Rifiuto del ricovero ospedaliero: c'è sempre un concorso di colpa del paziente?
04 Novembre 2024
Massima Il rifiuto del ricovero ospedaliero da parte del paziente può rilevare ai sensi dell'art. 1227, comma 1, c.c. quando abbia avuto una effettiva incidenza causale nel determinarsi dell'exitus e quando il rifiuto – alla pari del consenso – sia stato espresso validamente dal paziente. Quest'ultimo deve infatti essere stato informato della patologia sofferta da parte del personale medico affinché il rifiuto possa considerarsi validamente espresso. Il caso Nel presente caso, i figli e il coniuge di una paziente deceduta agivano in giudizio nei confronti del medico e della struttura sanitaria presso cui la paziente era stata in cura per ottenere il risarcimento del danno patito. All'esito del giudizio, il Tribunale dichiarava l'improcedibilità della domanda nei confronti della struttura sanitaria, in quanto ammessa a procedura concorsuale e condannava, invece, il medico a risarcire il danno in favore degli attori. Secondo il Tribunale, tuttavia, doveva riconoscersi un concorso di colpa nella misura del 50% a carico della paziente deceduta per aver rifiutato il ricovero. Gli importi risarcitori liquidati in favore degli attori erano quindi decurtati al 50% da parte del giudice di primo grado e, per tale ragione, gli attori proponevano appello avverso la ordinanza. La Corte d'Appello accoglieva solo parzialmente l'appello degli attori, non riformando di fatto la sentenza di primo grado. Gli attori proponevano quindi ricorso per Cassazione, affidandosi a cinque motivi, e contestando, in primo luogo, la violazione dell'art. 1227, comma 1 c.c. e dell'art. 41 c.p. sostenendo che la motivazione della sentenza di appello era contraddittoria e basata «su un evidente travisamento dei fatti e degli elementi contenuti nell'atto di citazione». In particolare, gli stessi affermavano che il presunto rifiuto di ricovero era stato, in realtà, firmato dal figlio della paziente e non dalla stessa paziente, sebbene quest'ultima non fosse né interdetta né inabilitata né tantomeno incosciente, emergendo dalla cartella clinica che quando si era presentata al pronto soccorso era cosciente, «vigile e collaborante». Inoltre, i ricorrenti ritenevano che il giudice di merito non avesse compiuto una corretta indagine sul concorso di colpa ex art. 1227 c.c., rilevando oltretutto la contraddittorietà della sentenza rispetto agli esiti della consulenza tecnica d'ufficio disposta in corso di causa. La consulenza tecnica aveva infatti escluso che il rifiuto del ricovero potesse aver concorso a determinare l'evento morte insieme alla colpa del medico. In ogni caso, la consulenza tecnica aveva chiarito che, se non vi fosse stato il rifiuto di ricovero, vi sarebbe stata una sola anticipazione di due giorni della somministrazione della giusta terapia, ma ciò non avrebbe impedito il danno; quest'ultimo si era infatti ormai già prodotto e doveva essere imputato in via esclusiva al medico convenuto. In aggiunta, i ricorrenti rilevavano che comunque la loro congiunta non era stata informata della patologia sofferta dalla stessa (ischemia cerebrale) e, pertanto, non avrebbe avuto alcuna colpa valutabile ai sensi dell'art.1227, comma 1 c.c., o in base all'art. 41 c.p. Da ultimo, i ricorrenti affermavano che nessuno dei due giudici di merito aveva motivato «il criterio di individuazione della riduzione del danno quantificato nel 50%», percentuale «così alta» secondo i ricorrenti da risultare «irragionevole e illogica oltre che non ancorata al principio di proporzionalità», a fronte della presunzione di colpa a carico del medico al 100% La questione La questione principale sottesa al ricorso richiedeva alla Corte di Cassazione di soffermarsi sull’incidenza causale del rifiuto del ricovero ospedaliero da parte del paziente quale concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227, comma 1 c.c. Le soluzioni giuridiche La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso rilevando che effettivamente vi era un contrasto tra gli esiti della consulenza tecnica d'ufficio e le sentenze di primo grado e appello. Nello specifico, la consulenza tecnica aveva escluso che il rifiuto da parte della paziente di ricoverarsi in ospedale avesse avuto rilevanza causale nella determinazione della morte della paziente. Nella perizia, infatti, si sosteneva che, se la paziente fosse stata ricoverata, i medici avrebbero potuto somministrarle la terapia con due giorni di anticipo, ma ciò avrebbe avuto un'efficacia poco verosimile nell'impedire l'evento infausto. Sul punto, sia la motivazione della sentenza di primo grado e sia quella della sentenza di appello sono risultate carenti e la Corte di Cassazione ha, inoltre, ritenuto che i giudici di merito non avessero esplicitato in base a quale criterio avrebbero attribuito al rifiutato ricovero la percentuale del 50% se, oltretutto, il ricovero avrebbe avuto «poca verosimile efficacia». Nell'ordinanza in commento, dunque, la Cassazione ritiene che non sia stata motivata l'incidenza causale della colpa del rifiuto ai sensi dell'art. 1227, comma 1, c.c. e, per di più, la relativa percentuale di incidenza al 50%, la quale, secondo la Corte, avrebbe dovuto essere «realmente motivata con argomentazioni chiare e specifiche, qui del tutto assenti». Osservazioni Alla pari del consenso al trattamento medico, il rifiuto di ricevere cure mediche è anch'esso un diritto costituzionalmente garantito del paziente. Tuttavia, come affermato dalla Cassazione nella citata ordinanza, l'organo giudicante deve valutare, innanzitutto, che il rifiuto – alla pari del consenso – sia «informato» ovvero che al paziente sia stata comunicata la patologia sofferta. Nell'ordinanza in commento, emerge che, in realtà, né la paziente né i propri congiunti erano stati informati dai medici del reale quadro clinico e ciò a causa dell'errore diagnostico commesso inizialmente da parte del medico convenuto. Pertanto, in questo caso, il rifiuto non era stato espresso consapevolmente. Oltre a ciò, secondo la Cassazione, l'organo giudicante deve altresì valutare la possibile incidenza causale del rifiuto opposto dal paziente nel caso concreto. In primo luogo, se il rifiuto da parte del paziente impedisce ai sanitari di sottoporlo a quelle che cure che gli avrebbero salvato la vita, tale rifiuto può interrompere il nesso di causalità tra la condotta dei sanitari e l'exitus, con conseguente esclusione di qualsivoglia responsabilità in capo al personale sanitario. Inoltre, il rifiuto può essere valutato ai sensi dell'art. 1227, comma 1, c.c. quale fatto che ha contribuito a causare il danno. In questa seconda ipotesi, a differenza della prima, la responsabilità del medico (o della struttura) non è esclusa, ma il risarcimento dovrà essere diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Secondo la Corte di Cassazione, l'errore in cui sono caduti i giudici di merito nel caso concreto risiede nell'aver presunto l'incidenza causale del rifiuto quale causa concorrente ex art. 1227, comma 1 c.c. deducendo automaticamente che: «in ambiente ospedaliero, il paziente - che può essere seguito da una equipe di medici - è molto più tutelato per cui è normale pensare che il danno procurato dall'errore terapeutico del Ca.Sa. avrebbe potuto essere attenuato». Al contrario, come esposto, tale incidenza causale deve essere valutata nel caso concreto, senza che si possa presumere automaticamente che il rifiuto del ricovero da parte del paziente concorra necessariamente a causare il danno. |