Patteggiamento

Alessandro Trinci
09 Ottobre 2024

Con il patteggiamento l'imputato rinuncia a contestare l'accusa mossa nei suoi confronti e chiede al giudice l'applicazione di una pena concordata con il pubblico ministero. Si pubblica il contributo aggiornato alla riforma Cartabia.

Inquadramento

Con il patteggiamento l'imputato rinuncia a contestare l'accusa mossa nei suoi confronti e chiede al giudice l'applicazione di una pena concordata con il pubblico ministero.

Il rito si sostanzia, dunque, in un accordo tra le parti necessarie del processo (imputato e pubblico ministero) avente ad oggetto la misura e la specie della pena da applicare in concreto.

A differenza del giudizio abbreviato, ove sono incerti sia l'esito del giudizio che la pena in concreto irrogata in caso di condanna, nel patteggiamento l'imputato ha la certezza di quale pena gli verrà applicata in caso di accoglimento della richiesta.

La pena oggetto dell'accordo deve essere calcolata tenendo conto del bilanciamento tra le circostanze attenuanti ritenute sussistenti e le circostanze aggravanti contestate, nonché dell'eventuale sussistenza della continuazione o del concorso tra più reati.

La pena base concordata (sia essa detentiva e/o pecuniaria) deve essere poi diminuita fino ad un terzo (art. 444, comma 1, c.p.p.).

    

In evidenza

La locuzione "diminuita fino ad un terzo" contenuta nell'art. 444 c.p.p. va intesa nel senso che la misura della riduzione non può eccedere un terzo della pena base e non nel senso che la pena che residua dalla riduzione può essere fino ad un terzo della pena base (Cass. pen., sez. un., 24 marzo 1990, n. 6179).

Le parti possono anche chiedere l'applicazione di una pena sostitutiva in luogo della pena già ridotta di un terzo.

   

In evidenza

La diminuzione fino ad un terzo opera anche quando oggetto dell'accordo sono delle contravvenzioni, a differenza del giudizio abbreviato, che per tali fattispecie prevede la riduzione della metà. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 83 del 2024, ha ritenuto legittima tale disciplina osservando che i due riti presentano delle differenze strutturali che non consentono un'assimilazione della disciplina in tema di premialità.

L'ordinamento prevede due diverse tipologie di patteggiamento:

1) quello “tradizionale”, con il quale la pubblica accusa e l'imputato possono accordarsi sull'applicazione di una pena detentiva che, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non supera due anni, soli o congiunti alla pena pecuniaria;

2) quello “allargato”, che consente alle parti di accordarsi per pene detentive che, al netto della diminuzione fino ad un terzo, sono comprese tra i due e i cinque anni, soli o congiunti alla pena pecuniaria.

In entrambe le tipologie di rito non sono previsti limiti alla pena pecuniaria patteggiabile.

La parte (di regola l'imputato), nel formulare la richiesta di applicazione della pena, può subordinarne l'efficacia alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. Se il giudice ritiene di non concedere il beneficio, deve rigettare la richiesta di patteggiamento, non potendo modificare l'accordo raggiunto dalle parti.

    

In evidenza

Se il beneficio della sospensione condizionale è subordinato ex lege a determinati obblighi (v. art. 165 c.p.), l'accordo fra le parti deve estendersi anche a tali obblighi, indicandone, quando previsto, la durata, con la conseguenza che, in mancanza di pattuizione anche su tali elementi, la sospensione non può essere accordata e, qualora al suo riconoscimento sia subordinata l'efficacia della richiesta di applicazione della pena, questa deve essere integralmente rigettata (Cass. pen., sez. un., 27 gennaio 2022, n. 23400).

Se il giudice concede la sospensione condizionale della pena senza subordinarla agli obblighi necessariamente previsti dall'art. 165 c.p., perché in tal senso si sono accordate le parti, la sentenza non è ricorribile per cassazione, non determinando tale omissione un'ipotesi di illegalità della pena (Cass. pen., sez. un., 28 settembre 2023, n. 5352).

    

Nei procedimenti per i delitti previsti dagli artt. 314, comma 1, 317,318,319,319-ter, 319- quater, comma 1, 320,321,322,322-bis e 346-bis c.p., la parte, nel formulare la richiesta di applicazione della pena, può subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'art. 317bis c.p. (interdizione dai pubblici uffici e incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione) ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie (art. 444, comma 3-bis, c.p.p.). Anche in questi casi il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l'estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, deve rigettare la richiesta.

    

In evidenza

Va detto che, a parte quanto previsto in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, alle parti non era consentito accordarsi su contenuti diversi dalla pena principale. Tuttavia, la prospettiva di subire statuizioni accessorie, spesso temute più di quella principale, poteva disincentivare il ricorso al patteggiamento. Al fine di superare tale ostacolo e stimolare un maggior ricorso al rito, la riforma Cartabia (d.lgs. n. 150/2022) ha esteso i poteri negoziali delle parti alle pene accessorie e alla confisca facoltativa. Si è infatti previsto che nel patteggiamento “allargato” le parti possono chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, mentre in tutte le ipotesi di patteggiamento (“tradizionale” o “allargato”) possono chiedergli di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato (art. 444, comma 1, c.p.p.). Anche in questi casi il giudice non può modificare l'accordo raggiunto dalle parti, quindi dovrà rigettare la richiesta se non condivide le determinazioni in merito alla confisca e alle pene accessorie.

Sempre nell'ottica di un maggior stimolo a patteggiare, la riforma ha previsto anche che in caso di non applicazione delle pene accessorie (ex lege se la pena concordata si colloca entro i due anni o in base all'accordo delle parti se la pena negoziata è superiore) non producono effetti le disposizioni di legge diverse da quelle penali che equiparano la sentenza di patteggiamento a quella di condanna (art. 445, comma 1-bis, c.p.p.).

     

Per alcune tipologie di reato il legislatore ha previsto delle condizioni di ammissibilità del patteggiamento, a prescindere dall'entità della pena finale concordata. Si tratta dei più gravi reati contro la pubblica amministrazione (artt. 314,317,318,319,319-ter, 319-quatere 322-bis c.p.) e dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Per patteggiare la pena in ordine ai primi l'imputato deve restituire integralmente il prezzo o il profitto del reato (art. 444, comma 1-ter, c.p.p.), mentre per concordare la pena in ordine ai secondi deve pagare integralmente i debiti tributari (comprese le sanzioni amministrative e gli interessi), anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie (art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74/2000).

Il patteggiamento “tradizionale”

Nella sua configurazione originaria (pena detentiva concordata non superiore a due anni), il patteggiamento non incontra né limiti oggettivi (può applicarsi a tutte le tipologie di reato, purché la pena edittale consenta di non sforare la soglia dei due anni), né limiti soggettivi (può applicarsi a tutte le tipologie di delinquenti: abituali, professionali, per tendenza e recidivi reiterati).

Il patteggiamento “tradizionale”, rispetto alla versione “allargata”, si caratterizza anche per i numerosi benefici:

  1. evitare lo strepitus fori dell'udienza pubblica;
  2. evitare la condanna al pagamento delle spese del procedimento (art. 445, comma 1, c.p.p.). L'imputato è però tenuto a pagare le spese di mantenimento durante la custodia cautelare in carcere e di conservazione dei beni in sequestro;
  3. evitare l'applicazione delle pene accessorie (art. 445, comma 1, c.p.p.), spesso temute più della pena principale. Tuttavia, quando si procede per taluno dei delitti di cui agli artt. 314, comma 1, 317,318,319,319-ter, 319-quater, comma 1, 320,321,322,322-bis e 346-bis c.p., il giudice può applicare le pene accessorie previste dall'art. 317-bis c.p. (interdizione dai pubblici uffici e incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione);
  4. evitare l'applicazione delle misure di sicurezza, ad esclusione della confisca, sia essa facoltativa od obbligatoria (art. 445, comma 1, c.p.p.). Tuttavia, le parti possono chiedere al giudice di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento specifici beni o a un importo determinato;
  5. evitare la menzione della sentenza nei certificati del casellario giudiziale richiesti dai privati (art. 24, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 313/2002);
  6. evitare che la sentenza produca effetti vincolanti o possa essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l'accertamento della responsabilità contabile, nei quale sia parte l'imputato che ha chiesto di patteggiare (art. 445, comma 1-bis, c.p.p.);
  7. ottenere l'estinzione del reato se l'imputato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole entro il termine di cinque anni (in caso di patteggiamento per delitto) o di due anni (in caso di patteggiamento per contravvenzione) dal passaggio in giudicato della sentenza (art. 445, comma 2, c.p.p.). Oltre al reato, si estingue ogni effetto penale, e se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, l'applicazione non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena. Va precisato che in caso di pena non sospesa, l'effetto estintivo non si produce se l'imputato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena (art. 136 disp. att. c.p.p.).

   

In evidenza

L'estinzione degli effetti penali conseguente all'utile decorso del termine di due o cinque anni deve intendersi limitata ai soli casi in cui sia stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, con la conseguenza che, ove sia stata applicata una sanzione detentiva, di questa occorre comunque tenere conto ai fini della valutazione, imposta dagli artt. 163 e 164, ultimo comma, c.p. circa la concedibilità di un secondo beneficio (Cass. pen., sez. un., 22 novembre 2000, n. 31).

Il patteggiamento “allargato”

A differenza della versione “tradizionale”, nel patteggiamento “allargato” vi sono delle cause di esclusione, sia di tipo oggettivo che soggettivo, previste dall'art. 444, comma 1-bis, c.p.p.

Quanto alle prime, sono esclusi dal patteggiamento “allargato” i delitti di cui agli artt. 51, comma 3-bis e 3-quater, c.p.p. e 600-bis, 600-ter, comma 1, 2, 3 e 5, 600-quater, comma 2, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, nonché 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies c.p.

In merito alle seconde, sono esclusi dal patteggiamento “allargato” contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi reiterati ai sensi dell'art. 99, comma 4, c.p.

   

In evidenza

La Suprema Corte ha chiarito che, ai fini dell'interdizione al patteggiamento “allargato" nei confronti di coloro che siano stati dichiarati recidivi ai sensi dell'art. 99, comma 4, c.p., non occorre una pregressa dichiarazione giudiziale della recidiva che, al pari di ogni altra circostanza aggravante, non viene "dichiarata", ma può solo essere ritenuta e applicata ai reati in relazione ai quali è contestata. La Corte ha chiarito che la testuale disposizione dall'art. 444, comma 1-bis, c.p.p., la quale fa riferimento a “coloro che siano stati dichiarati recidivi”, è tecnicamente imprecisa ed è stata utilizzata dal legislatore per motivi di uniformità lessicale, in quanto riferita anche ad altre situazioni soggettive che, attributive di specifici status, come quelli di delinquente abituale, professionale e per tendenza, richiedono un'apposita dichiarazione espressamente prevista e disciplinata dalla legge (Cass. pen., sez. un., 27 maggio 2010, n. 35738).

    

Anche sul piano dei benefici il patteggiamento “allargato” presenta delle peculiarità che lo rendono meno appetibile rispetto all'omologo “tradizionale”. Infatti, gli unici benefici sono:

1) l'assenza di pubblicità dell'udienza;

2) la riduzione fino ad un terzo della pena da irrogare in concreto;

3) la non menzione della sentenza nei certificati del casellario giudiziale richiesti dai privati;

4) l'assenza di effetti vincolanti della sentenza nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l'accertamento della responsabilità contabile.

La forma dell'accordo

Per quanto riguarda la forma, se l'accordo viene raggiunto in udienza, la richiesta e il consenso possono essere formulati oralmente (e inseriti nel verbale), mentre fuori udienza devono essere formulati con atto scritto. Non sono richieste forme sacramentali per manifestare la volontà di patteggiare, ma la parte che intende accedere al rito in esame deve indicare in modo preciso la specie e la misura della sanzione di cui intende chiedere l'applicazione. L'imputato deve esprimere il consenso personalmente oppure tramite un procuratore speciale (art. 446, comma 3, c.p.p.), che di regola è il difensore munito di procura speciale (la cui sottoscrizione deve essere autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore). Proprio al fine di garantire la volontarietà del consenso prestato dall'imputato, il giudice ha la facoltà di disporne la comparizione (art. 446, comma 5, c.p.p.).

I termini della richiesta

Quanto ai termini (perentori), la richiesta di applicazione della pena concordata può essere formulata sia nel corso delle indagini preliminari (art. 447, comma 1, c.p.p.) che durante l'udienza preliminare, fino a che non siano formulate le conclusioni in ordine alla richiesta di rinvio a giudizio (art. 446, comma 1, c.p.p.).

Nei procedimenti con citazione diretta a giudizio, non essendo prevista la celebrazione dell'udienza preliminare, la richiesta deve essere formulata prima che sia conclusa l'udienza di comparizione predibattimentale (art. 554-ter, comma 2, c.p.p.), introdotta dalla riforma Cartabia.

Termini particolari sono previsti quando il patteggiamento viene richiesto nell'ambito dei procedimenti speciali azionati dal pubblico ministero:

1) nel procedimento per decreto la richiesta deve essere effettuata con l'atto di opposizione, da depositare nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari entro quindici giorni dalla notificazione del decreto penale di condanna (art. 461, comma 3, c.p.p.);

2) nel giudizio immediato la richiesta deve essere formulata entro quindici giorni dalla notificazione del decreto che dispone il giudizio immediato oppure, se è stato richiesto il giudizio abbreviato, all'udienza fissata per valutare tale richiesta, qualora la stessa venga rigettata (art. 446, comma 1, c.p.p.).

   

In evidenza

La competenza a decidere sulla richiesta di applicazione della pena proposta dopo la notifica del decreto di giudizio immediato appartiene al giudice per le indagini preliminari che ha la disponibilità del fascicolo processuale e che, come tale, è da considerare “giudice procedente” anche dopo la notifica del decreto (Cass. pen., sez. un., 17 gennaio 2006, n. 3088).

   

3) nel giudizio direttissimo la richiesta deve essere formulata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 446, comma 1, c.p.p.).

I termini stabiliti per la richiesta di patteggiamento dall'art. 446, comma 1, c.p.p. valgono anche per la comunicazione del consenso della controparte. L'art. 446, comma 4, c.p.p. prevede che il consenso possa essere prestato, entro i termini di cui al primo comma della medesima norma, anche se precedentemente negato.

La formazione dell'accordo e l'introduzione del rito

L'iniziativa per promuovere un accordo sulla pena può provenire sia dall'imputato (come di regola accade nella prassi) che dal pubblico ministero. Il codice non prevede che la proposta debba essere motivata. Il codice stabilisce, invece, che il pubblico ministero debba motivare il dissenso opposto alla richiesta dell'imputato (art. 446 c.p.p.); e ciò al fine di consentire sia al giudice di primo grado che al giudice di appello (v. art. 599-bis c.p.p.) di esercitare un controllo sull'operato del magistrato inquirente (si veda meglio infra).

L'accordo, una volta raggiunto, non è revocabile né modificabile unilateralmente.

L'accordo raggiunto dalle parti deve essere sottoposto al vaglio del giudice. Occorre, tuttavia, fare una distinzione a seconda che il consenso tra le parti intervenga nel corso delle indagini preliminari o nella fase processuale.

Prima dell'esercizio dell'azione penale le parti possono presentano al giudice una richiesta congiunta o una richiesta di una parte corredata dal consenso scritto della controparte. La richiesta o il consenso del pubblico ministero devono contenere l'atto di imputazione in quanto costituiscono esercizio dell'azione penale (art. 405, comma 1, c.p.p.). In tal caso, il giudice fissa un'apposita udienza per la decisione, con la contestuale assegnazione, se necessario, di un termine al richiedente per la notificazione all'altra parte (art. 447, comma 1, c.p.p.). Se non accoglie il “progetto di sentenza” formulato dalle parti, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero per la prosecuzione delle indagini preliminari. Le parti possono comunque raggiungere un nuovo accordo da sottoporre al giudice.

Se, invece, la richiesta è presentata da una sola parte, il giudice fissa con decreto un termine all'altra parte per esprimere il consenso o il dissenso e dispone che la richiesta e il decreto siano notificati al destinatario a cura del richiedente (art. 447, comma 3, c.p.p.). Qualora intervenga l'accordo (in caso di dissenso del pubblico ministero proseguono le indagini preliminari), il giudice provvede a fissare l'udienza in camera di consiglio come visto sopra.

Il pubblico ministero deve depositare il fascicolo delle indagini preliminari presso la cancelleria del giudice almeno tre giorni prima dell'udienza. Nell'udienza il pubblico ministero e il difensore sono sentiti se compaiono (art. 447, commi 1 e 2, c.p.p.).

Qualora la richiesta di patteggiamento intervenga nel corso dell'udienza preliminare o a seguito di citazione diretta a giudizio, giudizio direttissimo o giudizio immediato, il giudice, se ricorrono le condizioni per accogliere la richiesta delle parti, pronuncia immediatamente sentenza (art. 448 c.p.p.), altrimenti prosegue nel giudizio.

La rinnovazione della richiesta: il diritto di difendersi “negoziando”

In caso di dissenso del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice per le indagini preliminari o dell'udienza preliminare, il processo prosegue nelle forme del rito ordinario.

In entrambi i casi l'imputato può rinnovare la richiesta (con lo stesso contenuto o con un contenuto diverso) prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Se vi è il consenso del pubblico ministero, il giudice, qualora ritenga accoglibile la nuova richiesta, pronuncia immediatamente sentenza (art. 448, comma 1, c.p.p.), altrimenti deve procedere con l'istruzione dibattimentale.

Solo all'esito del dibattimento il giudice può pronunciare sentenza di applicazione della pena nonostante il dissenso del pubblico ministero (art. 448, comma 1, c.p.p.).

Al pubblico ministero dissenziente è comunque assicurata la possibilità di proporre appello avverso la sentenza che ha applicato la pena (art. 448, comma 2, c.p.p.), mentre la pronuncia rimane inappellabile per l'imputato.

L'art. 448, comma 1, c.p.p. prevede altresì che anche il giudice dell'impugnazione possa emettere sentenza di patteggiamento qualora ritenga ingiustificato il precedente rigetto del giudice di prime cure. In tal caso il giudice deve pronunciarsi anche sull'azione civile (art. 448, comma 3, c.p.p., sul quale si veda meglio infra).

Da quanto esposto finora risulta che l'ordinamento riconosce all'imputato, accanto al diritto di difendersi “provando”, il diritto di difendersi “negoziando”, ossia raggiungendo un accordo con il pubblico ministero sulla qualità e quantità della pena da sottoporre al vaglio del giudice.

Il controllo del giudice: la sentenza di patteggiamento

Come già detto, l'accordo raggiunto dalle parti sulla pena da applicare in concreto deve esser sottoposto al vaglio del giudice.

Il giudice decide sulla base degli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari e delle investigazioni difensive eventualmente svolte. Se la richiesta viene avanzata al giudice del dibattimento (nei casi di giudizio direttissimo, citazione diretta a giudizio e rinnovazione della richiesta), il giudice ordina l'esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Tali atti devono essere restituiti alla pubblica accusa nell'ipotesi in cui la richiesta venga rigettata, altrimenti vengono inseriti nel fascicolo per il dibattimento (art. 135 disp. att. c.p.p.).

Il giudice non si limita a svolgere una funzione meramente notarile, di ratifica dell'accordo raggiunto dalle parti, ma compie una serie di controlli di carattere sostanziale.

Preliminarmente, deve valutare se sussistono i presupposti per una pronuncia di proscioglimento perché il fatto non sussiste, l'imputato non l'ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il reato è estinto o manca una condizione di procedibilità (art. 444, comma 2, c.p.p.). Infatti, qualora accerti la ricorrenza di una delle suddette ipotesi, deve rigettare l'istanza proposta dalle parti e pronunciare immediatamente sentenza ai sensi dell'art. 129 c.p.p.

Verificata, con esito negativo, la possibilità di un immediato proscioglimento dell'imputato, il giudice deve passare all'esame del contenuto dell'accordo che dovrà confluire nella sentenza di patteggiamento.

In primo luogo, deve accertare che non ricorrano le condizioni (oggettive e soggettive) di esclusione previste dall'art. 444, comma 1-bis, c.p.p.) e le condizioni di inammissibilità previste dall'art. 444, comma 1-ter, c.p.p. e dall'art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74/2000.

In secondo luogo, deve verificare che siano corretti la qualificazione giuridica del fatto e l'applicazione delle circostanze (compreso il relativo giudizio di bilanciamento fra le stesse). Soltanto all'esito di tale analisi, il giudicante dovrà verificare che la pena concordata sia congrua alla luce dei parametri indicati dall'art. 133 c.p. e dei principi costituzionali in materia. Analogo giudizio di congruità dovrà essere effettuato sulle pene accessorie se le parti ne abbiano concordato l'applicazione per una durata determinata.

Oggetto di valutazione nella sentenza di patteggiamento è anche la richiesta dell'imputato di subordinare l'efficacia dell'accordo al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena o all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'art. 317-bis c.p. (o alla loro sospensione condizionale).

Infine, qualora l'accordo delle parti le contempli, il giudice dovrà verificare anche la correttezza delle determinazioni in merito alle pene accessorie e alla confisca facoltativa.

Occorre chiarire che il giudice non può intervenire sull'accordo così come formulato dalle parti, essendogli precluso qualsiasi potere in ordine alla modifica di quanto pattuito. Egli, pertanto, ha soltanto la possibilità di accogliere in toto la domanda di patteggiamento o di rigettarla.

La peculiare struttura del rito si riflette sul contenuto della motivazione della sentenza di patteggiamento, che si esaurisce in una delibazione ad un tempo positiva e negativa.

Positiva quanto all'accertamento:

1) della sussistenza dell'accordo delle parti sull'applicazione di una determinata pena;

2) della correttezza della qualificazione giuridica del fatto nonché dell'applicazione e della comparazione delle eventuali circostanze;

3) della congruità della pena (anche accessoria) patteggiata, ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, comma 3, Cost.;

4) correttezza delle determinazioni in merito alle pene accessorie e alla confisca facoltativa;

5) della concedibilità della sospensione condizionale della pena, qualora l'efficacia della richiesta sia stata subordinata alla concessione del beneficio.

Negativa quanto alla esclusione della sussistenza di:

1) cause di non punibilità dell'imputato;

2) cause di non procedibilità del reato;

3) cause di estinzione del reato;

4) condizioni (oggettive e soggettive) di esclusione dal rito;

5) condizioni di inammissibilità del rito.

Le delibazioni positive debbono essere necessariamente sorrette dalla concisa esposizione dei relativi motivi in fatto e in diritto, mentre, per quanto riguarda il giudizio negativo sulla ricorrenza di alcuna delle ipotesi previste dall'art. 129 c.p.p., è sufficiente la semplice enunciazione, anche implicita, di aver effettuato, con esito negativo, la verifica richiesta dalla legge e cioè che non ricorrono gli estremi per la pronuncia di una sentenza di proscioglimento.

Quando l'accordo delle parti prevede l'applicazione di una delle pene sostitutive di cui all'art. 53 l. n. 689/1981 (semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria), il giudice, se non è in grado di decidere immediatamente, può svolgere un'istruttoria ad hoc. A tal fine sospende il processo e fissa un'apposita udienza a non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all'ufficio di esecuzione penale esterna. In questo caso trova applicazione, in quanto compatibile, il peculiare meccanismo per la determinazione della pena sostitutiva previsto dall'art. 545-bis c.p.p. introdotto dalla riforma Cartabia.

    

In evidenza

La motivazione della sentenza di patteggiamento deve essere depositata contestualmente alla sua pronuncia. Se il giudice irritualmente indica nel dispositivo un termine per il deposito della motivazione deposita la motivazione nel termine di cui all'art. 544, comma 2, c.p.p., la sentenza non è affetta da nullità, ma il termine di quindici giorni per l'impugnazione della sentenza pronunciata in camera di consiglio, ai sensi degli artt. 585, comma 1, lett. a), e 585, comma 2, lett. a), c.p.p., decorre dall'ultima notificazione o comunicazione dell'avviso di deposito del provvedimento (Cass. pen., sez. un., 19 luglio 2018, n. 40986).

    

Orientamenti a confronto
Tesi 1 Tesi 2

Cass. pen., sez. un., 29 novembre 2005, n. 17781

La sentenza di patteggiamento, in ragione dell'equiparazione legislativa ad una sentenza di condanna in mancanza di un'espressa previsione di deroga, costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell'art. 168, comma primo, n. 1 c.p., della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa.

Cass. pen., sez. un., 22 novembre 2000, n. 31

Il beneficio della sospensione condizionale della pena non può essere revocato per effetto di una successiva sentenza di patteggiamento, non contenendo quest'ultima quell'accertamento di responsabilità che costituisce imprescindibile presupposto per la revoca disciplinata dall'art. 168, comma 1, n. 1, c.p.

    

In evidenza

Con la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, che è decisione equiparata ad una sentenza di condanna, il giudice è tenuto a dichiarare, ai sensi del primo comma dell'art. 537 c.p.p., l'accertata falsità di atti o di documenti (Cass. pen., sez. un., 27 ottobre 1999, n. 20).

I mezzi di impugnazione

La natura negoziale della sentenza di patteggiamento ne giustifica l'inappellabilità, essendo incoerente consentire alle parti di concordare una pena e, successivamente, di opporsi alla sua applicazione. Unica eccezione al divieto del secondo grado di merito, coerente con la suddetta ratio, è prevista per il pubblico ministero, che può appellare la sentenza di patteggiamento quando il giudice abbia provveduto ad applicare la pena richiesta dall'imputato nonostante il suo dissenso (art. 448, comma 2, c.p.p.).

La sentenza di patteggiamento può, invece, essere impugnata mediante ricorso per cassazione, ma solo per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza (art. 448, comma 2-bis, c.p.).

    

In evidenza

La giurisprudenza ritiene ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p. nei confronti della sentenza di patteggiamento con cui si censuri l'erronea ovvero l'omessa applicazione di sanzioni amministrative (Cass. pen., sez. un., 26 settembre 2019, n. 21369), mentre esclude che tale mezzo di impugnazione possa essere utilizzato nei confronti della sentenza di patteggiamento che abbia omesso di applicare una misura di sicurezza, salvo si tratti di misura obbligatoria per legge in relazione al titolo di reato oggetto di imputazione (Cass. pen., sez. un., 26 settembre 2019, n. 21368).

La parte civile

Il danneggiato non può costituirsi parte civile se l'imputato decide di patteggiare perché con la sentenza ex art. 444 c.p.p. il giudice si limita a verificare che non vi siano i presupposti per un proscioglimento e non accerta la responsabilità penale.

Se la costituzione vi è già stata prima della richiesta del rito speciale, il giudice, ove accolga la richiesta di applicazione della pena, non deve pronunciarsi sulla domanda di risarcimento. In tal caso, però, la parte civile può chiedere che l'imputato sia condannato al pagamento delle spese processuali fino a quel momento sostenute, a meno che il giudice non ritenga di doverne disporre la compensazione totale o parziale, qualora ricorrano giusti motivi (art. 444, comma 2, c.p.p.).

    

In evidenza

Ad avviso della giurisprudenza, nell'udienza avente ad oggetto la richiesta di applicazione della pena avanzata nel corso delle indagini preliminari, così come in quelle fissate per la richiesta di patteggiamento formulata con l'atto di opposizione al decreto penale di condanna o a seguito di decreto di giudizio immediato, non è ammessa la costituzione di parte civile, e pertanto è illegittima la condanna dell'imputato al pagamento delle spese sostenute dal danneggiato dal reato la cui costituzione quale parte civile sia stata ammessa dal giudice, nonostante tale divieto (Cass. pen., sez. un., 27 novembre 2008, n. 47803).

Diversamente, è legittima la condanna al pagamento delle spese se la costituzione è avvenuta in udienza preliminare. Le Sezioni Unite hanno poi chiarito che il danneggiato è legittimato a costituirsi parte civile in udienza preliminare anche laddove l'imputato abbia precedentemente depositato in cancelleria la richiesta di applicazione della pena munita del consenso del pubblico ministero (Cass. pen., sez. un., 30 novembre 2023, n. 16403).

    

Orientamenti a confronto
Tesi 1 Tesi 2

Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2024, n. 6807

È ricorribile per cassazione, e non emendabile con il ricorso alla procedura di cui all'art. 130 c.p.p., la sentenza di patteggiamento che abbia omesso di pronunciarsi sulla richiesta di condanna dell'imputato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, trattandosi di emenda non automatica e predeterminata, ma implicante valutazioni relative sia all'ammissibilità della domanda che all'entità della liquidazione, suscettibili di essere neutralizzate da una possibile compensazione.

Cass. pen., sez. V, 12 ottobre 1996, n. 50066; Cass. pen., sez. un., 31 gennaio 2008, n. 7945

Non è ricorribile per cassazione la sentenza di patteggiamento che abbia omesso di pronunciarsi in ordine alla condanna dell'imputato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, poichè a tale omissione può porsi rimedio mediante la procedura di correzione di cui all'art. 130 c.p.p. In motivazione, la Suprema Corte ha osservato che la condanna alle spese della parte civile ha natura di statuizione accessoria a contenuto predeterminato, in quanto la liquidazione si risolve in una mera operazione tecnico-esecutiva, ancorata a precisi presupposti e parametri oggettivi.

    

Va infine rilevato che il legislatore prevede una serie di garanzie per il danneggiato che, vista preclusa la possibilità di far valere le sue ragioni in sede penale, decida di ricorrere dinnanzi al giudice civile:

  1. il processo civile non subisce la sospensione di cui all'art. 75, comma 3, c.p.p. (art. 444, comma 2, c.p.p.);
  2. il giudizio civile non è in alcun modo pregiudicato dall'esito del patteggiamento (art. 445, comma 1-bis, c.p.p.).

Il concordato anche con rinuncia dei motivi di appello

L'art. 599-bis c.p.p. disciplina l'istituto del concordato anche con rinuncia dei motivi di appello (c.d. patteggiamento in appello), istituto con evidenti finalità deflattive che nel corso degli anni è stato oggetto di ripetute attenzioni sia da parte del legislatore sia da parte della Corte costituzionale: interventi che hanno spinto nella direzione, da un lato, di limitarne l'operatività e, dall'altro, di ampliarne l'ambito di applicazione.

Nella versione attualmente vigente, esso prevede che le parti possano dichiarare di concordare sull'accoglimento (anche parziale) dei motivi di appello, con rinunzia ad altri motivi, determinando nuovamente la pena, se necessario.

La dichiarazione e la rinuncia devono essere presentate nelle forme previste dall'art. 589 c.p.p.entro il termine di quindici giorni prima dell'udienza.

Qualora si proceda in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti, se la corte ritiene di non poter accogliere la richiesta concordata, dispone che il giudizio si svolga con la partecipazione delle parti indicando se l'appello sarà deciso a seguito di udienza pubblica o in camera di consiglio. Il provvedimento è comunicato al procuratore generale e notificato alle altre parti. In questo caso la richiesta e la rinuncia perdono effetto, ma possono essere riproposte in udienza (art. 599-bis, comma 3, c.p.p.).

Diversamente, se si procede in udienza pubblica o in camera di consiglio con la partecipazione delle parti, qualora la corte ritenga di non poter accogliere la richiesta concordata, dispone la prosecuzione del giudizio (art. 599-bis, comma 3-bis, c.p.p.).

In base al comma 3-ter la richiesta e la rinuncia ai motivi non hanno effetto se la corte decide in modo difforme dall'accordo.

  

In evidenza

La riforma Cartabia ha eliminato il comma 2 dell'art. 599-bis c.p.p., il quale escludeva dall'applicazione del concordato in appello tutta una serie di reati e tutta una serie di situazioni soggettive per le quali, attualmente, l'istituto in esame non è più precluso. Si trattava di reati o situazioni soggettive in gran parte sovrapponibili a quelle per le quali non poteva (e non può tuttora) applicarsi il c.d. patteggiamento allargato (art. 444, comma 1-bis, c.p.p.).

   

Il quarto comma dell'art. 599-bis c.p.p. prevede che sia la stessa magistratura requirente (ci si riferisce al procuratore generale presso la Corte di appello, sentiti i magistrati dell'ufficio e i procuratori della Repubblica del distretto) ad indicare «i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell'udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti». Si tratta di un intervento assai particolare e discutibile, che di fatto devolve alle singole procure generali il compito di indicare criteri selettivi ulteriori rispetto a quelli individuati dal legislatore, con il rischio concreto di un'applicazione diversificata dell'istituto sul territorio nazionale.

     

In evidenza

Il d.lgs. n. 31/2024 (c.d. Correttivo Cartabia) ha modificato gli artt. 598-bis e 599-bis c.p.p. allo scopo di coordinare il giudizio d'appello con l'applicazione delle pene sostitutive alla detenzione.

Innanzitutto, il comma 1-bis dell'art. 598-bis c.p.p. prevede che, fermo restando quanto previsto dall'art. 597 c.p.p., l'imputato, fino a quindici giorni prima dell'udienza, può, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nei motivi nuovi e nelle memorie di cui al comma 1, esprimere il consenso alla sostituzione della pena detentiva con una delle pene sostitutive. Se non è possibile decidere immediatamente, la corte fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone avviso alle parti e all'ufficio di esecuzione penale esterna competente e provvede ad acquisire gli atti, i documenti e le informazioni di cui all'art. 545-bis, comma 2, c.p.p. In tal caso il processo è sospeso. Salvo che la corte disponga altrimenti, l'udienza si svolge senza la partecipazione delle parti.

Se invece l'udienza è partecipata, il consenso dell'imputato può essere espresso sino alla data dell'udienza. Quando invece, per effetto della decisione sull'impugnazione, è applicata una pena detentiva non superiore a quattro anni, la corte, se ritiene che ne ricorrano i presupposti, sostituisce la pena detentiva. Se è necessario acquisire il consenso, la corte deposita il dispositivo, assegna all'imputato il termine perentorio di quindici giorni per esprimere il consenso e fissa udienza, non oltre trenta giorni, senza la partecipazione delle parti. In tal caso il processo è sospeso. Se il consenso è acquisito, all'udienza la corte integra il dispositivo altrimenti lo conferma.

Quando invece, pur essendo acquisito il consenso, non è possibile decidere immediatamente, si applicano le disposizioni di cui al comma 1-bis, terzo e quarto periodo dell'art. 598-bis c.p.p. I termini per il deposito della motivazione decorrono, ad ogni effetto di legge, dal deposito del dispositivo, confermato o integrato. Nei casi di udienza partecipata di cui ai commi 2, 3 e 4, si osservano le disposizioni dell'art. 545-bis c.p.p., in quanto applicabili.

Come anticipato, anche l'art. 599-bis c.p.p. è stato modificato allo scopo di coordinare il concordato in appello con l'applicazione delle pene sostitutive alla detenzione.

In particolare, il nuovo comma 1 dell'art. 599-bis c.p.p. ha aggiunto all'ipotesi della nuova determinazione della pena anche quella della sostituzione della pena detentiva con una delle pene sostitutive. In quest'ultima ipotesi si applicano le disposizioni di cui all'art. 598-bis c.p.p., ma il consenso dell'imputato è espresso, a pena di decadenza, nel termine di quindici giorni prima dell'udienza.

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