L'esercizio dell'attività medico-chirurgica determina una serie di problematiche che possono comportare risvolti anche in ambito penale e che hanno portato ad un articolato dibattito in dottrina e giurisprudenza su numerose questioni.
Inquadramento
La condotta del medico, infatti, sebbene normalmente caratterizzata da una chiara finalità terapeutica, può comportare, anche in caso di esito fausto, una qualche forma di alterazione anatomica o funzionale dell'organismo almeno nell'immediato (si pensi ad esempio all'intervento chirurgico che implica necessariamente un'incisione operatoria, ma anche ad un'attività diagnostica di tipo invasivo o di somministrazione di farmaci con possibili effetti collaterali).
La giurisprudenza ha, quindi, affrontato nel tempo una serie di problematiche, quali, ad esempio, il fondamento di liceità dell'attività medico e, di conseguenza, la rilevanza giuridica del consenso validamente prestato dal paziente; l'eventuale rilevanza penale della condotta del medico in caso di esito fausto o infausto, soprattutto in caso di intervento arbitrario (per consenso invalido o mancante, o di trattamento oltre il consenso, o nei casi estremi di dissenso espresso).
Consenso informato: fondamento di liceità dell'attività medica
Il fondamento dell'attività medica (ad eccezione dei casi degli interventi obbligatori o assolutamente necessari ed urgenti), secondo l'impostazione oggi prevalente, è da ricercarsi nel consenso del paziente, che rappresenta quindi il presupposto di liceità o di legittimità dell'agire del medico. Tale presupposto indefettibile, che giustifica il trattamento sanitario, viene rinvenuto nella scelta libera e consapevole della persona che a quel trattamento si sottopone, nel rispetto dei principi costituzionali di tutela dei diritti della persona e della salute ex artt. 2,13 e 32 Cost. (Corte costituzionale n. 438/2008). Alla luce di tali principi il paziente correttamente informato deve essere libero di scegliere non solo a quale trattamento sottoporsi ed a quale medico affidarsi, ma eventualmente anche di non sottoporsi a nessun trattamento o interrompere le cure già in corso (salvo i casi di trattamenti sanitari obbligatori).
La materia di consenso è stata per la prima volta regolamentata con l'approvazione della legge n. 219/2017 (entrata in vigore il 31 gennaio 2018) che in parte disciplina il consenso informato e in parte le disposizioni anticipate di trattamento.
Il consenso del paziente rappresenta il fondamento di liceità dell'attività medica. Il consenso per essere validamente prestato deve essere: personale, espresso, attuale, libero, effettivo e naturalmente informato e consapevole.
Il consenso per essere ritenuto validamente prestato deve essere, secondo i parametri elaborati dalla Giurisprudenza: personale, ossia provenire dalla persona che subirà il trattamento (salvo i soggetti incapaci o minori); espresso; attuale, ossia precedente all'attività medica; libero da vizi della volontà; effettivo; informato e consapevole rispetto a tutti i rischi, alle probabilità di successo ed alle possibili alternative. Le informazioni devono essere fornite dal medico curante in modo tale che siano comprensibili per quello specifico paziente.
Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso video registrazioni o dispositivi che consentano di comunicare per le persone con disabilità. Il consenso deve essere inserito nella cartella clinica (art. 1, comma 4, l. 219/2017).
Si precisa, infine, che parzialmente diversa è la valutazione in relazione agli interventi di chirurgia plastica ove non è presente un carattere di urgenza: anzi, è stato messa in dubbio la sussistenza stessa della finalità terapeutica, trattandosi di interventi su soggetti sani. In questa tipologia di interventi, incombe sul sanitario un dovere di informazione più pregnante, che vada oltre la semplice prospettazione ed enumerazione dei rischi, delle modalità e delle possibili scelte, e si estenda ad un giudizio globale sulla persona, come la stessa risulterà dopo l'intervento (Cass. pen., sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 2092).
Trattamento medico arbitrario: ipotesi di rilevanza penale
Il consenso validamente prestato dal paziente costituisce il fondamento di legittimità dell'attività medica, rimane però discusso se è quali profili di responsabilità penale possano individuarsi in capo al medico che operi in assenza o oltre il consenso. Si parla in tal caso di trattamento medico arbitrario, il quale ricomprende le ipotesi di assenza di consenso, di consenso non validamente prestato, nonché di consenso prestato per un trattamento diverso di quello poi effettivamente eseguito.
Sul punto si differenzia il caso di esito fausto dell'intervento medico da quello infausto.
Sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite a seguito di contrasto giurisprudenziale in merito ai possibili reati configurabili in capo al medico che ponga in essere un trattamento arbitrario, nella specie più invasivo di quello concordato con il paziente, ma con esito fausto (Cass. pen., sez. unite, n. 2437/2008). La Suprema Corte ha escluso che in un caso siffatto potesse configurarsi il reato di violenza privata di cui all'art. 610 c.p. poiché nel caso di operazione l'elemento costitutivo del reato rappresentato dalla “violenza” e l'evento di coartazione che si imporrebbe alla persona offesa di subire finirebbero per coincidere nell'operazione medica stessa, rendendo così tecnicamente impossibile la configurabilità del reato in oggetto.
Nella medesima pronuncia, la Suprema Corte ha analizzato anche la problematica relativa alla configurabilità del reato di lesioni dolose di cui all'art. 582 c.p. In merito vengono affrontati due aspetti: la configurabilità dell'elemento soggettivo e dell'evento delle lesioni. Sul primo aspetto, la Corte evidenzia come l'attività sanitaria in genere abbia di per sé una finalità terapeutica, ossia orientata alla realizzazione di un beneficio per il paziente, e, quindi, sia incompatibile con l'elemento soggettivo del dolo di cui all'art. 582 c.p. (salvo il caso del sanitario che abbia agito con la finalità di ledere).
La Suprema Corte, inoltre, ritiene che nel concetto di “malattia” giuridicamente rilevante non siano ricomprese tutte le alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale, ma solo quelle da cui derivi un'alterazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo significativa, anche se non definitiva. «Le conseguenze dell'intervento chirurgico non potranno coincidere con l'atto operatorio in se e con le lesioni che esso naturalisticamente comporta, ma con gli esiti che quell'intervento ha determinato sul piano della valutazione complessiva della salute».
Pertanto, la condotta del medico che abbia eseguito un intervento, seppur arbitrario, ma nel rispetto delle legis artis e con esito fausto, ossia con un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, è priva di rilevanza penale.
Diversa soluzione viene a delinearsi nell'ipotesi di intervento con esito infausto. In tal caso potrebbe ipotizzarsi il reato di lesioni colpose ex art. 590 c.p., o di omicidio colposo ex art. 589 c.p. nel caso di morte del paziente, valendo il ragionamento in merito all'esclusione della configurabilità dell'elemento soggettivo del dolo.
Dissenso espresso al trattamento sanitario e disposizioni anticipate di trattamento
Maggiori problemi sussistono nelle ipotesi di dissenso espresso del malato ad essere sottoposto ad un trattamento sanitario o a proseguire le cure già in corso, salvo i casi in cui si tratti di un trattamento obbligatorio per legge, per cui la condotta del medico sarà scriminata ai sensi dell'art. 51 c.p.
Occorre sottolineare che con l'entrata in vigore il 31 gennaio 2018 della legge n. 219/2017 è stato per la prima volta disciplinata la materia del consenso informato e quindi anche del dissenso ad iniziare o proseguire le cure, oltre che il problema dei limiti e della validità delle disposizioni anticipate.
La norma sancisce il diritto di ciascuno, purché capace di agire, di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario (compresi la nutrizione e l'idratazione artificiale). Come per il consenso, anche il dissenso deve essere documentato in forma scritta, su supporto video o tramite altri dispositivi idonei per le persone con disabilità. Naturalmente il paziente può sempre revocare la propria disposizione di volontà in merito alle cure.
La volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo deve essere rispettata dal medico, il quale, quindi, in tal caso andrà esente da responsabilità civile o penale. In ogni caso il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico – assistenziali. A fronte di tali richieste il medico non ha obblighi assistenziali (art. 1, comma 6, l. 219/2017).
L'articolo 4 della legge 219/2017 introduce inoltre la possibilità attraverso i DAT (Disposizioni anticipate di trattamento – c.d. “testamento biologico” o “biotestamento”) per le persone maggiorenni e capaci di intendere e volere di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari (consenso o rifiuto ad accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche o singoli trattamenti) in previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi. I Dat devono essere preceduti da adeguate informazioni mediche sulle conseguenze di tali scelte. I Dat devono essere redatti per atti pubblico o scrittura privata autenticata e annotati in apposito registro, inserito nella Banca dati nazionale creata presso il Ministero della Salute.
Nella disposizione l'interessato può nominare un “fiduciario” che – previa accettazione – ne farà le veci e lo rappresenterà nel rapporto con i medici e le strutture sanitarie.
Le disposizioni possono essere disattese in tutto o in parte dal medico, in accordo con il fiduciario, qualora appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.
Profili di responsabilità penale: il nesso di causa
Ulteriore elemento essenziale nella valutazione dell'eventuale rilevanza penale della condotta del medico è la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra la sua condotta e l'evento lesivo causato al paziente.
Anche in ambito medico, è ormai pacificamente consolidato l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale per stabilire la sussistenza del nesso di causa occorre effettuare un duplice controllo: in primo luogo individuare una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto (sussunzione sotto leggi scientifiche). In secondo luogo, occorre verificare, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, l'attendibilità in concreto della spiegazione causale così ipotizzata (giudizio controfattuale). Tale secondo controllo avviene ipotizzando come avvenuta l'azione doverosa omessa o, al contrario, come non compiuta la condotta commissiva assunta a causa dell'evento e verificando se l'evento si sarebbe o meno verificato con un elevato grado di probabilità logica. Giudizio che presuppone l'esclusione dell'interferenza di decorsi causali alternativi.
Inoltre, in materia sanitaria non sempre risulta agevole la distinzione tra azione ed omissione, al fine della valutazione della sussistenza del nesso di causa tra la condotta posta in essere dal medico e l'evento lesivo determinato al paziente o, nei casi più gravi, l'evento morte. In linea generale, si ritiene che qualora il medico abbia determinato attraverso la propria condotta (ad es. con la somministrazione di un farmaco inappropriato) il peggioramento della situazione clinica, o addirittura il decesso, si tratterà di un addebito commissivo. Laddove, invece, il peggioramento delle condizioni di salute del paziente, o il sui decesso, siano stati determinati dal peggioramento della patologia di cui il soggetto già soffriva, ed il medico non abbia sottoposto il paziente alla procedure diagnostiche che gli avrebbero consentito la scoperta tempestiva della malattie e l'adozione delle necessarie cure, oppure non abbia adottato quei presidi terapeutici che gli avrebbero consentito di contrastare tale processo patologico in atto, l'addebito sarà a titolo omissivo.
Con riferimento specifico ai reati omissivi, secondo l'orientamento ormai consolidato con la pronuncia delle Sezioni unite n. 30328 del 10 luglio 2002 (sentenza Franzese) in relazione al grado di probabilità necessario per accertare la sussistenza del nesso di causa, si è ritenuto che, soprattutto in un settore quale quello della medicina, caratterizzato dalla complessità della interazione tra tutti gli antecedenti della catena ezio-patogena in cui si inserisce la condotta del medico, non si possa pretendere un coefficiente probabilistico delle leggi di copertura prossimo alla certezza. «È indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch'essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento. Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale (invero assai rare nel settore in esame), pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l'irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi la attendibilità in riferimento al singolo evento e all'evidenza disponibile».
Inoltre, è stato affermato in giurisprudenza che con specifico riferimento ai reati omissivi impropri in ambito sanitario, secondo il quale sussiste il nesso di causa tutte le volte in cui risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o legge scientifica, non solo che l'evento lesivo non si sarebbe verificato, ma anche che si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minor intensità lesiva. Per l'effettuazione di tale valutazione occorre verificare la specifica attività richiesta al sanitario coinvolto (diagnostica, terapeutica, di salvaguardia e vigilanza dei parametri vitali del paziente o altro) e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare l'evento lesivo con alto grado di credibilità razionale. Per poter effettuare il giudizio controfattuale occorre conoscere non solo le informazioni scientifiche sulla patologia del paziente ma anche tutte le contingenze significative del caso concreto. In particolare, ha specificato la Corte come «in tema di colpa nell'attività medico chirurga, il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l'effettivo rilievo condizionante della condotta umana (nella specie: l'effetto salvifico delle cure omesse) si deve fondare su affidabili informazioni scientifiche nonché sulle contingenze significative del caso concreto, dovendosi comprendere a) qual è solitamente l'andamento della patologia in concreto accertata; b) qual è normalmente l'efficacia delle terapie; c) quali sono i fattori che solitamente influenzano il successo degli sforzi terapeutici» (Cass. pen., sez. IV, 16 giugno 2021, n. 24439).
Inoltre, alcuni recenti assunti giurisprudenziali hanno cominciato a tener conto nella valutazione della sussistenza del nesso di causa anche di eventuali mancanze organizzative e gestionali delle strutture sanitarie in cui i medici si trovino a dover operare, in particolare quando le carenze siano così gravi da incidere sulla possibilità stessa del medico di intervenire. La giurisprudenza è pervenuta così a delle sentenza assolutorie in casi in cui, pur magari in presenza di una negligenza del medico, le mancanze del nosocomio erano così gravi, per assenza di strumentazione adeguata, di personale, di sale operatorie attrezzata, da andare ad elidere il nesso di causa tra la condotta del medico e l'evento morte del paziente: con un elevato grado di probabilità una diagnosi tempestiva da parte del medico non avrebbe comunque consentito di fronteggiare la patologia (Cass. pen., sez. IV, 7 ottobre 2014 n. 46336).
L'elemento soggettivo della colpa e le esimenti specifiche in ambito di responsabilità medica
L'ambito dell'attività medica si caratterizza per essere un'attività connotata il più delle volte da particolare complessità e difficoltà tecnica, dovuta alla compresenza di numerosi fattori e variabili, e quindi da un certo margine di rischio. Inoltre, in tale ambito si pone allo stesso tempo la necessità di tutelare i diritti del paziente e quella di garantire al medico di poter agire serenamente ed in autonomia nelle sue scelte terapeutiche tenendo conto della peculiarità della sua attività e dei rischi che questa comporta, onde evitare quello che viene definito il fenomeno della medicina difensiva. Tutto ciò ha comportato un'evoluzione giurisprudenziale oscillante nella valutazione della condotta dei sanitari in senso più o meno favorevole e garantista a cui si sono affiancati alcuni interventi legislativi, con l'introduzione di peculiari cause di esclusione della responsabilità riservate a tali professionisti.
Si segnalano i due più rilevanti e recenti interventi normativi in materia, che hanno ristretto la rilevanza penale della condotta colposa del sanitario che nell'esercizio delle proprie funzioni abbia determinato delle lesioni o nei casi più gravi la morte del paziente.
Il primo intervento legislativo si è avuto con l'entrata in vigore dell'esimente di cui all'art. 3 della l. 189 dell'8 novembre 2012. La norma escludeva la rilevanza penale per i reati commessi dal sanitario nell'esercizio della propria attività per colpa lieve, purché avesse agito nel rispetto delle linee guida o delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Si trattava, secondo la giurisprudenza, di un caso si abolitio criminis parziale (Cass. pen., sez. IV, n. 16237/2013).
La norma aveva, però, creato non pochi problemi interpretativi. In primo luogo, veniva introdotta per la prima volta in ambito penale la distinzione tra colpa lieve e colpa grave. Secondo la giurisprudenza al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, potevano essere utilizzati i seguenti parametri valutativi della condotta tenuta dall'agente: la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi; la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell'agente; la motivazione della condotta; la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (Cass. pen., sez. IV, n. 22405/2015).
Inoltre, non era chiaro, in assenza di qualsiasi definizione normativa, che cosa dovesse intendersi per “linee guida” o per “buona prassi”, né tanto meno quali fossero le linee guida o le prassi a cui dovesse far riferimento il sanitario. In assenza di specifiche indicazioni, la giurisprudenza ha ritenuto che fosse onere del sanitario indagato provare non solo di aver tenuto una condotta conforme alle linee guida (o le buone pratiche), ma anche che le stesse risultassero accreditate presso la comunità scientifica (Cass. pen., sez. IV, n. 7951/2013).
Secondo l'esegesi giurisprudenziale elaborata circa la lettura della norma, da una parte l'osservanza rigorosa delle linee guida non era ritenuta di per sè ragione sufficiente di esonero da responsabilità, dall'altra il mancato rispetto delle linee guida non era considerato prova automatica di una condotta colposa. La valutazione dell'organo giudicante, infatti, doveva tener conto anche delle peculiarità del caso concreto che il sanitario si fosse trovato a fronteggiare, come nel caso in cui la situazione clinica ed organizzativa presentasse circostanze specifiche tali da consigliare di discostarsi dalle linee guida (Cass. pen., sez. IV, n. 24455/2015).
Infine, si era posto il problema se l'esimente in questione potesse trovare applicazione in tutte le ipotesi di colpa o solo qualora si fosse trattato di un caso di colpa per imperizia. Sul punto si sono contrapposti due orientamenti giurisprudenziali, anche se la giurisprudenza più recente si era orientata nel prediligere una lettura estensiva della norma tale da ricomprendere anche la ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza e non solo per imperizia (Cass. pen., sez. IV, n. 23282/2016).
L'art. 3 della l. 189/2012 è stato espressamente abrogato dalla l. 24 del 17 marzo 2017, che ha introdotto una riforma in ambito sanitario non solo nel settore penale ma anche in ambito civile e amministrativo.
Per ciò che riguarda l'ambito penale, forse per superare le problematiche interpretative bella legge Balduzzi, il Legislatore ha previsto l'introduzione nel codice penale dell'art. 590-sexies che prevede una nuova esimente specifica per le professioni sanitarie (articolo introdotto dall'art. 6 l. 24/2017).
Il nuovo art. 590-sexies c.p., in estrema sintesi conferma la punibilità per i fatti di reato di cui agli artt. 589 e 590 c.p. (omicidio colposo e lesioni personali colpose) commessi nell'ambito dell'esercizio della professione sanitaria. Prevede, però, l'esclusione della punibilità quando siano rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, delle buone pratiche clinico assistenziali, purché le stesse siano adeguate alle specificità del caso concreto. L'esimente così introdotta si applica, per espressa previsione del legislatore, solo ai casi di imperizia.
Pertanto, i presupposti applicativi della nuova causa di non punibilità per l'esercente la professione sanitaria sono fondamentalmente tre: che l'evento si sia verificato a causa di imperizia, che siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida così come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in assenza di queste, delle buone pratiche clinico – assistenziali. Infine, che le predette raccomandazioni previste dalle linee guida risultino adeguate al caso concreto. Inoltre, l'errore non deve ricadere nella fase di scelta delle linee guida, ma solo sulla fase attuativa delle stesse.
L'articolo 6 della legge di riforma deve essere letto in stretta correlazione con l'articolo 5 della stessa norma, che per la prima volta prevede la creazione di una sorta di banca dati delle linee guida “approvate” dalla comunità scientifica: il Sistema nazionale delle linee guida (S.N.L.G.) reperibile sul sito internet dell'Istituto superiore di sanità.
Sono intervenute le Sezioni Unite con una prima sentenza interpretativa (Cass. pen., sez. un., 21 dicembre 2017 n. 8770) evidenziando come la norma, seppur non lo indichi espressamente, debba essere circoscritta alle sole ipotesi di colpa lieve. La valutazione del grado della colpa, come già previsto per la Legge Balduzzi, deve essere effettuata in concreto, tenendo conto del parametro dell'homo eiusdem professionis et condicionis, che è quello del modello dell'agente operante in concreto, nelle specifiche condizioni concretatesi.
In conclusione le SS.UU. hanno precisato che l'esercente la professione sanitaria risponde a titolo di colpa per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio di attività medico – chirurgica:
a) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza;
b) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico – assistenziali;
c) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee guida o di buone pratiche non adeguate alla specificità del caso concreto;
d) Se l'evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell'esecuzione di raccomandazioni, quando il medico, in detta fase, abbia comunque scelto e rispettato le linee guida o, in mancanza, le buone pratiche che risultano adeguate o adattate al caso concreto, tenuto conto altresì del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell'atto medico”.
Con riferimento, inoltre, alla problematica della successione di leggi penali nel tempo, in conformità ai principi dell'art. 2 comma 4 c.p., sulla base del raffronto del contenuto precettivo dell'art. 590-sexies c.p. e dell'art. 3 l. 189/2012, secondo la Suprema Corte, quest'ultimo risulta più favorevole , quindi applicabile, in relazione alle contestazione per comportamenti del sanitario – commessi prima dell'entrata in vigore della legge Gelli – Bianco – connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve e nell'ambito della colpa da imperizia, quando l'errore, determinato da colpa lieve, sia ricaduto sul momento selettivo delle linee guida e cioè su quello della valutazione dell'appropriatezza delle linee guida. Ipotesi entrambe escluse dalla portata applicativa dell'esimente introdotta dalla legge Gelli Bianco.
Si segnala che l'art. 3-bis l. 76/2021 ha introdotto il c.d. “scudo penale Covid-19”. La norma ha circoscritto la punibilità per le condotte integranti i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p. commessi nell'esercizio della professione nel periodo dal 31.01.2020 al 31.03.2022, cioè durante lo stato di emergenza epidemiologica, alle sole ipotesi di colpa grave.
Tale limitazione di responsabilità è stata estesa con il d.l. 215/2023 convertito dalla l. 18/2024 (c.d. Decreto Milleproroghe 2024) per il periodo fino al 31.12.2024 in situazioni di grave carenza del personale sanitario. L'art. 4 comma 8-septies prevede: «La limitazione della punibilità ai soli casi di colpa grave prevista, per la durata dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, dall'articolo 3-bis del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2021, n. 76, si applica altresì ai fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale commessi fino al 31 dicembre 2024 nell'esercizio di una professione sanitaria in situazioni di grave carenza di personale sanitario».
La responsabilità d'equipe
Spesso l'attività medica comporta l'apporto di più specialisti in regime di collaborazione. Il loro contributo può verificarsi in maniera contestuale, come solitamente accade negli interventi chirurgici d'equipe o di gruppo, o successiva, quando il percorso diagnostico o terapeutico si sviluppi con l'intervento di sanitari con specialità differenti che pongano in essere una serie di attività mediche temporalmente e funzionalmente successive. In entrambi i casi, ovviamente, il contributo di ciascun medico si unisce a quello degli alti nel comune obiettivo della cura e salvaguardia della salute del paziente.
Nel caso di esito infausto del trattamento sanitario si pone il problema di stabilire se e in quali limiti ciascun sanitario possa essere chiamato a rispondere dei comportamenti addebitabili ad altri componenti dell'equipe medica.
Trova applicazione anche in ambito di responsabilità medica il generale principio di affidamento, espressione del principio della personalità della responsabilità penale, per cui ciascuno è tenuto a rispondere solo del proprio operato, nel rispetto delle regole di diligenza, prudenza e perizia, e senza essere gravato da un obbligo di vigilanza dell'operato altrui, ma potendo confidare che ciascuno si comporti nel rispetto delle regole precauzionali riferibili all'agente modello.
Vi sono però delle ipotesi in cui, per giurisprudenza pacifica, non può essere invocato il principio di affidamento. Il primo caso si verifica quando colui che si affida nell'operato dei sanitari che intervengono successivamente sia in colpa per aver violato una norma precauzionale e, quindi, confidi che altri eliminino quella violazione o vi pongano rimedio.
Non si applica, inoltre, il principio di affidamento qualora gli errori compiuti da un membro dell'equipe siano evidenti e dunque rilevabili ed emendabili, anche senza le conoscenze specialistiche; ciascun membro dell'equipe non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da un altro collega, anche se specialista in altra disciplina, e dal porre rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e pertanto rilevabili e rimediabili con le conoscenze scientifiche comuni del professionista medio.
L'ultima ipotesi riguarda la figura del capo-equipe, o comunque del soggetto che rivesta una posizione apicale all'interno del gruppo, che ha pertanto una posizione di garanzia qualificata che comporta quindi un obbligo di vigilanza più penetrante sull'operato dei componenti dell'equipe.
Si potrà configurare un'ipotesi di cooperazione colposa ex art. 113 c.p., quindi, nel caso in cui si verifichi una cooperazione tra più medici, quando gli stessi si alternino e/o collaborino nella cura del paziente. Analoga situazione quando un medico richieda il consulto di uno collega della stessa o di diversa specialità e poi entrambi concordino l'indirizzo terapeutico da seguire.
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Sommario
Consenso informato: fondamento di liceità dell'attività medica
Profili di responsabilità penale: il nesso di causa
L'elemento soggettivo della colpa e le esimenti specifiche in ambito di responsabilità medica