Responsabilità penale dell'equipe medicaFonte: Cod. Pen Articolo 40
07 Luglio 2020
Inquadramento
L'attività medica di gruppo è caratterizzata dalla cooperazione di più sanitari, portatori di diverse competenze specialistiche, che interagiscono tra di loro per il conseguimento del fine comune della cura del paziente. Il coinvolgimento di più figure nell'atto medico, se da un lato costituisce un fattore di razionalità e sicurezza (in ragione del fatto che ciascuno dei sanitari è chiamato a svolgere una specifica competenza), dall'altro rappresenta anche una possibile fonte di rischio: più sanitari pongono in essere una condotta pericolosa per la vita o l'integrità psico-fisica del paziente - nei confronti del quale essi sono portatori di una posizione di garanzia, espressione dell'obbligo di solidarietà imposto dagli artt. 2 e 32 della Costituzione - e sono destinatari di una serie di regole cautelari di diverso contenuto, ma finalizzate a prevenire il medesimo evento lesivo. Di conseguenza, in tutte le ipotesi di lavoro in équipe e, più in generale, di cooperazione multidisciplinare nell'attività medico-chirurgica, l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta ed al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare una responsabilità di gruppo in base ad un ragionamento aprioristico (Cass. pen., sez. IV, 8 luglio 2014 (dep. 18 febbraio 2015), n. 7346). In un contesto a partecipazione plurisoggettiva, diventa fondamentale accertare se ciascun sanitario facente parte dell'équipe medica, oltre al dovere di rispettare i canoni di diligenza e prudenza connessi alla propria specifica competenza ed al proprio settore di specializzazione, abbia anche l'obbligo di vigilare sull'operato di soggetti terzi, al fine di evitare il verificarsi di eventi dannosi o pericolosi, o se, al contrario, possa fare affidamento sulla corretta esecuzione dei loro compiti.
Il principio di affidamento
Quanto agli obblighi di controllo gravanti su ciascun sanitario, si sono formate tesi contrapposte: un primo orientamento, più risalente e minoritario (A. Crespi, La responsabilità penale nel trattamento medico-chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955, p. 155-156), negava l'operatività del principio di affidamento, affermando l'opposto principio di non-affidamento, secondo il quale ciascun professionista, oltre ad agire con competenza e prudenza nell'ambito specificamente demandatogli, non poteva esimersi dal curare gli aspetti dell'atto medico che riguardavano il comune coinvolgimento verso l'unico fine di cura del paziente. In conseguenza, ciascun medico non poteva isolarsi del tutto nel suo compito, ma doveva altresì considerare e valutare l'attività dei colleghi: si temeva, infatti, che il frazionamento delle conoscenze e il mancato coordinamento delle prestazioni potesse compromettere il buon esito delle operazioni (S. Tunesi, nota a Cass. pen. sez. IV, 20 aprile 2017 (dep. 31 maggio 2017), n. 27314, in Rivista italiana di medicina legale e del diritto in campo sanitario, n. 3/2017). L'orientamento prevalente, di segno decisamente più liberale, accoglie l'opposto principio di affidamento. Tale principio, la cui origine va rivenuta nell'esperienza giuridica tedesca, costituisce il corollario più significativo – nella materia del reato colposo – del carattere personale della responsabilità penale (L. Risicato, L'attività medica di équipe tra affidamento e obblighi di controllo reciproco. L'obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, p. 40) di cui all'art. 27, comma 1, della Costituzione. Esso ha il precipuo fine di delimitare i rispettivi ambiti di competenza e di responsabilità nelle attività caratterizzate della necessaria partecipazione di una pluralità di soggetti (M. Mantovani, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Giuffrè, Milano, 1997, 3-4.), sul presupposto che configurare in capo a ciascun sanitario un obbligo di controllo continuo e capillare sull'operato altrui rischierebbe di paralizzare lo stesso svolgimento dell'attività plurisoggettiva. In ossequio al principio di affidamento, invece, ogni soggetto risponde unicamente delle conseguenze della propria condotta, commissiva od omissiva, e nell'ambito delle proprie conoscenze e specializzazioni; non risponde invece dell'eventuale violazione delle regole cautelari da parte di terzi V (Cass. sez. IV, 22 maggio 2009, (dep. 6 agosto 2009), n. 32191). Il principio di affidamento rappresenta il confine oltre il quale sussiste la compartecipazione criminosa nel fatto colposo prevista dall'art. 113 c.p. (L. Risicato, L'attività medica di équipe tra affidamento e obblighi di controllo reciproco. L'obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, p. 40.) che si verifica quando più persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire all'azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell'evento non voluto. Attesa la natura colposa della cooperazione, ciò che in concreto occorre accertare in capo ai concorrenti è la consapevolezza di concorrere e cooperare nella condotta altrui, senza che sussista l'elemento volontaristico teso all'evento. In questa definizione si apprezza l'autonomia della cooperazione colposa, quale istituto di confine rispetto al concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p., caratterizzato dal dolo di partecipazione, e rispetto al concorso di cause colpose indipendenti ex art. 41 c.p., ove si ravvisa soltanto una contrarietà delle varie condotte alla regola cautelare, in mancanza di un legame psicologico consistente nella reciproca consapevolezza dei diversi soggetti di contribuire all'azione od omissione altrui (A. Salerno, Responsabilità medica in équipe: cooperazione colposa, posizione di garanzia degli organi apicali e principio di auto-responsabilità dei singoli cooperanti, in Rivista italiana di medicina legale e del diritto in campo sanitario, 2014, pp. 595 ss.). All'affermazione del principio di affidamento si accompagna l'esigenza di individuare limiti sicuri che ne circoscrivano l'ambito applicativo, al fine di evitare un poco auspicabile "effetto deresponsabilizzante" (A. Massaro, Principio di affidamento e responsabilità per colpa nell'attività medica chirurgica, in Temi Penali, Torino, pp.187 ss. ). Tali limiti vengono individuati nell'organizzazione gerarchica dell'équipe, all'interno della quale il principio di affidamento non può essere invocato da coloro che hanno l'obbligo di controllare l'operato dei colleghi e quindi di prevenirne e correggerne eventuali negligenze, e nella esistenza di errori evidenti e non specialistici, rilevabili cioè con l'ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio, che, rendendo manifesta la "inaffidabilità" del terzo (L. Risicato, L'attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L'obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, p. 41), impedisce di invocare il principio di affidamento. Il limite della"riconoscibilità dell'altrui comportamento inosservante" è di ordine fattuale: l'aspettativa del comportamento diligente e perito del terzo risulta non più giustificata laddove questi ponga in essere comportamenti caratterizzati dalla mancata osservanza delle leges artis generiche, non specialistiche, pertinenti cioè alle conoscenze professionali di ciascun medico. È consolidato il principio per cui, in tema di colpa professionale, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare nell'attività medico-chirurgica, sia pure svolta non contestualmente, ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto anche a dirigere e a coordinare l'attività precedente o contestuale svolta dagli altri medici, sia pure specialisti in altre discipline, controllandone la correttezza e provvedendo, ove necessario, a porre opportunamente rimedio agli errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (si segnalano ex multis: Cass., sez. IV, 5 maggio 2015, (dep. 28/07/2015), n. 33329; Cass. sez. IV, 18 ottobre 2016, (dep. 15/12/2016), n. 53315; Cass., sez. IV, 26 ottobre 2011 (dep. 19/12/2011), n. 46824). Con tale affermazione il contenuto del dovere di diligenza incombente sul singolo sanitario sembra ampliato, in quanto alla regola generale – basata sull'obbligo di agire nel rispetto delle proprie leges artis – si aggiungerebbe un ulteriore obbligo di controllo anche dell'operato altrui, che si spinge fino all'intervento correttivo di errori, in contrasto col principio di affidamento. La prevedibilità della scorrettezza altrui, in tali casi, in assenza di un intervento rimediale dovuta all' inerzia del medico, comporta l'imputazione dell'evento infausto in cooperazione colposa (art. 113) tra il medico in errore "diretto" ed il medico che non ha fronteggiato tale circostanza nonostante la posizione di garanzia di cui è stato investito e la riconoscibilità della imperizia (art. 40 comma 2 c.p.) (F. Lombardi, Il principio di affidamento nel trattamento sanitario d'équipe, in Giurisprudenza penale web, 2018, 7-8, p. 5). In realtà l'indirizzo interpretativo fa riferimento a quelle sole ipotesi, ragionevolmente circoscritte, in cui il singolo componente dell'équipe sanitaria percepisca "circostanze fattuali che si rivelano idonee ad annullare l'aspettativa di un comportamento corretto da parte degli altri" (Cfr. G. Fortunato, Ancora sui rapporti tra il principio di affidamento ed équipe medica, Diritto penale contemporaneo, 5/2017, p. 41) e rendono, pertanto, perseguibile l'inosservanza del dovere di controllo. Circostanze queste, fissate dalla giurisprudenza di legittimità, che fanno leva sui parametri dell'evidenza e della non settorialità dell'errore altrui, requisiti il cui significato appare opportuno specificare. Orbene, mentre il concetto di evidenza è da intendersi in termini qualitativi, cioè "come concreta percezione o percepibilità dell'errore da parte di un professionista, impegnato nelle mansioni di sua competenza" [1], il concorrente requisito della non settorialità concerne la rilevabilità dell'errore tecnico sulla base del patrimonio di conoscenze comuni ad ogni sanitario, ancorché sprovvisto delle specifiche cognizioni tecniche del medico che ha commesso l'errore. In questa prospettiva si colloca la sentenza della Suprema Corte che ha affermato la responsabilità dell'anestesista per una errata manovra di intubazione che aveva causato la morte di una partoriente; al contempo, la Corte ha assolto il medico chirurgo in ragione del fatto che l'errore era sì "evidente" ma solo per "un anestesista medio". L'attività anestesiologica in quanto tale non era cioè percepibile dal chirurgo sulla base del suo patrimonio di conoscenze generiche e non specialistiche (Cass., sez. IV, 12 luglio 2006, (dep. 6 ottobre 06), n. 33619).
Un secondo limite all'operatività del principio di affidamento è costituito dall'organizzazione in senso gerarchico dell'équipe, la quale conduce a configurare, a carico del soggetto in posizione apicale, obblighi di vigilanza e controllo dell'operato dei subordinati, la sussistenza dei quali emerge dalla lettura coordinata delle norme dell'ordinamento interno, e in particolare del d.lgs. n. 229/1999. Nel caso dell'apicale, è opportuno distinguere due situazioni: se il primario esegue personalmente la prestazione sanitaria, occupandosi direttamente della cura del singolo paziente, egli è chiamato al rispetto delle leges artis, come qualsiasi altro medico, con la differenza che al primario si richiede un livello di esperienza e di preparazione tecnico-scientifica in linea con il suo elevato grado di specializzazione professionale. Nell'esercizio della sua attività indiretta di controllo, vigilanza e indirizzo, il primario è invece tenuto ad osservare regole cautelari di diverso contenuto: egli deve scegliere i collaboratori cui affidare la responsabilità di un intervento diagnostico-terapeutico (con la conseguenza che la scelta di un soggetto inidoneo a svolgere le funzioni assegnate porterebbe a configurare in capo al primario la c.d. culpa in eligendo), e ad impartire direttive ed istruzioni sulle prestazioni di diagnosi e cura, vigilando sulla relativa corretta attuazione (regole cautelari rispetto alle quali è configurabile in capo al primario la c.d. culpa in vigilando) (G. Marinucci, Profili penalistici del lavoro medico-chirurgico in équipe, in La colpa. Studi, Giuffrè, Milano, 2013, p. 288 e L. Risicato, L'attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L'obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, p. 35). La sussistenza dei doveri di controllo e coordinamento a carico del primario è costantemente affermata in giurisprudenza: si segnalano, ex multis, Cass. sez. IV, 20 luglio 2018 (dep. 6 dicembre 2018), n. 54573; Cass. sez. IV, 15 novembre 2018 (dep. 29 novembre 2018), n. 53453; Cass. sez. IV, 23 ottobre 2014, (dep. 15 gennaio 2015), n. 1832. Quanto all'assolvimento dei doveri di controllo, parte della dottrina (A Palma, Paradigmi ascrittivi della responsabilità penale nell'attività medica plurisoggettiva: tra principio di affidamento e dovere di controllo, Jovene, Napoli, 2016, p. 140) si accontenta di una corretta organizzazione del reparto da parte del soggetto in posizione apicale; inoltre rileva che l'incisività dei controlli che l'apicale è tenuto a svolgere sulla corretta attuazione delle sue direttive varia a seconda del grado di complessità del compito delegato, nonché dell'inquadramento della persona a cui le indicazioni sono rivolte: il controllo sull'aiuto, per esempio, potrà essere meno incisivo di quello da esercitare sul medico in posizione iniziale, godendo il primo di più ampi margini di autonomia decisionale. Qualora il primario ravvisi errori dei suoi collaboratori o situazioni di particolare complessità, egli è tenuto ad avocare a sé il compito precedentemente delegato. Parte della dottrina ha segnalato che una responsabilità dell'apicale per qualsiasi errore commesso dal subordinato potrebbe riportare a riconoscere, in capo al primo, una responsabilità per fatto altrui (A Palma, Paradigmi ascrittivi della responsabilità penale nell'attività medica plurisoggettiva: tra principio di affidamento e dovere di controllo, Jovene, Napoli, 2016, p. 139): l'apicale risponderebbe infatti in ogni caso, salve le ipotesi in cui le circostanze concrete rendevano impossibile l'uso della diligenza richiesta (B. Rossi, La responsabilità del capo dell'équipe medico-chirurgica, in Cass. pen, n. 11/2019, p. 3978). Per porre rimedio a tale vulnus, si è tentato di valorizzare, anche in questo caso, il principio di affidamento, che opererebbe, nel caso dell'apicale, in senso opposto rispetto al consueto: la sua responsabilità sarebbe infatti esclusa qualora sussistano circostanze concrete tali da far ritenere l'affidabilità dei medici operanti in posizione subalterna. In questo senso, il principio di affidamento non costituirebbe, nel caso dell'apicale, la regola, bensì l'eccezione (G. Fortunato, Ancora sui rapporti fra il principio di affidamento ed équipe medica, osservazioni su Cass. sez. IV, 30 marzo 2016, (dep. 5 maggio 2016), n. 18780, in Diritto penale contemporaneo, 5/2017): se il medico può generalmente riporre fiducia nell'operato dei colleghi, salvo che si verifichino circostanze tali da far apparire mal riposta quella fiducia, l'apicale può, al contrario, fidarsi dell'operato dei subordinati solo qualora essi si distinguano come meritevoli di fiducia. Una sentenza recente (Cass., sez. IV, 5 maggio 2015 (dep. 28 luglio 2015), n. 33329) ha poi ipotizzato l'esistenza di un'eccezione alla regola del non-affidamento valida nei confronti del capo équipe. La Cassazione ha infatti ritenuto che nei confronti del soggetto in posizione apicale non operi, in linea generale, il principio di affidamento, gravando su tale soggetto un obbligo di dirigere e coordinare l'attività degli altri terapeuti; tale responsabilità non è tuttavia, a parere della Corte, priva di limiti: qualora dell'équipe faccia parte un medico portatore di un sapere altamente specialistico, il suo ruolo decisorio e la sua responsabilità devono considerarsi preminenti rispetto a quelle del capo équipe. Il ruolo guida del capo équipe riemerge nel caso di scelte che rientrano nel comune sapere di un accorto terapeuta, nonché per quanto riguarda ambiti interdisciplinari, nei quali è coinvolta la concorrente competenza di diverse figure. Quindi, quando l'errore è riconoscibile perché banale, o perché coinvolge la responsabilità del capo équipe, questi non può esimersi dal dirigere la comune azione e da imporre la soluzione più appropriata.
Caso più complesso è quello della responsabilità del subalterno per il fatto dell'apicale. Si tratta in questo caso di accertare la responsabilità concorsuale dell'aiuto primario o dell'assistente, sia nel caso di evento lesivo direttamente cagionato dal subordinato sulla base delle direttive del superiore, sia nel caso in cui l'evento sia stato materialmente cagionato dal sanitario in posizione apicale con la collaborazione acquiescente del subordinato. Il medico in posizione subalterna è tenuto ad un potere-dovere di dissenso nelle ipotesi in cui non condivida le scelte compiute dal sanitario in posizione apicale in quanto ritenute erronee o foriere di rischi per il paziente (A. Salerno, Responsabilità medica in équipe: cooperazione colposa, posizione di garanzia degli organi apicali e principio di auto-responsabilità dei singoli cooperanti, Rivista italiana di medicina legale e del diritto in campo sanitario, 2014, pp. 595 ss e L. Cornacchia, Responsabilità penale da attività sanitaria in équipe, in Rivista italiana di medicina legale e del diritto in campo sanitario, 2013, p. 1219, Cass. pen. sez. IV, 17/11/1999, Zanda in Dir. pen. proc., 2000, p. 1626); nel caso non esprima tale dissenso, il subalterno risponderà, ex art. 40 comma 2 c.p., del fatto commesso dall'apicale (A Palma, Paradigmi ascrittivi della responsabilità penale nell'attività medica plurisoggettiva: tra principio di affidamento e dovere di controllo, Jovene, Napoli, 2016, p. 158). Si è sottolineato in dottrina che il rapporto tra primario e subordinato delineato dalla giurisprudenza si fonda su un rapporto dialettico tra i vari professionisti che assume i contorni di un'astrazione lontana dalla realtà (L. Gizzi, équipe medica e responsabilità penale, Ipsoa, Milano, 2011, p. 135). La qualifica di aiuto, infatti, viene di solito attribuita a medici giovani e ancora in fase di maturazione professionale, mentre il primario conserva sempre un potere di direttiva nei confronti dei subordinati; di conseguenza, il riconoscimento di una sfera di autonomia dell'aiuto non appare sufficiente a configurare, a suo carico, un vero e proprio dovere di verifica in ordine alla validità e correttezza delle istruzioni tecniche ricevute (L. Gizzi, équipe medica e responsabilità penale, Ipsoa, Milano, 2011, p. 135). Nel caso di prestazioni sanitarie svolte in gruppo, è comune distinguere tra équipe sincronica (cooperazione fra medici o fra medici e ausiliari che agiscono in un unico contesto spazio-temporale: pensiamo al chirurgo e all'anestesista durante un'operazione) e diacronica (il percorso diagnostico o terapeutico si sviluppa attraverso una serie di attività tecnico-scientifiche di competenza di sanitari diversi, funzionalmente o temporalmente successive: pensiamo al medico di pronto soccorso che prescriva un esame poi svolto dal radiologo). Nel caso dell'équipe diacronica, si pone il problema dell'avvicendamento nella posizione di garanzia, problema sovente postosi al momento dell'individuazione del medico responsabile delle complicanze sorte, e non efficacemente gestite, in fase post-operatoria. A questo proposito, si sostiene che il sanitario che abbia svolto la prestazione di propria competenza mantiene l'obbligo di monitorare le condizioni del paziente, o almeno di affidarlo ad altro sanitario adeguatamente informato circa le sue condizioni (B. Rossi, La responsabilità del capo dell'équipe medico-chirurgica, in Cass. pen, n. 11/2019, p. 3978, N. Caroleo Grimaldi, La responsabilità del chirurgo dopo lo scioglimento dell'équipe operatoria, nota a Cas. pen., sez. IV, 23 gennaio 2018, (dep. 15 maggio 2018), n. 22007, in Cassazione penale, n. 11/2018, L. Gizzi, équipe medica e responsabilità penale, Ipsoa, Milano, 2011, p. 90) (Cass., sez. IV, 1 dicembre 2004 (dep. 11 marzo 2005), n. 9739). Per quanto riguarda, in particolare, la responsabilità del chirurgo, si è affermato in giurisprudenza che questa si estende alla fase post-operatoria, con la conseguenza che è ravvisabile la responsabilità di tale soggetto ove, terminato l'intervento, il chirurgo si sia allontanato senza avere affidato il paziente ad altri sanitari, debitamente edotti, in grado di seguire il decorso post-operatorio (Cass., sez. IV, 23 gennaio 2018, (dep. 18 maggio 2018), n. 22007; Cass., sez. IV, 6 marzo 2012, (dep. 9 maggio 2012), n. 17222; Cass., sez. IV, 8 febbraio 2005, (dep. 30 marzo 2005), n. 12275). Si è puntualizzato in giurisprudenza (Cass., sez. IV, 26 ottobre 2011 (dep. 19 dicembre 2011), n. 46824; Cass., sez. IV, 26 gennaio 2005, (dep. 18 maggio 2005), n. 18568) che, ove l'affidante ponga in essere una condotta colposa causalmente rilevante, la condotta dell'affidatario, anch'essa causalmente rilevante, non vale a escludere la responsabilità del primo in base al principio dell'equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta (il che accadrà quando il garante sopravvenuto abbia posto nel nulla le situazioni di pericolo create dal predecessore, o eliminandole o modificandole in modo tale che non possano essere più attribuite al precedente garante); quindi, il sanitario che abbia innescato colposamente un rischio e abbia poi perso il controllo del bene protetto - costituito dalla vita o dall'incolumità fisica del paziente - rimane garante della incolumità del paziente e risponde degli eventi lesivi che si siano verificati a causa del mancato rispetto, da parte sua, della leges artis, anche qualora il successore abbia colposamente omesso di disinnescare il rischio. In effetti, l'ipotesi appena descritta non configura un'eccezione al principio di affidamento, ma piuttosto un quid alieni rispetto a esso: tale principio, infatti, presuppone che l'evento sia materialmente ascrivibile a un soggetto diverso da colui che lo invochi, il quale mira proprio a sottrarsi alla responsabilità penale per non aver neutralizzato il fatto lesivo altrui, che non rientra, pertanto, fra i suoi doveri di diligenza, prudenza e perizia (G. Fortunato, Ancora sui rapporti fra il principio di affidamento ed équipe medica, osservazioni su Cass., sez. IV, 30 marzo 2016, (dep. 5 maggio 2016), n. 18780, in Dir. pen. cont., 5/2017). Il principio di affidamento non può in nessun caso autorizzare l'inosservanza delle regole cautelari a cui il professionista è tenuto, ogni volta che gli effetti di tale inosservanza siano in astratto neutralizzabili dalla condotta osservante del successore nella medesima posizione di garanzia (L. Gizzi, Équipe medica e responsabilità penale, Milano, 2011, p. 90). Esso potrà, invece, essere invocato dal medico subentrante, il quale potrà confidare che l'operato del suo predecessore sia stato conforme alla leges artis e che le informazioni trasmesse siano corrette a meno che, sulla base del quadro clinico del paziente, non sia in grado di avvedersi di anomalie o inadeguatezze dell'operato dei precedenti garanti, a cui dovrà rimediare per adempiere alla posizione di garanzia che lo investe (L. Gizzi, Équipe medica e responsabilità penale, Milano, 2011, p. 90). Se invece le informazioni trasmesse dall'operatore che per primo ha agito non siano corrette, e di tale erroneità non sia possibile avvedersi, il secondo medico non potrà rispondere penalmente. Preme sottolineare un ultimo risultato giurisprudenziale, ovvero che l'équipe è tale anche se assembrata in modo estemporaneo e per ragioni di urgenza (N. Caroleo Grimaldi, La responsabilità del chirurgo dopo lo scioglimento dell'équipe operatoria, nota a Cass. pen., sez. IV, 23 gennaio 2018, (dep. 15 maggio 2018), n. 22007, in Cassazione penale, n. 11/2018). Casistica
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