Evoluzione storica dei crimini di guerra. Prima si uccidono le persone poi si uccide la memoria
Antonio Bana
02 Ottobre 2024
Il contributo fornisce un prezioso quadro storico, normativo e consuetudinario sui crimini di guerra, che ha costituito il nucleo originario dei crimini internazionali. Il diritto umanitario internazionale disciplina i conflitti armati e prevede delle limitazioni rispetto ai metodi e ai mezzi di guerra, nonché la responsabilità derivante da una condotta non rispettosa dei diritti umani basilari.
Premessa
L’approfondimento si sofferma sui crimini di guerra e sul loro consolidamento che ha costituito il nucleo originario dei crimini internazionali.
Questi traggono la loro legittimazione da una concezione di civiltà avente radici storiche profonde. Non siamo certo stati noi i primi a concepire l’ingegnoso progetto di imporre dei limiti umanitari alla pratica della guerra: già nelle civiltà antiche, si avvertiva l’esigenza di regolamentare il fenomeno della guerra per tentare di ridurne le sofferenze e per garantire dei principi minimi di umanità e dignità (l’assedio di Troia ne è un chiaro esempio nei racconti di Omero).
Ci basti pensare anche ai codici di comportamento dei samurai giapponesi o alla cavalleria nell’Europa medievale, epoche in cui veniva tutto meticolosamente stabilito: dalla necessità di dare il giusto preavviso al comportamento sul campo di battaglia, al trattamento dei combattenti, alla protezione dei prigionieri, alla responsabilità dei vincitori dopo la resa dei nemici, eccetera.
Se è vero, dunque, che la guerra è sempre esistita e data per scontata, è altrettanto vero che da sempre si è cercato di regolarne gli eccessi, stabilendo una barriera tra civiltà e barbarie.
Si faceva sempre più strada l’idea per cui anche in guerra, ove l’uso della violenza appariva legittimo, vi fossero comunque delle regole da rispettare.
A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, nasce il diritto internazionale umanitario, ovvero quell’insieme di strumenti normativi, di origine consuetudinaria o convenzionale, che disciplinano i conflitti armati e prevedono delle limitazioni rispetto ai metodi e ai mezzi di guerra, così da proteggere le persone e alcuni beni da forme di violenza ingiustificate.
La Convenzione dell'Aia e il suo diritto
Il diritto internazionale umanitario è formato da un articolato intreccio di norme, risultante dalla progressiva stratificazione di vari Trattati e consuetudini internazionali.
Seppur sviluppatosi mediante consuetudine, è uno dei primi settori del diritto internazionale che ha ricevuto un'ampia codificazione, grazie all'adozione delle Convenzioni dell'Aia e di Ginevra. Questi corpi normativi confluiscono nello ius in bello, che disciplina e regola la condotta della guerra e protegge le vittime dei conflitti armati. In dottrina si è spesso fatto riferimento alla fondamentale distinzione tra i due diritti, che seppure ormai superata, apporta il vantaggio di una classificazione sistematica (il diritto dell'Aia è riconducibile alle Convenzioni del 1899 e del 1907, che prevedono tutta una serie di regole limitative riguardo ai mezzi e ai metodi di guerra durante la conduzione delle ostilità).
L'evoluzione normativa ha trovato espressione nella cd. “clausola Martens”, inserita nel Preambolo della IV Convenzione dell'Aia del 18 ottobre 1907, che prevede che «in attesa che venga emanato un Codice delle leggi di guerra più completo (...), le popolazioni e i belligeranti rimangono sotto la protezione e sotto l'impero dei principi del diritto delle nazioni, come risultano dai costumi stabiliti tra le nazioni civili, dalle leggi dell'umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica».
Oltre al principio di umanità enunciato nella "clausola Martens", il diritto internazionale umanitario si basa su alcuni basilari principi.
Primo fra tutti il principio di distinzione che prevede che solamente i combattenti, in particolare i membri delle forze armate, siano legittimati ad intraprendere attività belliche e di conseguenza ad essere obbiettivo di attacco. Devono invece considerarsi «persone protette» la popolazione civile o chi ha cessato di prendere parte alle ostilità.
Altro principio importantissimo è quello di proporzionalità che prevede che nell'attaccare obiettivi militari, i combattenti debbano adottare misure atte a minimizzare le conseguenze accidentali nei confronti delle persone protette e dei beni di carattere civile ed evitare l'attacco qualora appaia destinato a provocare conseguenze accidentali sproporzionate rispetto agli obiettivi. Inoltre, è prevista la limitazione delle sofferenze superflue, essendo fatto divieto di utilizzare strumenti (armi) o metodi bellici in grado di cagionare sofferenze non necessarie o che, per loro natura, sortiscono effetti dannosi indiscriminati.
La nascita del diritto di Ginevra, noto anche come «diritto umanitario», è da ricondurre Henry Dunant, uomo d'affari ginevrino che in seguito alle atrocità della Battaglia di Solferino, fondò il Comitato internazionale della Croce Rossa, che si impegnò attivamente per l'adozione di un Trattato che proteggesse le vittime di guerra e, di conseguenza, regolasse i conflitti armati.
Su impulso di questo, vennero successivamente stipulate e adottate diverse Convenzioni, comprendenti un corpo di norme internazionali che regolassero le situazioni dei conflitti armati di carattere nazionale e internazionale. I risultati delle quattro Convenzioni ginevrine hanno ridisegnato l'intero sistema convenzionale per la protezione delle «persone protette», ovvero delle persone che non prendono parte o hanno cessato di prendere parte alle ostilità. Sono validi ancora oggi e gli Stati parte delle Convenzioni assumono la generale fondamentale obbligazione di rispettare e di assicurare il rispetto delle Convenzioni «sotto ogni circostanza».
Ognuna delle quattro Convenzioni contiene la propria lista di violazioni delle leggi e delle consuetudini di guerra e di «infrazioni gravi», ma tutte contengono un articolo comune, l'articolo 3, definito anche «Trattato in miniatura» che riguarda i conflitti armati a carattere non internazionale, che si verificano nel territorio di uno degli Stati contraenti.
Per evitare una revisione delle Convenzioni, nel 1997 fu deciso di rafforzarle tramite l'adozione di due Protocolli aggiuntivi.
Questi hanno confermato ed ampliato le Convenzioni, riunendo i due settori del diritto internazionale umanitario e superando così la distinzione, puramente storica, tra Diritto dell'Aia e Diritto di Ginevra. Le esigenze militari da un lato e gli imperativi umanitari dall'altro, risultano due sistemi non più alternativi, ma complementari.
I presupposti generali dei crimini di guerra
Tutti i crimini di guerra devono essere accomunati dal fatto di essere crimini di particolare gravità e presentare dunque un profilo dell’intensità delle violazioni del diritto internazionale umanitario.
Oltre a questo, è anche necessario che la norma internazionale criminalizzi specificamente la condotta o che alternativamente alla prima norma se ne accompagni un’altra che sancisca conseguenze penali per la condotta illecita.
Per quanto riguarda la protezione del bene protetto, nonostante ciascun crimine di guerra ne abbia uno specificamente determinato, tutte le diverse fattispecie presentano condotte che mettono in pericolo persone o oggetti protetti dal diritto internazionale umanitario oppure che violano specifici valori ritenuti essenziali dalla Comunità Internazionale.
Al di là di questi tratti comuni dei crimini di guerra, essi hanno tre presupposti di carattere generale, ovvero:
la sussistenza di un conflitto armato;
il nesso tra condotta;
e conflitto armato e l’elemento psicologico.
Il conflitto armato
Il presupposto fondamentale affinché le disposizioni relative ai crimini di guerra possano trovare applicazione è la sussistenza di un conflitto armato al momento della commissione del fatto. Solo in tempo di guerra alcuni diritti umani sono ritenuti derogabili.
Il conflitto armato rappresenta dunque "l’elemento di contesto", necessario per qualificare la condotta come crimine di guerra.
Storicamente i conflitti armati sono stati classificati come internazionali e non internazionali, in base al tipo di forza coinvolta.
Per conflitto armato internazionale si intende il periodo in cui due o più Stati fanno ricorso alla forza militare, con o senza previa dichiarazione di guerra. Necessario è dunque che siano coinvolti due o più Stati.
Il conflitto armato non internazionale, invece, è caratterizzato da un periodo in cui vi è un uso protratto della violenza armata tra autorità governative di uno Stato e gruppi armati organizzati, oppure tra gruppi armati organizzati. Per i conflitti infra-statali occorre verificare dunque l’intensità del conflitto ed il grado di organizzazione degli insorti.
La linea di confine del conflitto internazionale si raggiunge quando l’intervento di almeno uno Stato in un conflitto originariamente non internazionale supera una certa soglia, ad esempio tramite l’invio di truppe o equipaggiamento militare: e così le regole applicabili saranno quelle del conflitto armato internazionale. I conflitti interni si possono infatti internazionalizzare per l’intervento, a fianco dei contendenti, di truppe di altri Stati oppure di truppe d’interposizione (ONU), per operazioni di peace keeping - peace enforcing.
In generale si può dire che il conflitto armato si risolva in operazioni militari di una certa durata, intensità ed organizzazione.
La differenza fra i due conflitti armati assume rilievo in materia di crimini di guerra.
Storicamente la Comunità internazionale ha considerato come proprio interesse la criminalizzazione di certe condotte se commesse nel contesto di guerra fra Stati: si parla infatti in questo caso di conflitto armato a carattere internazionale. Gli scontri che rimanevano nei confini internazionali, come le rivolte, le guerre civili o le insurrezioni, erano considerati invece affari interni e allo Stato coinvolto veniva riconosciuta libertà di azione pressoché illimitata riguardo questi.
La dicotomia ha portato alla conseguenza che condotte criminalizzate nei conflitti armati internazionali non lo erano invece nei conflitti armati non internazionale e l’applicabilità stessa del concetto di crimini di guerra nei conflitti non internazionali fu a lungo messa in dubbio. Per questo motivo il diritto umanitario si applicava nella sua interezza solo ai conflitti armati internazionali, mentre per quelli interni ci si rifaceva ad un corpo normativo di portata ridotta, introdotto con le Convenzioni di Ginevra del 1949.
Recentemente questa distinzione si è affievolita, avendo gli Stati accettato una regolamentazione pattizia dei conflitti armati non internazionali.
La principale differenza fra disciplina applicabile nelle due categorie di conflitti è che coloro che prendono parte ai conflitti internazionali sono generalmente da considerarsi come combattenti legittimi, mentre gli individui che prendono parte alle ostilità come insorti nel contesto dei conflitti non internazionali non godono nella condizione di prigionieri di guerra e sono assoggettabili al potere punitivo dello Stato in caso di cattura.
Inoltre il regime di occupazione militare si applica solo ai conflitti armati internazionali.
Il nesso tra la condotta e il conflitto armato
La preesistenza di un conflitto armato non è sufficiente per dare attuazione alle norme relative ai crimini di guerra.
Una volta stabilita la sussistenza del conflitto armato, è necessario verificare anche la sussistenza di un nesso funzionale tra la condotta ed il conflitto. Rappresentando il conflitto armato l’elemento di contesto, si richiede la verifica in relazione ad ogni singola condotta vietata, del fatto che essa sia stata compiuta "nel contesto" di un conflitto armato o "in connessione" con esso.
Tale nesso è necessario, in primo luogo, per verificare che la violazione sia connessa al conflitto armato e anche per distinguere un crimine di guerra da un reato comune, pure se commesso durante un conflitto armato.
Se in alcuni casi il legame tra il crimine ed il conflitto armato appare pacifico (ad esempio nel caso di una perpetrazione di una condotta illecita, punita come crimine di guerra che avviene nel corso di un combattimento), in altri casi è più complesso. Ci sono vari fattori che chiariscono la distinzione dai crimini ordinari, come ad esempio il fatto che l’agente sia un combattente, che la vittima sia una persona protetta e appartenga alla fazione opposta a quella dell’agente o che la condotta dell’agente sia tenuta nell’esercizio delle funzioni ufficiali dello stesso.
La giurisprudenza internazionale ha però stabilito che il nesso vada accertato tenendo conto delle peculiarità del caso concreto ed è da ritenersi sussistente allorché il reato sia strettamente legato al conflitto nel suo complesso. Sarà quindi da verificare se la sussistenza del conflitto ha giocato un ruolo sostanziale nella capacità dell’agente di commettere il crimine, nella sua decisione di commetterlo, nelle modalità esecutive o nello scopo preso di mira con la condotta.
In termini concreti, il conflitto deve avere creato l’occasione per la condotta in questione.
Il carattere isolato dell’atto non ha nessun valore ai fini della identificazione o meno di un crimine di guerra, ma intacca solamente la giurisdizione della Corte, che non se ne interesserà.
La nozione di reato è negli ordinamenti penali moderni, collegata alla nozione di colpevolezza; infatti, senza colpevolezza non esiste responsabilità penale. La necessità di un collegamento fra elemento materiale e psicologico si rinviene ugualmente, anche quando il crimine assume dimensione internazionale. La sussistenza di un elemento psicologico era presente già ai tempi dei processi di Norimberga, ed è stata successivamente confermata dal Tribunale per la Ex Jugoslavia. Il problema era però che non essendo definito, si lasciava l’elaborazione delle norme di parte generale all’organo giudicante sulla base dei principi generali del diritto, con il conseguente ricorso ad una pluralità di istituti propri dei singoli sistemi giuridici non sempre tra loro comparabili e cosi questo principio assumeva una valenza perlopiù generica, che non si traduceva in regole applicative chiare. Alcuni denominatori comuni a tutti i sistemi giuridici del mondo, posso essere individuati nel fatto che in quasi ogni ordinamento la forma più grave di elemento psicologico è costituita dall’intenzionalità consapevole e quella sufficiente risiede nella «consapevolezza ed accettazione del rischio» di realizzare il reato.
L’operatività del principio di colpevolezza nella dimensione internazionale è stata per la prima volta sancita da una norma ad hoc dallo Statuto di Roma. All’articolo 30, rubricato «Elementi psicologici» ed offre una definizione generale dell’elemento psicologico dei crimini internazionali. La clausola di riserva di apertura prescrive che «Salvo diversa disposizione, una persona non è penalmente responsabile e può essere punita per un crimine di competenza della Corte solo se l’elemento materiale è accompagnato da intenzione e consapevolezza». Secondo questa clausola, la norma dovrà essere applicata solo quando non ne sia reperibile una di diverso tenore più adatta al caso concreto e questo rischia di far assumere alla norma un significato marginale. Per evitare questo inconveniente, potranno ritenersi deroghe operanti all’articolo 30 solo quelle espressamente delineate da altre norme dello Statuto. Questo primo comma stabilisce che una persona può essere punita solo se l’elemento materiale è accompagnato da intenzione e consapevolezza. Successivamente si specifica che: «Ai sensi del presente articolo, vi è intenzione quando: a) trattandosi di un comportamento, una persona intende adottare tale comportamento; b) trattandosi di una conseguenza, una persona intende causare tale conseguenzao è consapevole che quest’ultima avverrà nel corso normale degli eventi. Vi è consapevolezza ai sensi del presente articolo quando una persona è cosciente dell’esistenza di una determinata circostanza o che una conseguenza avverrà nel corso normale degli eventi. "Intenzionalmente" e "con cognizione di causa" vanno interpretati di conseguenza».
Lo Statuto fa comprende anche i casi di dolo indiretto, dove l’evento non è direttamente voluto o previsto come conseguenza certa, ma vi è consapevolezza che si verificherà «nel corso normale degli eventi».
Anche con riguardo ai crimini di guerra, in ossequio all’articolo 30 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, la responsabilità penale presuppone l’intenzione e la consapevolezza.
Essendo l’esistenza del conflitto armato uno degli elementi costitutivi di ciascun crimine di guerra, è essenziale che l’autore della condotta sia a conoscenza di attuare la condotta
nel contesto di un conflitto armato, ma non è richiesta l’effettiva consapevolezza della natura internazionale od interna del conflitto. Dove invece la condotta può essere punita solo nell’ambito di un conflitto armato di carattere internazionale, il principio di consapevolezza sembra richiedere la conoscenza da parte del soggetto agente degli elementi di fatto che rendono il conflitto internazionale.
In alcuni casi i crimini richiedono esplicitamente che la condotta sia posta in essere intenzionalmente. Ad esempio, alla lettera b) dell’articolo 8 si prende in considerazione l’ipotesi del «dirigere intenzionalmente attacchi contro la popolazione civile in quanto tale o contro civili che non prendono parte alle ostilità». Qui la definizione parrebbe operare una ripetizione superflua, ma in realtà si allude ad un'intenzione come diretta finalizzazione dell’azione rispetto all’evento; così si richiede intenzionalità non solo della condotta, ma anche delle conseguenze. In questo caso il fatto illecito costituisce obbiettivo finalistico, lo scopo, che dà causa alla condotta.
Talvolta invece è richiesto un elemento specifico di consapevolezza. È il caso dell’articolo 85 dell’API «lanciare un attacco indiscriminato avente conseguenze sulla popolazione o su beni di carattere civile, nella consapevolezza che tale attacco provocherà una perdita eccessiva di vite umane (...)». Questo requisito va interpretato come previsione delle conseguenze dannose della condotta, senza chiarire se l’agente debba rappresentarsi che le conseguenze si verificheranno con certezza o con grado di probabilità.
In altre ipotesi ancora è stato ritenuto sufficiente ammettere forme più blande di elemento psichico, riconducibili al concetto di dolo eventuale o di recklessness. Tale elemento psicologico è stato ritenuto sufficiente, ad esempio, in relazione all’omicidio volontario, in quanto questo concetto comprende anche la mera accettazione del rischio che l’evento si verifichi.
Le vittime dei crimini di guerra
Affinché una condotta sia definita come crimine di guerra, ci deve essere una violazione connessa a un conflitto armato di una norma che protegge una persona o un bene.
Nelle prime tre Convenzioni di Ginevra, le persone protette si identificano in quei combattenti che, durante una fase del conflitto, siano posti fuori combattimento (hors de combat).
La quarta convenzione di Ginevra si occupa invece dei civili «nelle mani di una Parte in conflitto o di una Potenza occupante di cui non sono cittadini».
Essendo i crimini di guerra stati creati, almeno in origine, come garanzia delle norme del diritto dei conflitti armati, storicamente il soggetto passivo dei crimini di guerra è stato identificato come una persona protetta dal diritto internazionale pattizio o consuetudinario.
La principale differenza tra i conflitti armati internazionali e quelli interni è che, nel caso di conflitti armati internazionali, gli Stati hanno deciso di disciplinare i conflitti in modo più completo, secondo il principio di reciprocità. Gli Stati estendono talune protezioni ai prigionieri di guerra e ai civili, a determinate condizioni, perché ogni Stato ha interesse a che i propri combattenti - se fatti prigionieri - e i propri civili, se non partecipano alle ostilità, ricevano poi lo stesso trattamento.
I combattenti sono gli unici legittimati a prendere direttamente parte alle ostilità. Possono uccidere, infatti non possono essere puniti per avere commesso atti ostili, ma a loro volta sono obbiettivi legittimi. Possono acquisire lo status di "persona protetta" ad esempio se catturati (saranno detenuti solo in qualità di prigionieri di guerra sino al termine delle ostilità) o feriti.
Il principio di distinzione fra civili e combattenti è una norma fondamentale, in quanto nei conflitti armati è possibile porsi come obbiettivo legittimo quello di colpire i combattenti e non i civili e le persone che non prendono parte attiva alle ostilità.
Gli obbiettivi legittimi sono i membri delle forze armate.
Si definiscono forze armate, regolari o irregolari, le unità e i gruppi armati organizzati che sono posti sotto un comando responsabile della condotta dei subordinati nei confronti delle parti in conflitto e che sono soggetti ad un sistema disciplinare interno che obbliga al rispetto del diritto dei conflitti armati internazionali. Generalmente presentano i due requisiti:
di essere subordinate ad una parte al conflitto armato in questione;
e di presentare un minimo di organizzazione.
Durante le operazioni militari si differenziano dai civili, in quanto sono tenute ad indossare un’uniforme che li renda riconoscibili.
I civili sono le possibili vittime - dunque le persone protette - e rappresentano il soggetto passivo di un crimine di guerra.
La definizione di civile è quella che si evince, ad contrariis, dal combinato disposto degli articoli 43 e 50 del primo Protocollo Addizionale, secondo cui è civile «chiunque non sia membro delle forze amate o di un gruppo militare organizzato che appartenga ad una parte in conflitto».
È stato chiarito dalla giurisprudenza che i civili protetti possono essere anche cittadini di una delle parti in conflitto, qualora la loro condizione di minoranza, ad esempio etnica o linguistica, li costituisca in soggetti separati che non godono più della protezione dello Stato di appartenenza.
La popolazione civile gode dell’immunità nella misura in cui è previsto che essa «deve beneficiare di una protezione generale dai pericoli derivanti da operazioni belliche» e «non deve essere obbiettivo di attacchi». Sono infatti proibite tutte le azioni volte a diffondere il terrore tra la popolazione civile, nonché gli attacchi indiscriminati. Le parti del conflitto armato devono sempre distinguere tra i combattenti che costituiscono gli obbiettivi militari, e i civili dall’altra.
Il principio dell’immunità dell’attacco per i civili presenta due possibili eccezioni e dunque si ammettono teoricamente due ipotesi ove un attacco che colpisca i civili possa essere ritenuto come ammissibile.
In primo luogo, si può attaccare la popolazione civile, sempre nel rispetto di condizioni rigorose, a titolo di rappresaglia per una condotta analoga posta in essere dall’avversario. Tale eccezione, molto controversa, risulta negata dai Tribunali internazionali, ma molti Stati la riconoscono.
In secondo luogo, qualora le vittime civiliabbiano compiuto atti ostili contro le forze armate di una delle parti in conflitto, si ritiene che perdano la protezione generale di cui godevano, per averne abusato. Questa partecipazione attiva dei civili alle ostilità è controversa. Le Corti sostengono che, ai fini della determinazione della condizione di vittima, è necessario identificare prima la condotta e poi il nesso temporale tra la condotta e le ostilità, che deve essere contemporanea.
Ad ogni modo, in caso di dubbio circa la qualifica di un individuo come civile o combattente, tale soggetto deve essere considerato civile, per assicurargli almeno teoricamente la necessaria protezione.
Le Convenzioni impongono un trattamento umano per le persone protette «senza alcuna distinzione di razza, colore, religione o fede, sesso o classe, né alcun criterio simile».
Specificatamente per la categoria delle donne è previsto che vengano trattate con «il rispetto dovuto al loro sesso» e che siano protette da «stupro, prostituzione forzata o qualsiasi altro atto di libidine». Inoltre, è previsto un particolare trattamento per alcuni gruppi quali i feriti, gli anziani, i bambini, eccetera.
Nei conflitti interni, invece, gli Stati hanno preteso di mantenere la forza punitiva e sono sempre stati riluttanti dell’assegnare status ufficiali ai gruppi armati coinvolti nelle guerre civili.
L’unica disciplina applicabile era quella prevista dall’articolo 3 comune a tutte e quattro le Convenzioni, in cui si richiede a tutti i partecipanti ad un conflitto armato, un livello minimo di trattamento.
Questo comprende l’obbligo di trattare con umanità, senza discriminazioni di razza, colore, sesso, religione, nascita, censo o altro criterio analogo coloro che non partecipano alle ostilità, ivi inclusi i feriti e i prigionieri. Le violazioni degli obblighi in questione sono state qualificate come crimini di guerra solo in tempi recenti e il principio di distinzione tra combattente e civile si applica anche a questa tipologia di conflitti.
Principi generali del diritto penale: la responsabilità penale individuale nello Statuto di Roma
Lo Statuto della Corte Penale Internazionale contiene una parte intitolata «Principi generali di diritto penale».
Oltre al principio della responsabilità personale, vengono espressamente richiamati, agli articoli 22 e 23, i principi del nullum crimen sine lege e del nulla poena sine lege, che garantiscono che nessuno sia punito per un fatto che, al momento della sua commissione, non fosse previsto dalla legge come reato. Questa esigenza si traduce nel principio di legalità nella sua forma più essenziale. Vengono ulteriormente sanciti il principio di tassatività - senza possibilità di analogia - e l'applicazione del principio del favor rei, nel caso di dubbio.
All'articolo successivo viene sancito il principio di non retroattivitàratione personae della legge penale.
Lo Statuto fa proprio il principio della responsabilità personale.
All'articolo 25, si afferma che «la Corte è competente per le persone fisiche» e che «chiunque commette un crimine sottoposto alla giurisdizione della Corte è individualmente responsabile e può essere punito secondo il presente Statuto».
Dopodiché, lo Statuto opera un modello differenziato delle varie forme di responsabilità individuale. Non si limita a sanzionare chiunque "concorra" nel reato, ma si effettua una netta distinzione tra chi commette il reato e tra chi risponde quale complice nel reato altrui. Questo modello differenziato, non esente da critiche da parte della dottrina internazionale, tipizza dunque le diverse figure dei concorrenti, distinguendo così il concetto di responsabilità primaria, anche definita "autoria", da quello di partecipazione nel reato altrui - o responsabilità secondaria - anche se per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio non si prevede nessuna diversificazione.
Le varie forme di responsabilità sono previste al terzo comma.
In primo luogo, alla lettera a), si considera penalmente responsabile chi commette il crimine «a titolo individuale o insieme ad un'altra persona o tramite un'altra persona, a prescindere se quest'ultima è o meno penalmente responsabile». Nel primo caso si parla di "autoria immediata", in quanto il soggetto commette direttamente in prima persona il crimine e realizza autonomamente tutti gli elementi del reato, anche se lo fa con la partecipazione accessoria di altri. Sempre nella stessa lettera è disciplinata l'ipotesi dell' "autore mediato", cioè di colui che utilizza per la commissione del reato una persona penalmente non responsabile. L'autore mediato è dunque colui che realizza l'ipotesi criminosa attraverso l'azione o l'omissione di un'altra persona, utilizzandola come uno strumento per la commissione del crimine. Se si tratta di soggetto incapace, mancando una previsione espressa, si deve ritenere applicabile l'articolo 31 dello Statuto che ne prevede l'irresponsabilità e dunque la non punibilità dell'esecutore materiale incapace.
Le lettere b), c) e d) tipizzano le diverse forme di partecipazione nel crimine altrui. La disciplina della compartecipazione criminosa assume centrale importanza nell'ambito del diritto penale internazionale, dato il peculiare carattere massivo dei crimini internazionali, sia con riguardo al numero delle vittime sia degli autori. Nella maggior parte dei casi si tratta di crimini commessi da più persone e spesso da una struttura organizzata, militare o politica, o quantomeno con il suo appoggio.
Alla lettera b) si punisce specificamente la condotta di chi «ordina, sollecita o incoraggia» la commissione del crimine. Si prevedono dunque ipotesi di apporto puramente psichico che possono essere ricondotte alla categoria della compartecipazione morale.
La lettera c) sanziona la condotta di chi, in vista di agevolare la commissione del crimine, «fornisce il suo aiuto, la sua partecipazione o ogni altra forma di assistenza alla consumazione o al tentativo di consumazione del crimine, ivi compresi i mezzi per farlo». L'apporto materiale può intervenire prima, durante e addirittura dopo la commissione del fatto.
La lettera d) disciplina l'ipotesi specifica di partecipazione di chi contribuisce «in ogni altra maniera alla perpetrazione o al tentativo di perpetrazione del crimine da parte di un gruppo di persone» e sancisce quindi la responsabilità di colui che contribuisca in qualsiasi altro modo, rispetto a quelli contemplati, alla perpetrazione o al tentativo di perpetrazione di un reato, introducendo cosi una forma di responsabilità accessoria.
Infine, la lettera e) prevede un'autonoma forma di responsabilità per il caso di chi «inciti direttamente e pubblicamente a commettere genocidio».
La previsione espressa alla lettera f), esprime la responsabilità penale per il tentativo e si prevede la punibilità di colui che «tenta di commettere il reato mediante atti (...) che rappresentano un inizio di esecuzione».
Per ciascuna di queste forme di partecipazione è tipizzato un preciso elemento oggettivo e soggettivo, separato rispetto a quello richiesto dai differenti fatti di reato.
Cause di esclusione della responsabilità penale
All’articolo 25 che sancisce la responsabilità penale personale per i crimini internazionali, si deve affiancare l’articolo 27 dello Statuto, rubricato «Irrilevanza della qualifica ufficiale», che chiarisce come la giurisdizione della Corte si estenda a tutte le persone senza discriminazioni, specificando come nessun ruolo o nessuna posizione esoneri la persona da responsabilità penale e non costituisca nemmeno motivo di riduzione di pena.
Questa è una conquista molto significativa, in quanto la posizione di autorità di un imputato - e quindi di persone che godono di particolari immunità nel diritto interno - viene cosi considerata irrilevante ai fini dei processi internazionali per crimini di guerra.
Inoltre, l’articolo seguente, intitolato «Responsabilità dei capi militare ed altri superiori gerarchici», prevede una particolare forma di responsabilità penale a carico di questi soggetti.
Già prevista dal Tribunale di Norimberga, ribadita poi dai due Tribunali ad hoc, questa disposizione dimostra come, anche in ambito internazionale, si è scelto di punire i «delitti commissivi mediante omissione», che consistono nel mancato impedimento di un evento materiale che si aveva l’obbligo di impedire. È infatti prevista la responsabilità del comandante militare o di persona facente effettivamente tale funzione, per gli atti compiuti da forze poste sotto il suo comando, quando sapeva - o aveva ragione di sapere - che le forze commettevano tali crimini. Il comandante risponde per il fatto del comandato, in quanto non ha adottato le misure necessarie per impedire e reprimere l’esecuzione dei crimini. In questo caso il comandante risponderà per un fatto proprio, ovvero per omessa vigilanza. Molto significativa è il fatto di aver incluso la responsabilità dell’ufficiale anche per la conoscenza che i suoi soldati avevano commesso il reato, rinviando così ad un più generale obbligo di prevenzione.
In maniera non dissimile dagli altri sistemi giuridici, anche il diritto internazionale penale prevede una serie di casi di esclusione della responsabilità penale. Si tratta di varie circostanze che impediscono che all’autore venga imputata la responsabilità per quanto commesso. Storicamente, nei sistemi di civil law, si sono distinte le scriminanti, cioè circostanze che, secondo le regole del diritto penale, escludono l’illiceità del fatto e le scusanti, cioè circostanze che escludono la colpevolezza dell’autore. Ad ogni modo si risolvono tutte nello stesso effetto, ovvero quello di escludere la responsabilità dell’autore della condotta criminosa. Le categorie sono riunite all’articolo 31 dello Statuto.
Sono trattate in due norme specifiche l’errore 44 e l’ordine del superiore gerarchico.
La legittima difesa
La legittima difesa è l’istituto più arcaico di ogni sistema penale e, come ogni sistema giuridico, anche il diritto internazionale penale permette l’uso della forza, altrimenti criminalizzato, alle persone che agiscono ragionevolmente al fine di difendere sé stessi o un’altra persona.
Questa legittima difesa non va confusa con la legittima difesa, individuale o collettiva, statale, prevista all’articolo 51 della Carta Onu, che si rivolge agli Stati nei casi di aggressione militare.
Lo Statuto di Roma codifica per la prima volta la legittima difesa individuale all’articolo 31 lettera c), prevedendo che una persona non è penalmente responsabile se al momento della commissione del fatto «essa ha agito in modo ragionevole per difendere sé stessa, per difendere un’altra persona (...) contro un ricorso imminente od illecito alla forza, proporzionalmente all’ampiezza del pericolo da essa incorso o dall’altra persona o dai beni protetti. Il fatto che la persona abbia partecipato ad un’operazione difensiva svolta da forze armate non costituisce di per sé motivo di esonero dalla responsabilità penale a titolo del presente capoverso».
L’articolo, similarmente a come avviene nel diritto penale italiano, è costruito attorno ai due poli dell’aggressione ingiusta e di una reazione legittima.
La legittima difesa è ammissibile solo quando l’uso della forza sia diretto a ledere beni di carattere personale come la vita, l’integrità fisica o la libertà personale, anche di un terzo.
Lo Statuto estende l’area di applicabilità della scriminante e aggiunge che nel caso di crimini di guerra, si può altresì agire allo scopo di difendere beni di carattere patrimoniale, a condizione che il soggetto abbia agito per difendere «beni essenziali alla sopravvivenza propria o altrui ovvero allo scopo di difendere beni essenziali per l’adempimento di una missione militare», ma precisa sempre che la scriminante rileva in presenza del rischio di un uso imminente e illecito della forza. Di conseguenza, non è possibile invocare questa causa di giustificazione nei casi in cui l’attacco militare risulti stato di necessità.
La Corte penale internazionale riconosce lo stato di necessità all’articolo 31 lettera d) e stabilisce che il soggetto non può essere considerato penalmente responsabile se «il comportamento (...) è stato adottato sotto una coercizione risultante da una minaccia di morte imminente o da un grave pericolo continuo o imminente per l’integrità di tale persona o di un’altra persona e la persona ha agito spinta dal bisogno ed in modo ragionevole per allontanare tale minaccia, a patto che non abbia inteso causare un danno maggiore di quello che cercava di evitare. Tale minaccia può essere stata: sia esercitata da altre persone, o costituita da altre circostanze indipendenti dalla sua volontà».
Di nuovo, la disposizione ruota intorno a due poli. Da un lato l’esistenza di un pericolo imminente di morte o di danno per l’integrità fisica propria o altrui, non volontariamente causata dal soggetto; e dall’altro che la reazione del soggetto sia subordinata a tre condizioni fondamentali: che fosse costretto, che la condotta fosse necessaria e che le modalità esecutive fossero ragionevoli.
Con la clausola limitativa finale, si chiarisce il ruolo preminente dell’intenzionalità della condotta e le conseguenze in caso di reazione eccessiva e si chiarisce che il male che l’agente intende causare non deve essere maggiore di quello minacciato.
Lo stato di necessità è differente dal caso in cui l’ordine del superiore gerarchico sia accompagnato ad esempio da minacce dirette ad intimidire il subordinato.
In questo caso, infatti, non vengono emessi ordini criminosi, ma l’agente sostiene di aver agito per salvare se stesso o altri da un pericolo attuale di un danno grave e ingiusto.
Come nella legittima difesa, dunque, vi è l’esigenza di respingere un pericolo imminente e contra ius, ma la salvezza dell’interesse passa necessariamente attraverso la lesione di un diritto altrui che fa capo ad un soggetto totalmente estraneo alla dinamica originaria.
I crimini di guerra e i loro conflitti: le indagini difensive alla ricerca delle prove
Corre d’obbligo riassumere in modo schematico l’iter storico dei tribunali istituiti su mandato ONU.
Ex Yugoslavia:
Il mandato del Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia (sede l’Aja) è durato dal 1993 al 2017; 161 rinviati a giudizio, 90 condannati.
Ruanda:
Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda fu istituito nel 1994. Ha operato fino al 2016.
Sierra Leone:
Istituito nel 2002 con sede nel Paese africano dove erano stati commessi i crimini nel corso della guerra civile (1991-2002), ha esaurito il mandato nel 2013.
Libano:
Il Tribunale speciale per il Libano creato nel 2009, deve processare gli accusati dell’omicidio Hariri (14 febbraio 2005).
Cambogia:
Le Camere straordinarie nei tribunali della Cambogia sono nate nel 2003 con l’assistenza dell’Onu per processare i responsabili dei crimini avvenuti durante il regime dei Khmer Rossi.
Ucraina - Russia:
Un fatto di assoluta novità attiene al lavoro d’indagini da parte della Corte penale internazionale che lavora per la prima volta con Eurojust con un joint investigation team attraverso la cooperazione giudiziaria penale dell’Unione Europea. Questo team, sotto il controllo di Eurojust, lavorerà ad esempio nella ricerca delle prove e della loro utilizzabilità nelle recenti vicende della guerra tra Ucraina e Russia. L’inchiesta sui crimini in Ucraina è stata istituita presso il CPI (Corte Penale Internazionale) grazie al fatto che, pur non essendo tra i 123 Stati del Trattato di Roma istitutivo della Corte, il governo di Kiev ne ha accettato la giurisdizione, dopo i fatti di Euromaidan nel 2013 e, poi, a tempo indeterminato il 20 febbraio 2014, in relazione all’occupazione russa della Crimea e al conflitto nel Donbass in data 11 dicembre del 2020 l’ufficio del Procuratore è giunto alla conclusione sulla base di un primo esame preliminare che è stata commessa un’ampia serie di crimini di guerra e contro l’umanità. Si è così iniziato ad indagare sui crimini commessi in Ucraina provocati dall’aggressione russa, per tentare di portare alla sbarra tutti i responsabili delle atrocità delle fosse comuni dei villaggi saccheggiati e di tutte le devastazioni commesse.
Grazie alla Corte penale internazionale, agli Stati che hanno adottato nel proprio ordinamento regole sulla giurisdizione universale, il quadro è sicuramente complesso, ma con maggiori possibilità che si arrivi a punire non solo coloro che sono gli autori materiali dei crimini di guerra come stragi di civili, stupri, aver affamato la popolazione, aver fatto uso di armi con effetti indiscriminati, ma anche coloro che hanno dato effettivamente gli ordini di eseguire queste atrocità.
Dopo la Procura ucraina, è stato il Procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan ad avviare l’indagine, su richiesta di 41 Stati che hanno ratificato l’accordo istitutivo della Corte. Questo per superare gli ostacoli dovuti all’assenza tra gli Stati parti proprio di Ucraina e Russia: malgrado questo, la competenza ad esercitare la giurisdizione potrebbe basarsi su due dichiarazioni ad hocdepositate in passato da Kiev per i crimini in Crimea.
La prima fase, la più delicata anche per accertare la catena di comando e individuare prove della responsabilità di Vladimir Putin e delle alte sfere politiche e militari, è già partita, con la raccolta delle prove. Che vuol dire investigatori sul campo, raccolta di testimonianze anche nei Paesi in cui sono arrivati i profughi, intercettazioni, immagini satellitari, esame sui corpi, cause della morte, torture, stupri.
Perché come in ogni processo è necessario fondare l’accusa dei crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio sulle prove, dimostrando, per alcuni crimini, anche il dolo specifico.
La strada, almeno per i processi ai leader politici, è però in salita.
Difficile che un mandato di arresto nei confronti di Putin o di alti ranghi militari e politici venga eseguito. Unica possibilità, un cambio di regime o l’uscita dal Paese di coloro che hanno dato gli ordini sulla commissione dei crimini: in questo caso, gli Stati parti all’accordo di Roma sarebbero obbligati a eseguire i mandati di arresto.
Le regole della Corte penale internazionale, infatti, prevedono che il processo si svolga in presenza dell’imputato (e non in contumacia) senza che, però, possa essere opposta l’immunità dei capi di Stato che invece bloccherebbe i tribunali statali e senza che i crimini cadano in prescrizione.
Tra i dati negativi, l’impossibilità di procedere per il crimine di aggressione proprio a causa dellamancata ratifica dell’Ucraina e della Russia. L’avvio delle indagini ha dato la spinta anche ad alcuni Paesi che hanno leggi interne fondate sul principio della giurisdizione universale che permette agli Stati di esercitare la giurisdizione nel caso di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e gravi infrazioni delle Convenzioni di Ginevra (in alcuni casi anche aggressione) ovunque siano commessi, senza che esista un legame dato dalla nazionalità dell’autore o della vittima o dalla territorialità. Tra gli Stati che hanno affermato questo principio ci sono Germania, Regno Unito, Svizzera, Spagna, Svezia, Lituania, Francia, Australia e Polonia che ha già dato via alle indagini anche per l’aggressione. L’Italia non c’è perché non ha norme sulla giurisdizione universale, anche se è stata nominata dalla allora ministra della Giustizia Marta Cartabia una commissione per inserire nel nostro ordinamento le fattispecie dei crimini.
Prospettive attuali. In conclusione
In una guerra, che è anche mediatica, è necessario non alimentare la macchina della disinformazione, abbandonare ogni forma di complottismo, e acquisire la giusta conoscenza, per comprendere ed inserire quello che accade in un contesto.
La guerra divide. Questo è forse l’unico campo, ove anche noi cittadini, spettatori esterni di questo tragico teatro, siamo personalmente chiamati in causa per riuscire a capire cosa c’è di fattuale e confrontarci con la realtà.
Con questo atto bellico, ad esempio, la Russia di Putin ha violato sia il campo dello ius in bello, ma anche, e forse soprattutto, quello dello ius ad bellum.
Il riaffermarsi di questi sistemi può indurre a pensare che la logica della potenza e dell’influenza degli Stati non sia mai finita, che lo schema della giustizia dei vincitori si sia rafforzato, causando un passo indietro ne mondo e minacciando così l’idea stessa di una giustizia penale internazionale. I leader, invece di risolvere pacificamente i conflitti, li acutizzano attraverso l’uso della forza, che dovrebbe essere utilizzata solo in situazioni estreme e, con un po’ di pessimismo, viste le numerose difficolta in sede giurisdizionale, viene persino da chiedersi se abbia senso processarli.
Tuttavia, se crediamo nel processo avviato da Norimberga in avanti, occorre avere fiducia nelle istituzioni che esistono e che nonostante i limiti e le difficoltà danno un contributo importante alla pace e alla giustizia. Se c’è un momento in cui appare evidente che la guerra non è uno spazio estraneo al diritto e che questa è legata alle scelte di un individuo è proprio questo.
Il fatto che il diritto non possa dare risposte a ogni domanda né metterci al riparo da tutti gli interrogativi che la guerra suscita non significa che esso sia privo di risposte e che non possa costituire un baluardo contro le barbarie o il crimine in generale.
Ed è soprattutto in periodi di crisi, di incertezza e di disordine che le sue norme costituiscono il punto fermo cui richiamarsi.
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Sommario
La Convenzione dell'Aia e il suo diritto
Principi generali del diritto penale: la responsabilità penale individuale nello Statuto di Roma