020, Terracult (C‑835/18, punto 27); dell'8 maggio 2019, EN.SA. (C‑712/17, punto 33); del 31 gennaio 2013, Stroy trans (C‑642/11, punto 33); del 18 giugno 2009, Stadeco (C‑566/07, punto 36), e del 13 dicembre 1989, Genius (C‑342/87, punto 18)]; secondo la Corte nel caso dell'IVA , per la quale la direttiva nulla stabilisce, spetta agli Stati membri il compito di prevedere tale possibilità, tenendo conto del principio di neutralità dell'imposta [sentenza del 18 giugno 2009, Stadeco (C‑566/07, punto 39), v., per analogia, sentenza del 19 settembre 2000, Schmeink & Cofreth e Strobel (C‑454/98, punto 59 e la giurisprudenza ivi citata)].

(8) Sentenze CGUE, 27 settembre 2007, Teleos e a., C-409/04, punto 65, nonché del 21 giugno 2012, CGUE, Mahagében e Dávid, C-80/11 e C-142/11, punto 54, citate in sentenza.

(9) È possibile fare ricorso al principio di una colpa personale in eligendo et in vigilando  del datore di lavoro, qualora questi sia un soggetto passivo ai sensi della direttiva IVA, in quanto i soggetti passivi sono, collettori d'imposta per conto dello Stato, tenuti ad un dovere di collaborazione. 

(10) La sentenza in esame richiama anche la giurisprudenza della Corte (CGUE, 21 giugno 2012 , Mahagében e Dávid, C-80/11 e C-142/11, punto 60) secondo cui, qualora sussistano indizi che consentono di sospettare l'esistenza di irregolarità o di evasione, un operatore accorto può, secondo le circostanze del caso di specie, vedersi obbligato ad assumere informazioni su un altro operatore, presso il quale prevede di acquistare beni o servizi, al fine di sincerarsi della sua affidabilità.

(11) Gianpaolo Sbaragli ed Antonio Colella, in Italia Oggi, 20 febbraio 2024, 32.